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Triste o depresso? Al giorno d’oggi i due termini sono usati come sinonimi, ma si tratta di due condizioni profondamente diverse. Conoscere la differenza tra le due e capire quando è necessario chiedere aiuto è il primo passo per riuscire a superare una grave malattia come la depressione.

tristezza

Ciascuno di noi, nel corso della nostro travagliata vita, sperimenta prima o poi dei sentimenti di forte tristezza. Che sia a causa di un lutto, di un periodo di intensa difficoltà, di una delusione o anche solo una percezione di solitudine, è assolutamente normale sperimentare tristezza. Come le altre emozioni, fa parte del nostro essere umani.

Per qualcuno però non si parla di semplice tristezza: quando il tempo non sembra aiutare, quando il dolore sembra essere assolutamente insopportabile, quando tutto è stancante, difficile e confuso, quando diventa faticoso anche solo alzarsi dal letto la mattina, potremmo essere di fronte a qualcosa di molto più serio e pericoloso della “tipica” tristezza. Potremmo ritrovarci a soffrire di depressione.

Ma come distinguere quando siamo di fronte a una normale tristezza da quando ci troviamo ad annaspare nello scuro oceano della depressione? Qui di seguito una lista di 7 importanti differenze tra tristezza e depressione, nella speranza di fare un po’ di luce tra ciò che si nasconde dietro questi due termini.

1. Perdita di interesse ed energia nelle attività

Quando si è tristi, generalmente non si perde interesse per le attività che di solito ci piace fare. Quando ci dedichiamo a queste attività, come il guardare una serie tv o leggere un libro, riusciamo in qualche modo a “distrarci”uando uan

e il nostro umore tende a migliorare, anche solo temporaneamente. Anche una chiamata da un amico, un aperitivo al bar o una passeggiata in compagnia spesso possono essere di aiuto per superare la tristezza del periodo, e col tempo si riuscirà a tornare nella condizione di trarre nuovamente piacere dalle cose che ci piacciono.

Con la depressione le cose non stanno così. In questi casi si parla di anedonia, ovvero la completa perdita di interesse verso attività che una volta venivano considerate piacevoli e l’apparente impossibilità a provare sentimenti piacevoli da queste. Si tratta di un segnale molto importante, da non sottovalutare: se provi difficoltà a dedicarti e a trarre piacere da attività che per te sono sempre state “piacevoli” è importante che cerchi un aiuto professionale.

Un’altra caratteristica simile della depressione è la cosiddetta abulia, ovvero la sensazione di non avere né energie né volontà di svolgere una qualsiasi attività, anche i normali impegni quotidiani. Invece quando una persona sta vivendo un periodo di “normale” tristezza, solitamente riesce, anche se a volta con più fatica del solito e con minor entusiasmo, a svolgere le proprie attività e ad andare incontro alle proprie responsabilità. Insomma, continua a “funzionare”.

2. Assenza di cause definite

Un’altra importante ma più sfumata differenza tra la tristezza e la depressione è rappresentata dalle cause di un umore basso. Solitamente, la tristezza è conseguenza più o meno diretta di qualcosa (o di più cose) che ci sono successe: può essere la fine di una storia d’amore, la perdita di una persona cara, un importante cambio di vita, una serie di frustrazioni a lavoro, e così via.

Per chi soffre di depressione, invece, tutto appare meno chiaro e diventa difficile individuare una o più cause specifiche che possano giustificare un così forte abbassamento dell’umore. Nella depressione ogni evento viene sperimentato e interpretato secondo una complessa interazione di pensieri, emozioni e comportamenti che potrebbe potenzialmente renderlo “causa” di una forte tristezza, quindi spesso non è facile individuare uno specifico trigger che ha innescato un abbassamento dell’umore.

In parole povere: tutto e niente possono essere causa di depressione, e se si fatica a trovare una causa specifica può essere un indizio di una condizione di vera e propria depressione. Quando una persona è semplicemente triste, sa perché lo è. Chi è depresso, invece, sa solo di stare male.

3. Difficoltà di concentrazione, di attenzione e di pensiero

Quando si prova una forte tristezza diventa difficile riuscire a concentrarsi e a portare la propria attenzione dove vorremmo dirigerla. Spesso questo succede perché si ha la mente “ingombrata” da preoccupazioni e pensieri relativi a cosa ci è successo che ci ha portato a sperimentare questa tristezza (cioè alle “cause” di cui abbiamo parlato sopra). Si tratta comunque di un effetto temporaneo: con il passare delle ore e dei giorni, la nostra mente tende a “sgomberare” questi pensieri e le nostre energie mentali possono nuovamente dirigersi verso le altre funzioni cognitive come l’attenzione, la memoria e la concentrazione.

Nella depressione, invece, l’effetto dell’intricata rete di pensieri, emozioni e comportamenti che la caratterizzano ha un’influenza decisamente più significativa. Ogni cosa diventa più difficile, e persino un compito relativamente semplicemente come leggere poche frasi o svolgere una semplice addizione può diventare praticamente impossibile. Diventa difficile dirigere la propria attenzione, ragionare con fluidità o anche prendere decisioni che normalmente non comportano alcuna difficoltà.

I pensieri di una persona che soffre di depressione risultano spesso impoveriti, ripetitivi, confusi. Tutto diventa faticoso, ogni cosa sembra rallentata, e questo si riflette anche a livello fisico, con la presenza di un forte senso di stanchezza, perdita di energie e rallentamento nei movimenti.

4. Sentimenti di scarso valore, autocritica e perdita di speranza

A seconda del perché ci sentiamo tristi possiamo provare sentimenti di colpa, di inadeguatezza, una percezione di scarso valore o anche una temporanea perdita di speranza per il nostro futuro. Questi pensieri e sentimenti, tuttavia, possono venire facilmente mitigati dal supporto e dalle parole positive di chi ci sta intorno: familiari e amici spesso ci consentono di guardare alle cose da una prospettiva più benevola e rassicurante, e questo infatti ci aiuta a spazzar via i pensieri negativi che si accompagnano a una “normale” tristezza.

Purtroppo questo non vale per chi soffre di depressione. La percezione di non avere uno scopo nella vita, il mancato riconoscimento del proprio valore, la presenza di forti sensi di colpa e di pensieri autopunitivi, la costante e feroce critica verso sé stessi, insieme a una significativa perdita di speranza nella possibilità di essere aiutati e nei confronti di un futuro a tinte fosche: questi elementi sono talmente intensi e pervasivi che difficilmente possono venire intaccati dalle parole di chi ci vuole bene.

Anche qui, dunque, la differenza più evidente tra la depressione e una “semplice” tristezza sembra risiedere nel carattere transitorio e meno intenso dei pensieri negativi di quest’ultima condizione.

5. Pensieri suicidari

Quando una persona sperimenta pensieri legati al suicidio, soprattutto se ricorrenti, e prova un forte desiderio di non voler più vivere, siamo già oltre la tristezza. Questi pensieri spesso sono il risultato finale di una spirale negativa che parte proprio dai sentimenti di scarso valore e perdita di speranza di cui abbiamo parlato sopra.

Chi sperimenta normalmente una condizione di tristezza semplicemente non arriva ad avere intenti suicidari. La presenza di questi pensieri sono quindi un chiarissimo segnale che siamo di fronte a una depressione. Ed è un segnale che non va assolutamente sottovalutato.

Quindi se vi trovate a sperimentare questo tipo di pensieri, o vi accorgete che qualcuno a voi vicino manifesta questo tipo di intenzioni, vi prego di parlarne con qualcuno di fidato e di cercare immediatamente aiuto. Riconoscere di avere bisogno di aiuto non è segno di debolezza, ma un atto di grande forza e coraggio.

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6. Disturbi del sonno

Quando siamo tristi è normale aspettarsi qualche difficoltà legata al sonno. I pensieri che ci frullano per la testa possono tenerci svegli la notte e rendere difficile l’addormentarsi. Ci sta perdere qualche notte di sonno ogni tanto, non è nulla di grave. Quando finirà la perturbazione emotiva, così come l’infelicità e la tristezza diminuiranno e la mente tenderà a sgombrare i pensieri negativi, anche le nostre routine legate al sonno si ristabiliranno normalmente.

Con la depressione il sonno risulta altamente disturbato: si osservano spesso lunghi periodi di insonnia, difficoltà di addormentamento e risvegli precoci. Quando queste difficoltà persistono per molto tempo, l’effetto sul fisico può essere molto intenso: stanchezza persistente, dolori muscolari, mal di testa sono conseguenze piuttosto tipiche. Quando poi la persona che soffre di depressione ha già forti difficoltà nell’intraprendere anche le attività più semplici o sembra mancare di energia anche solo alzarsi dal letto, si attiva un circolo vizioso di stanchezza, inattività e mancanza di riposo che rende tutto ancora più complicato. E ancora più difficile uscirne.

Insomma: se sperimentiamo importanti problematiche legate al sonno e per lunghi periodi di tempo, potremmo trovarci davanti a qualcosa di più di una “semplice” tristezza.

7. Perdita di appetito e cambiamenti del peso corporeo

A diverse persona capita di sentirsi “lo stomaco chiuso” quando si attraversa un periodo di tristezza, mentre altri ancora si attaccano al cosiddetto “comfort food”. Insomma, l’abbassamento di umore può avere degli effetti significativi anche sui livelli di appetito e sulle routine alimentari, e nelle persone maggiormente predisposte può tradursi anche in un cambiamento del peso. Ad ogni modo, il tipico decorso transitorio di un singolo episodio di tristezza porta solitamente a un ritorno del normale regime alimentare e di attività fisica.

Nella depressione questo periodo di sregolatezza alimentare può persistere per molto più tempo e, come per il sonno, gli effetti sul corpo possono essere più evidenti e addirittura potenziare gli altri sintomi della depressione, ad esempio per quanto riguarda i livelli di energia e l’alterazione di importanti funzioni corporee.

Sperimentare importanti cambiamenti di peso, la forte diminuzione o la completa perdita dell’appetito sono campanelli d’allarme molto importanti che suggeriscono la possibile presenza di una depressione.

In conclusione

Tristezza e depressione sono termini che nel linguaggio comune sono utilizzati in maniera intercambiabile. Fin quando ci si sofferma sulle parole non c’è alcun problema, ma quando si sperimentano sentimenti di infelicità, disperazione e solitudine è invece molto importante capire la differenza che passa da una normale, transitoria (e a volte salutare) esperienza di tristezza e una condizione grave, persistente e decisamente pericolosa come quella della depressione.

Se ti rivedi tra i sintomi elencati sopra, il mio consiglio è di cercare immediatamente un supporto. Parlane con chi ti sta vicino e rivolgiti a un professionista. Dalla depressione si può uscire, ma il primo passo è chiedere aiuto.

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Ogni giorno la vita ci pone di fronte a eventi, grandi e piccoli, che in qualche modo ci fanno stare male o comunque ci creano un senso di disagio. Si tratta di esperienze che sono parte integrante della vita e che spesso non è possibile evitare. Ma è possibile imparare a comprenderle e a valutarle da un’altra prospettiva, così da evitare di soffrire più del dovuto?

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Tanto tempo fa, quando la psicologia come la conosciamo non era ancora nata, un semplice uomo scoprì una verità tanto semplice quanto apparentemente difficile da comprendere e da applicare. E cioè che quando ci capita qualcosa di negativo, non soffriamo solo per l’esperienza dolorosa in sé, ma anche e soprattutto per il modo in cui reagiamo a questa esperienza.

Egli trasmise questo insegnamento tramite l’immagine di un uomo che, dolorante per essere stato colpito da una freccia, si lascia catturare da un vortice di valutazioni sull’esperienza stessa e finisce per soffrire molto più del necessario. Come se fosse stato colpito non da una, ma da due frecce.

Insomma, costui fu tra i primi a rendersi conto dell’effetto che i nostri pensieri possono avere sulle esperienze che viviamo. E certamente fu anche uno dei primi a cercare e a tracciare un sentiero che potesse condurre alla fine dell’universale condizione di sofferenza dell’essere umano. Questo semplice uomo altri non è che colui che viene comunemente riconosciuto come il Buddha.

Le parole che seguiranno non hanno né lo scopo né la pretesa di risolvere una volta per tutte ogni tua sofferenza, ma sono piuttosto una riflessione su alcuni meccanismi, comuni a tutti, che non fanno altro che ingigantire qualunque sofferenza a cui andiamo inevitabilmente incontro …e chissà, magari scoprire cosa si può fare per evitare di soffrire più del necessario.

Tiro al bersaglio

Ogni giorno, inevitabilmente, ci troviamo a vivere esperienze più o meno spiacevoli. Si va dai piccoli inconvenienti, come il pc che si “impalla” all’improvviso o il rosso del semaforo che scatta proprio quando toccava a noi passare (e siamo già in ritardo), a eventi più significativi e dolorosi, come la perdita del lavoro, la fine di una relazione o il ripresentarsi di un dolore cronico.

Queste esperienze, inutile girarci intorno, fanno parte della vita. Alcuni giorni va tutto relativamente bene, e nulla di negativo (o di significativo) sembra colpirci, mentre in altri siamo costantemente bombardati da eventi spiacevoli, piccoli o grandi che siano. Come se fossimo un bersaglio da arciere, impotenti in attesa della prossima freccia che ci verrà scoccata contro.

Insomma: normalmente veniamo sottoposti, contro la nostra volontà, a numerosi stimoli che possono causarci sofferenza. E già così la nostra vita appare già sufficientemente dura. Ma non finisce qua. Non facciamo neanche in tempo a renderci conto di essere stati colpiti da una freccia che, quasi istantaneamente, ne arriva subito una seconda.

La seconda freccia

In pratica, succede questo: quando ci capita qualcosa di spiacevole, piccola o grande che sia, invece che semplicemente riconoscerla e cercare, se possibile, di rimediare, ci lasciamo catturare da un flusso di pensieri ed emozioni negative su quanto orrenda sia la situazione nella quale ci siamo trovati.

Se attiviamo un interruttore e si brucia la lampadina, invece che riconoscere che è un qualcosa che può capitare (e che, a conti fatti, non è poi tutto questo dramma) e che basterebbe sostituirla con una nuova, automaticamente si attiva una reazione negativa sotto forma di pensieri tipo “Perché deve sempre capitare a me? Perché proprio adesso che ho tante cose più importanti da fare? Sono sicuro che anche se la cambio fra una settimana mi capiterà di nuovo!”. Praticamente non ci diciamo mai “Perdindirindina, è saltata la lampadina! Fa nulla, ora la cambio!”, ma piuttosto tendiamo a reagire in maniera spesso spropositatamente negativa.

Questa è la seconda freccia: una serie di reazioni che si attivano automaticamente quando ci capita qualcosa di spiacevole. Ed è proprio questa seconda freccia che può farci più male. Perché è proprio questo flusso di pensieri, emozioni e sensazioni negative a potenziare ulteriormente la sofferenza dell’esperienza originale e a provocare, in ultima analisi, livelli di ansia e di stress ancora più elevati del dovuto.

Quello della lampadina è un esempio di un evento relativamente insignificante, eppure potrebbe scatenare una reazione negativa e stressante che spesso è peggiore dell’esperienza originale in sé. E quanto possono essere dolorose le emozioni e i pensieri che possono scaturire da sofferenze ben più grandi? Cosa possiamo arrivare a dirci quando finisce una relazione (“Non me ne va mai bene una, resterò solo per tutta la vita) o quando perdiamo il lavoro (“Sono rovinato, resterò per sempre disoccupato e finirò sotto i ponti”)?

Tra l’arciere e il bersaglio

Ma se la prima freccia viene scagliata, diciamo così, “dalla vita” …chi è che scaglia la seconda? Esatto, siamo noi stessi a scagliarla. Noi, che in quei momenti siamo sia vittima che carnefice, sia arciere che bersaglio.

È chiaro che non è un qualcosa che facciamo volontariamente (chi mai lo farebbe, e soprattutto: perché farlo?!), eppure le cose stanno così. Non è colpa nostra, sia ben chiaro: sono abitudini che abbiamo appreso, sviluppato e rinforzato per tutta la nostra vita, supportati dalla naturale tendenza dell’essere umano a “usare troppo il cervello”.

Non è colpa nostra, sì, ma resta comunque una nostra responsabilità non permettere di farci ferire anche dalla seconda freccia. Se la prima è inevitabile, la seconda si può evitare. Anche se non è sempre facile.

L’esperienza in prospettiva

Non è facile proprio perché questa seconda freccia viene scagliata in maniera automatica, e non abbiamo quasi mai la prontezza di accorgerci di cosa ci sta accadendo in quel momento, osservarlo nella giusta prospettiva e rispondere nella maniera più adeguata. È tutta una vita che ci portiamo dietro queste abitudini a esagerare e ad aspettarci il peggio, a giudicare negativamente non soltanto quello che ci capita, ma spesso soprattutto noi stessi. Per questo non è facile.

Ma le abitudini si possono cambiare, per fortuna. E il primo passo è proprio quello di rendersi conto di come le nostre tendenze a ingigantire, amplificare e dilatare la negatività di ciò che ci succede nella vita fanno sì che la nostra vita appaia ancora più difficile di quanto normalmente lo sia già. E di come la sofferenza che proviamo sia maggiore di quella che potremmo realmente provare.

Occorre cioè mettere le cose in una nuova prospettiva. Come? Puoi provare con le “4 R”:

  1. Respira. Quando succede qualcosa, prenditi qualche istante di pausa. I problemi e gli inconvenienti non scappano, ma tu puoi concederti un piccolo momento per fermare tutto e portare l’attenzione a cosa sta succedendo.
  2. Ricorda che le esperienze spiacevoli, piccole o grandi che siano, o il fatto che le cose non sempre vadano come desideri, sono aspetti inevitabili e normali della vita.
  3. Riconosci i pensieri che sono emersi col sorgere dell’esperienza. Cosa hai pensato? Cosa ti è passato per la testa?
  4. Rivaluta questi pensieri sull’esperienza spiacevole secondo una diversa e più ragionevole prospettiva. È possibile che ciò che hai pensato sia esagerato se non addirittura falso? Come puoi pensarla diversamente?

Piccoli passi

Insomma, sii consapevole del flusso di pensieri che si è innescato in seguito all’esperienza e mettili in discussione adottando una prospettiva più ragionevole su ciò che in realtà è accaduto o sta accadendo in questo momento.

È chiaro che un conto è rivalutare la frustrazione per una lampadina che si è bruciata, un altro è considerare sotto una luce diversa un evento come la fine di una relazione. Ma il meccanismo è lo stesso. Comincia quindi dalle cose più facili, come quando ti si “impalla” il computer o versi una bevanda sul pavimento.

Più diventi bravo a mantenere la calma e a non lasciarti catturare dalla corrente dei pensieri e delle emozioni negative quando ti capita qualcosa di “piccolo”, più sarà facile affrontare anche le situazioni più “grandi”. Tornando alla metafora della seconda freccia: prima impari a evitare le freccette, prima riuscirai a evitare i giavellotti.

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Dolore e sofferenza

Il messaggio di fondo, comunque, è una grande verità che purtroppo non è così facile comprendere, almeno all’inizio. Questo messaggio è molto semplice, e viene così riassunto in un bel libro di Henepola Gunaratana: “il dolore è inevitabile, la sofferenza no”.

In pratica: ci sono sì cose che ci fanno male, ma è il nostro modo di reagire a queste cose che può finire per farci ancora più male.

…e visto che siamo in vena di riflessioni, augurandovi (per quanto possibile) la cessazione di ogni sofferenza, vi lascio con una riflessione del saggio Thich Nhat Hanh:

Il dolore può anche essere inevitabile, ma il fatto di soffrire o meno dipende da te. Soffrire è una scelta, tu scegli se soffrire o meno.

Nascita, vecchiaia e malattia sono naturali. È possibile non soffrire a causa loro, quando hai scelto di accettarle come parte della vita. Puoi scegliere di non soffrire benché vi siano dolore o malattia.

Come vedi la vita e la tua particolare situazione dipende dal tuo modo di guardare.

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Quando qualcuno a cui vogliamo bene soffre a causa dell’ansia spesso non sappiamo come possiamo davvero aiutarlo. Vediamo insieme cosa si può fare concretamente per supportare al meglio chi ci è vicino e soffre di un disturbo d’ansia.

aiutare ansia

Non è facile, per un amico, un familiare o un partner, vedere qualcuno al quale si vuole bene soffrire quotidianamente a causa dell’ansia. Vorresti aiutarli ad affrontare e superare la loro condizione, ma non sai come fare. Vorresti trovare le parole giuste per sostenerli, ma non sai cosa dire.

Quella con l’ansia è una lotta quotidiana per chi ne soffre, ma anche chi sta loro vicino paga un prezzo alto. Sentimenti di impotenza e di frustrazione sono decisamente comuni: assistere ogni giorno alla sofferenza di chi vogliamo bene può essere fonte di grande dolore, e c’è chi addirittura comincia a sviluppare a sua volta dei problemi d’ansia. Quando il dolore e il risentimento raggiungono livelli limite, c’è anche il rischio concreto che la relazione possa incrinarsi. Questi e altri possono essere gli effetti collaterali dei disturbi d’ansia.

Proviamo a vedere insieme cosa si può fare concretamente per aiutare e sostenere una persona che soffre d’ansia, ma anche cosa fare per cercare di evitare, per quanto possibile, alcune conseguenze negative per chi offre la propria vicinanza e il proprio supporto.

C’è ansia e Ansia

Innanzitutto bisogna capire che soffrire di un disturbo d’ansia non è come quando si prova un’ansia “normale”. Non è l’ansia che si prova quando devi uscire con una persona che ti piace tanto, né quella che si prova quando sei in ritardo per un appuntamento importante e la metro non passa.

È qualcosa di molto più complesso, più intenso, più “totale”. È un’esperienza decisamente molto più spiacevole di quanto normalmente si possa sperimentare, qualcosa che può sembrare incontrollabile e che ti fa sentire impotente davanti a qualcosa che sembra molto più grande di te, degli altri, di ogni cosa.

Ad esempio: hai idea di cosa si prova durante un attacco di panico? Sai che uno dei possibili sintomi è la sensazione di una morte o di una pazzia imminente, assieme a sintomi fisici che ricordano molto degli attacchi cardiaci? Prova a immaginare cosa può essere vivere più volte un’esperienza del genere.

Insomma, se l’ansia fosse soltanto nervosismo e sudorazione non ci sarebbe bisogno di prenderla così seriamente (e io sarei disoccupato). Invece l’ansia, quando è così intensa, è un qualcosa di maledettamente serio.

Se non hai mai provato quell’ansia può essere molto difficile empatizzare con chi ne soffre e capire cosa stia passando, quanto stia soffrendo e quanto sia difficile affrontarla. Quindi se provi a “curare” l’ansia del tuo amico credendo di capire cosa sta passando, sei fuori strada. Anzi, rischi di fare ulteriore danno: all’altra persona, ma, come vedremo, anche a te stesso. Questo non significa che non puoi fare nulla per aiutarla, ma piuttosto che, a volte, conviene fare un passo indietro e dimenticare ciò che si pensa di sapere sull’ansia.

Non ci resta, a questo punto, che cominciare dalle basi.

Cosa dire e cosa non dire

Quando ci troviamo di fronte a una persona in preda all’ansia non è semplice capire cosa dire (o non dire) in quel momento. Alcune frasi sono sicuramente da evitare, come queste:

  • “Stai bene? Tutto ok?”. Durante un attacco d’ansia il cuore batte a più non posso, tutto il corpo è in tensione, le mani tremano, il respiro sembra mancare… quindi meglio evitare di chiedere come va o se stanno bene. Perché no, non stanno bene. E sì, pensano che il mondo gli stia crollando sotto i piedi. Prova a chiederti: stai cercando di rassicurare loro o te stesso?
  • “Non c’è motivo per stare in ansia”. Parla per te! È chiaro che un motivo c’è, magari può sembrare assurdo e assolutamente irrazionale, ma in quei momenti non è così semplice riuscire a osservare con distacco cosa sta succedendo. Inoltre, è una frase che fa (giustamente) arrabbiare parecchio.
  • “Ma smettila! Perché non ti rilassi?”. Beh, se fosse così semplice l’avrebbe già fatto, credimi! Anche espressioni di questo tipo fanno particolarmente girare le scatole, e certamente non è quello che una persona in ansia vorrebbe sentirsi dire da qualcuno che in teoria dovrebbe volergli bene.

Cosa dire allora? Innanzitutto dipende molto dalla persona che abbiamo davanti. Potrebbe essere lei stessa a suggerirci cosa è meglio dirle (e non dirle) in quei momenti. Premesso che a volte è meglio stare semplicemente in silenzio e aspettare che tutto passi, in generale l’atteggiamento migliore è quello di mostrarsi pazienti, presenti e disponibili: se puoi anche solo semplicemente ascoltare ciò che l’altro dice stai già offrendo un grande supporto.

Nel migliore dei casi, la persona ha già cominciato un percorso terapeutico. Se così fosse, chiedile di condividere le strategie concordate con il terapeuta, così da poterle suggerire nei momenti di crisi.

Ascoltare e parlare

Non è facile per chi soffre d’ansia riuscire a parlare del loro problema, perché è difficile non sentirsi giudicati quando si condividono paure così intime. È anche difficile non giudicare, perché a volte il desiderio di vedere l’altra persona stare meglio fa affrettarci a dare consigli e indicazioni, più che semplicemente stare ad ascoltare.

Semplicemente stare ad ascoltare può sembrare poco, ma in realtà è tutto: comunica disponibilità, apertura, accettazione. Significa far capire alla persona a cui vuoi bene che con te può parlare liberamente e senza timore di essere giudicata, che sei a lei vicina e che qualunque cosa dirà (anche se la sentirai più e più volte nel corso del tempo), ciò che provi per lei e ciò che pensi di lei non cambierà.

E solo dopo, quando il momento sarà quello giusto, sarà il tempo dei consigli e delle opinioni. E dopo ancora, quando la tempesta sarà ben lontana, sarà il tuo turno di parlare. Perché vedere una persona a cui teniamo soffrire così ha un effetto anche su di te, e lo sai bene: non c’è solo il dispiacere, la preoccupazione, la compassione, ma anche il risentimento, la frustrazione, l’impotenza.

Esprimere ciò che proviamo e come ci sentiamo, quando la situazione è appropriata e con la giusta dose di tatto e buon senso, è l’antidoto al tenersi tutto dentro per poi esplodere rinfacciando questo e quello, in una spirale di sensi di colpa e vergogna. Ma anche per evitare che la relazione si raffreddi, a causa di un “non detto” che in realtà potrebbe dire molto di più di quanto potrebbero le parole, e con molta più forza. Facendo così ancora più danno al rapporto dell’ansia stessa.

Cosa non fare

Come abbiamo visto, avere a che fare con chi soffre d’ansia non è semplice: anche noi possiamo risentire enormemente di questo problema, anche se sulla carta appartiene esclusivamente all’altro.

Non sempre è facile capire cosa è possibile fare di concreto per aiutare l’altro, ma di sicuro ci sono alcune cose che sarebbe meglio evitare quando ci relazioniamo a un nostro caro che soffre d’ansia:

  • Non andare in ansia! Avere a che fare con una persona in preda all’ansia può …mettere ansia! Lavora sulle tue reazioni a queste situazioni: è importante non solo per te, ma anche perché il tuo modo di reagire può avere un effetto anche su ciò che prova l’altro (che poi è lo stesso meccanismo che hai vissuto sulla tua pelle!). Insomma: se vai in ansia tu, l’altra persona sarà ancora più in ansia!
  • Non prenderla sul personale. Se avete dovuto cancellare dei piani all’ultimo momento a causa di un attacco d’ansia, non è un qualcosa che è stato “fatto apposta”. Se l’altra persona ti risponde in maniera sprezzante o irritata, se ti viene detto che è stato un tuo gesto o una tua parola a innescare l’ansia, potrebbe non essere la persona a parlare, ma la sua ansia. Si tratta di effetti collaterali dell’ansia, che potrebbero avere un impatto anche su di te. Quindi, anche se non è facile, non prendertela e prova a perdonare, per quanto ti è possibile.
  • Non è compito tuo salvarla. Le puoi stare vicino, ascoltarla, metterti a disposizione, supportarla, mostrare il tuo amore e la tua comprensione… ma quella con l’ansia è una battaglia personale che non puoi combattere al posto suo. Puoi motivarla e fare il tifo per lei (e te ne sarà grata, credimi), ma se vuoi davvero aiutare la persona alla quale vuoi bene c’è tanto altro che puoi fare.

Cosa fare

Ecco, cosa si può fare allora? Di seguito alcune indicazioni generali sul come essere concretamente d’aiuto per l’altra persona:

  • Fai capire che ci sei. L’ansia fa sentire le persone perse e sole, e sapere che c’è qualcuno disponibile ad ascoltarle quando ne hanno più bisogno può essere d’aiuto nel ridurre questi vissuti negativi. Resta comunque in ascolto anche dei tuoi vissuti: il rischio di farsi eccessivamente carico della situazione c’è sempre.
  • Proponi qualcosa da fare insieme. Qualunque attività che possa mettere da parte l’ansia anche solo se per poco e che permetta di sperimentare nuove emozioni positive va più che bene. Fare qualcosa che possa farvi divertire e sentire attivi è utile a entrambi per non cadere nell’apatia dell’ansia e per rinforzare la relazione. È importante comunque non forzare l’altro e scegliere insieme qualcosa che possa farlo sentire a proprio agio.
  • Conosci il (vostro) nemico. Fondamentale per capire come aiutare l’altro è comprendere cos’è l’ansia, cosa si prova ad averla, cosa si può fare per uscirne. Non è facile, per chi ne soffre, spiegare cosa significa provare ansia, quindi la cosa migliore da fare è cominciare a informarsi da sé! Fai delle ricerche, chiedi informazioni a dei professionisti del settore… ma soprattutto segui il mio blog e la mia pagina Facebook!
  • Aiuta a chiedere aiuto. Essere comprensivi e offrire il proprio supporto sicuramente è utile, ma non risolve il problema. L’unico modo per farlo è lavorarci, ma raramente ci si riesce da soli. Incoraggia chi vuoi bene a cercare aiuto, in modo che possa davvero lavorare sulla propria ansia. Io, come sempre, sono a disposizione! ;)

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Incoraggia e sostieni

Superare l’ansia è sempre possibile, ma si tratta di un percorso che può essere più o meno lungo, ed è difficile che non compaiano ostacoli lungo il cammino. A volte andrà meglio, altre peggio. A volte le paure cambieranno, si evolveranno, poi andranno via. Spesso l’ansia è lì da molto tempo, al punto da essere diventata una modalità di funzionamento automatica: ci vuole tempo per “riprogrammarsi”.

Il compito di sconfiggere l’ansia non spetta a te, ma in tutto questo tu puoi fare la differenza. Perché nei momenti di difficoltà è importante che ci sia qualcuno che possa infondere speranza e ricordare che l’ansia non ci sarà per sempre. Perché ad ogni passo in avanti della persona a cui vogliamo bene, anche se può sembrare piccolo, c’è bisogno di qualcuno che festeggi con lei, che la incoraggi a continuare a combattere, a farle sentire che c’è qualcuno che è orgoglioso di lei.

E quel qualcuno puoi essere tu.

Se in questo momento c’è una persona nella tua vita che sta soffrendo, qualunque sia il problema, stalle vicino come già fai ma sostienila nel cercare aiuto. Non è tua responsabilità il benessere dell’altro, ma puoi comunque dare un’enorme mano nel cammino verso la guarigione.

Credimi: al suo posto vorresti qualcuno che facesse lo stesso per te.

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Preoccuparsi è normale, a volte persino utile. Quando però la preoccupazione diviene un’attività fine a sé stessa, che non porta a nulla se non a disperarci, l’unica cosa che ci resta da fare è passare all’azione. O accettare l’incertezza.

preoccupazione

Preoccuparsi può sembrare una buona cosa. E, in effetti, in certi casi lo è. Ad esempio, quando le nostre preoccupazioni ci aiutano nel mantenere un buono stato di salute: sottoporsi a screening periodici, seguire una dieta salutare o rivolgersi ad uno psicologo(!) sono tutti esempi di comportamenti motivati da una qualche preoccupazione.

Insomma: potremmo dire che una preoccupazione è “buona” quando ci porta ad agire nel nostro interesse, ovvero a misurare i rischi potenziali di alcune situazioni e prendere provvedimenti per scongiurarli. Preoccuparsi può diventare un problema quando diventa un’attività fine a sé stessa, senza alcuna rilevanza pratica. Cioè un semplice esercizio di pensiero con contenuti ripetitivi, intrusivi, incontrollabili e, soprattutto, decisamente catastrofici.

Preoccuparsi in maniera eccessiva può essere fortemente debilitante. Le preoccupazioni attivano inevitabilmente una normale e funzionale reazione di stress nel nostro organismo, ma quando questa reazione viene sollecitata frequentemente può portare a conseguenze decisamente negative. Inoltre preoccupazioni eccessive possono facilmente portarci a sperimentare vissuti di impotenza e di mancanza di controllo, che, oltre ad essere di per sé spiacevoli, non hanno altro che generare ulteriori preoccupazioni o potenziare quelle che già abbiamo.

Viaggio nelle preoccupazioni

Anna lavora come segretaria in uno studio medico. È una ragazza precisa, puntuale e affidabile. In un giorno qualunque, però, si ritrova alla fermata dell’autobus insieme a molti altri pendolari che aspettano, ormai da molto tempo, un mezzo che non accenna ad arrivare. Già dopo i primi minuti di ritardo comincia ad affacciarsi una prima preoccupazione: “Farò sicuramente tardi… E se il dottore dovesse arrabbiarsi?”

I minuti passano, le persone in attesa aumentano, ma dell’autobus non c’è traccia. Anna cammina su e giù, persa nel filo dei suoi pensieri: “Ci saranno delle persone in attesa di entrare, sicuramente arrabbiate per averle fatte aspettare tutto questo tempo. E se se ne lamentassero con il dottore? Potrebbe arrabbiarsi ancora di più! E se decidesse di licenziarmi?”

Quando finalmente arriva il mezzo, Anna si prepara all’assalto dell’autobus. Sgomitando, riesce a salire a bordo, ma si ritrova stipata tra una moltitudine di persone arrabbiate e infreddolite, qualcuna pure maleodorante. Al suo fianco, un signore di una certa età starnutisce senza sosta. Costui purtroppo ha le mani occupate a reggerlo agli “appositi sostegni”, quindi non può disporle a conchetta per contenere i germi espulsi dal naso e dalla bocca.

Anna vede i germi atterrare dolcemente sui suoi vestiti, sui suoi capelli, sul suo viso. “Che schifo! Ci manca soltanto che mi ammali! Oddio, non voglio ammalarmi! Se dovessi prendermi dei giorni al lavoro… non voglio nemmeno pensarci! Il dottore andrà su tutte le furie! Dopo il ritardo e tutti i disagi che ho causato, sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso!”

Il tragitto verso il lavoro è, ovviamente, costellato da ulteriori ritardi: traffico, lavori in corso, resse e risse ad ogni successiva fermata. Anna ha avuto tutto il tempo di continuare a rimuginare su tutte le preoccupazioni che le sono passate per la testa, ed ormai è praticamente convinta che verrà disprezzata e umiliata dal datore di lavoro e dai pazienti, perderà quindi il lavoro e si troverà senza una lira. E per di più ammalata.

Il rimuginio

In psicologia, la preoccupazione “patologica” viene chiamata rimuginio. Il rimuginio consiste essenzialmente in una modalità di pensiero che presenta le seguenti caratteristiche:

  • Ripetitivo: il pensiero si ripresenta di continuo
  • Negativo: il contenuto del pensiero è incentrato su eventi negativi che potrebbero succedere o che sono già accaduti
  • Incontrollabile: il pensiero sembra non possa essere fermato
  • Astratto: il pensiero non è orientato all’azione, ma solo alla produzione di altri pensieri
  • Assorbente: il pensiero impedisce di concentrarsi su altri pensieri al di fuori di quelli legati alla preoccupazione

Ma a che serve un pensiero di questo tipo? Lo scopo del rimuginio, in ultima analisi, è quello di ridurre l’incertezza. Se ci sentiamo poco capaci di controllare eventi dall’esito incerto, ecco che il rimuginio ci aiuta, seppure in modo perverso, a darci un falso senso di prevedibilità e di controllo.

Questa modalità di pensiero si serve infatti della nostra immaginazione per presentarci diversi scenari possibili (di solito decisamente catastrofici) in modo da poter anticipare e indirettamente controllare un futuro evento temuto (o le conseguenze di un evento passato). E qui si scopre la trappola:

  • se l’evento temuto si verifica (può sempre capitare, ma di solito non in maniera così catastrofica come immaginato), rimuginare si rivela utile perché effettivamente ci ha fatto prevedere cosa sarebbe accaduto (“Te l’avevo detto io!”)
  • se l’evento temuto non si verifica, rimuginare può averci aiutato a prepararci al peggio o a risolvere un problema, o addirittura ha “magicamente” impedito che l’evento si verificasse

Perché è una trappola? Perché, di riffa o di raffa, il rimuginare ha funzionato. E puoi scommetterci che la prossima volta sarà più probabile adottare questa strategia. Che, come la prima volta, continuerà a funzionare. Fin quando non diventerà, inevitabilmente, una delle modalità di fronteggiamento dell’incertezza più efficaci (!?) del tuo repertorio.

Oltre al rafforzamento di questa risposta, però, c’è un altro aspetto che tenderà ad ingigantirsi: la tua percezione di essere insicuro, debole, spaventato e in balia degli eventi. Il che ti renderà ancora più preoccupato di fronte a eventi del cui esito sei incerto o che sono al di fuori del tuo totale controllo.

Insomma, il rimuginio ci illude di poterci fornire una qualche forma di controllo di fronte all’ignoto ma ci mantiene in una condizione di ansia che diventerà via via sempre più invalidante.

Tra palco e realtà

Possiamo quindi immaginare il rimuginio come una versione estremizzata della tipica preoccupazione. Un’importante differenza tra le due è che il rimuginio è una strategia che viene scelta dall’individuo come strategia per risolvere un problema, che però sfugge di mano fino ad essere percepita come incontrollabile.

Di base, però, sia il rimuginio che la “normale” preoccupazione si presentano come catene di pensieri di carattere negativo, ridondanti e orientati all’astratto. Queste catene di pensieri – composte da frasi, immagini, ricordi – finiscono per piazzarsi al centro del palco, mentre noi puntiamo un bel riflettore a illuminarli. A un certo punto, non vediamo che loro. Non sentiamo che loro, sia con la testa che con il cuore.

Noi, ignari spettatori, pendiamo dalle loro labbra e, in men che non si dica, il veleno è entrato in circolo. Ma se invece che semplici spettatori fossimo dei registi o degli sceneggiatori, cosa noteremmo in realtà? Che questi lunghi e tormentati monologhi interiori sono quasi sempre poco credibili. Insomma, suscitano un’emozione nello spettatore, ma di per sé non hanno molto senso.

I pensieri che accompagnano le preoccupazioni, insomma, risultano piuttosto artificiosi a ben guardare. Questo perché:

  • Non sono importanti: nella prospettiva generale della propria vita, quanto può essere importante il prendersi un raffreddore o fare tardi un giorno al lavoro? Quante cose ci sono successe in passato che lì per lì ci sembravano immense e che ora nemmeno ricordiamo? Si tratta davvero di eventi significativi?
  • Non sono probabili: l’immaginare scenari catastrofici – e le preoccupazioni vanno tutte in quella direzione – non li rende necessariamente probabili. Vabbè che la realta a volta supera la fantasia, ma quanto è probabile che Anna venga licenziata o trattata male perché ha fatto ritardo? Quanto è probabile che finisca a elemosinare a causa di circostanze totalmente al di fuori del suo controllo?

Occuparsi del preoccuparsi

Le argomentazioni che ci presentano le preoccupazioni sono, quindi, piuttosto deboli. Basta un po’ di attenzione ai contenuti e le immense costruzioni che abbiamo immaginato finiscono per dissolversi. Quando sei preoccupato per qualcosa, quindi, puoi provare a porti alcune domande per “tornare” alla realtà:

  • Ammesso che ciò che temo dovesse succedere davvero, qual è il peggior esito possibile? Qual è l’esito più realistico?
  • Ammesso che ciò che temo dovesse succedere davvero, quanto è probabile che fra una o due settimane lo ricordi ancora?
  • Quanto mi è utile, in questo momento, concentrarmi sull’immaginare possibili scenari negativi? Cosa posso fare in questo momento per scongiurare le conseguenze temute? E se non c’è niente che io possa fare, a cosa mi serve perdermi in questi pensieri?

Se hai difficoltà a rispondere a queste domande è possibile che tu sia più dalle parti del rimuginio che della “semplice” preoccupazione. Forse ritieni il preoccuparsi una strategia utile e funzionale, ovvero hai investito le tue preoccupazioni di una rilevanza e di un valore che semplicemente non meritano. In questo caso, il mio consiglio è di cercare una guida e un supporto professionale per uscire da questa trappola, che ha come ultimo effetto soltanto il prolungare la tua sofferenza.

Esistono però anche delle preoccupazioni “pratiche” e maggiormente orientate alla realtà. In questi casi lo scopo non sarà quello di sbugiardare i pensieri negati, ma di trovare delle soluzioni ai problemi per poi lasciar andare le preoccupazioni. Tutto quello che devi fare è agire:

  • Se puoi fare qualcosa, fallo. Considera le varie opzioni, prepara un piano di azione e mettilo in pratica.
  • Se puoi farlo adesso, fallo. Se non puoi farlo adesso aspetta il momento di poterlo fare, ma nel frattempo smetti di angustiarti rimuginando sulle tue preoccupazioni: sposta la tua attenzione verso qualcosa di piacevole o di utile.
  • Se devi necessariamente affrontare qualcosa, non evitarla. Se hai una scadenza da rispettare non ha alcun senso preoccuparsene per giorni: non ti fa bene né ti porta a risolvere il problema. La soluzione, anche qui, è solo una: agire.
  • Se non puoi far nulla, non ha senso preoccuparsi.

preoccupazione

Preoccup-azioni!

Preoccuparsi è normale, fa parte del gioco. Il problema è quando il preoccuparsi non porta a nulla di concreto, se non a una concreta sofferenza.

Spesso dimentichiamo che abbiamo più potere di quanto pensiamo. Ci facciamo schiacciare da prospettive immaginate di disastri incombenti e inevitabili, ma il più delle volte – per fortuna – si tratta sono di innocue allucinazioni.

Perdiamo di vista il fatto che ciò che immaginiamo, le fantasie catastrofiche che ci proiettiamo in testa, anche se incredibilmente coinvolgenti, non sono nulla di reale. Non esistono. Esiste solo la possibilità di prendere in mano la propria vita e affrontare, concretamente, ciò che ci fa stare male.

Invece che perderci in sceneggiati immaginari, agiamo. Perché c’è sempre qualcosa che possiamo fare. Fosse anche l’accettare di non poter fare nulla.

Che non sia questa la chiave per la liberazione?

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Come mai alcune persone reagiscono sempre nello stesso modo in alcune situazioni? E come mai non riescono a smettere di farlo, anche quando le conseguenze sono sempre decisamente negative? Scopriamo insieme come cambiare le nostre reazioni emotive e come gestirle in maniera più consapevole.

reazioni emotive

Martina è una donna forte, con un lavoro importante e una vita piena e soddisfacente. È sposata da qualche anno con un uomo che la ama follemente. Eppure, negli ultimi tempi, sente che suo marito si sta allontanando sempre più da lei.

«Non ce la faccio più» le ha confessato, «non riesco più a sopportare le tue ripicche, le tue urla, le tue accuse». Martina sa di cosa sta parlando, comprende le sue motivazioni ed è molto dispiaciuta per il dolore che lui sta provando. Ma non sa come controllarsi.

Basta poco per innescare una reazione in Martina. Un’osservazione innocente come “forse la pasta manca un po’ di sale” è in grado di trasformare questa donna, solitamente ironica e gentile, in una furia assetata di sangue. Per farla breve: qualunque comunicazione che comprenda anche solo una piccola critica verso Martina finisce per innescare una sua violenta reazione, con urla, insulti, accuse, dispetti e piatti lanciati.

Di solito, dopo questo simpatico siparietto, finisce che suo marito, che da persona comprensiva qual è si è sorbito ogni cosa senza fiatare, alza i tacchi e si allontana, ferito ma anche risentito per il trattamento subito.

Scenari di guerra

A questo punto Martina, rimasta sola, inizia a sentirsi in colpa. E inizia a cercare del cibo. Biscotti, merendine, la pasta con poco sale rimasta nei piatti ormai freddi. Quando sente quel dolore, in automatico cerca conforto mangiando.

Non si tratta di un episodio isolato, ormai è una sequenza che entrambi conoscono a memoria. E che, purtroppo, li sta inevitabilmente allontanando. Nonostante l’amore che provano l’uno per l’altra.

Insomma, ogniqualvolta Martina riceve una critica è come se si accendesse un interruttore in lei. Allora comincia a urlare e a offendere, a volte alza pure le mani. Non solo, dopo l’arrabbiatura cerca conforto nel cibo.

Ma anche Maurizio, il marito, reagisce a modo suo a questa situazione: davanti all’aggressività della moglie tende a chiudersi, a farsi piccolo piccolo, e – appena può – se la dà a gambe. E questo fa arrabbiare ancora di più Martina.

Le conseguenze di queste loro reazioni sono ben chiare ad entrambi. Eppure, non riescono in alcun modo ad evitarle. È come se fosse più forte di loro: le loro sono reazioni automatiche che sembrano lontane da qualsiasi possibilità di controllo.

Meccanismi di innesco

Ma come mai alcune persone tendono a reagire sempre allo stesso modo in certe situazioni? Ma soprattutto, perché continuano a mettere in atto determinati comportamenti anche se alla fine portano sempre agli stessi risultati negativi?

Ciascuno di noi ha imparato, nel tempo, a rispondere ad alcuni stimoli con delle reazioni automatiche. Solitamente si tratta di stimoli che attivano in noi un qualche stato emotivo spiacevole: ansia, tristezza, rabbia. La reazione che ne consegue, quindi, è un tentativo di gestire le emozioni negative che si provano in determinate circostanze.

Non siamo quasi mai consapevoli del perché reagiamo proprio con quella modalità, eppure tendiamo a riproporla in maniera automatica ogniqualvolta ci troviamo di fronte a uno stimolo scatenante. Si tratta, per l’appunto, di automatismi appresi nel corso del tempo, soluzioni adottate in passato e che in qualche modo hanno “funzionato”. Si sono cioè rivelate efficaci nello smorzare o nell’eliminare la sofferenza di quella situazione.

Se poi la “soluzione” comporta altre conseguenze, a volte persino peggiori della sofferenza che mirano a estinguere, pazienza. Non è che i nostri meccanismi automatici di gestione vadano troppo per il sottile: stiamo parlando di reazioni che potremmo definire “istintive”, non di risposte ponderate dove si distinguono conseguenze a breve e a lungo termine.

Polveri da sparo

Ma al di là degli automatismi appresi, cioè delle reazioni che inconsapevolmente si scatenano di fronte ad alcune situazioni-stimolo, perché alcuni eventi hanno questo “potere” su di noi?

Ritorniamo a Martina: cosa significa per lei ricevere una critica? Perché se la prende così tanto? Nel suo caso, ogni volta che si trova di fronte a una comunicazione che sottintende un suo errore o un suo difetto, è come se si trovasse a rivivere alcune scene del suo passato. Ricorda molto bene suo padre, un uomo distante e severo, che non perdeva occasione per rimarcare ogni errore della figlia con aspre critiche.

Quando nell’aria c’è odore di critica, Martina rivive quel trauma. Sente di nuovo tutto quel dolore, quella sensazione di non essere all’altezza, di non essere abbastanza. Ovviamente di tutto questo lei non ne è consapevole. Riferisce soltanto di sentire un “fuoco dentro”, e ha imparato che l’unico modo per spegnerlo è difendersi. Ad ogni costo.

Per molto tempo l’è andata piuttosto bene. Reagire con decisione quando il suo valore veniva messo in discussione ha fatto sì che gli altri la vedessero come una donna molto forte e determinata, ma anche decisamente “permalosa”. Nessuno osava muovergli critiche, così Martina si sentiva al sicuro.

A un bivio

Eppure, adesso, questo suo modo di reagire di fronte al proprio dolore sta iniziando a costarle caro. Lei lo sa bene, ed è sinceramente dispiaciuta per la sofferenza che causa in Maurizio quando sbotta a quel modo.

Non vuole ferirlo, non vuole fargli del male. Eppure sente di non poter fare a meno di comportarsi così, di non essere in grado di reagire in maniera diversa. Altra ferita, altro dolore.

Capisce però che il suo matrimonio è ormai a un bivio: o fa qualcosa, o inevitabilmente la relazione imploderà. Non sa perché si comporta a quel modo, ma sa bene cos’è che la fa infuriare. Sa bene cos’è che innesca la miccia che la porterà poi ad esplodere.

Reagire o rispondere?

Il primo passo è comprendere quali sono le situazioni che ci fanno reagire in un certo modo. Che la reazione sia quella di raggomitolarsi in posizione fetale, di aggredire l’altro, di scolarsi una bottiglia o di svuotare il frigo non importa. Il fattore in comune di tutte queste reazioni è che, anche se apparentemente ci aiutano a gestire una qualche sofferenza, comportano conseguenze che, alla lunga, ci fanno pagare un prezzo altissimo.

Anche se automatiche, queste reazioni non sono inevitabili. Portando un po’ di attenzione a quel momento, possiamo decidere di rispondere in modi diversi, che siano più utili o salutari per noi e chi ci sta attorno. Insomma, dobbiamo riuscire a spezzare quei meccanismi automatici che ci fanno reagire con modalità disfunzionali.

Come? Creandone di nuovi! Stavolta, però, saremo noi a decidere come rispondere.

Riprogrammarsi

Iniziamo prendendo carta e penna. Sul foglio bianco creiamo tre colonne. Sulla prima scriviamo Stimolo, sulla seconda Reazione e sulla terza Nuova risposta.

Nella prima colonna scriveremo quali sono le situazioni (gli stimoli) che ci fanno reagire in un certo modo; questa reazione la scriveremo nella seconda colonna. Nella terza colonna, quella della Nuova risposta, scriviamo come vorremmo invece rispondere a quegli stimoli.

reazioni emotive

Martina ha compilato così la sua tabella (e già che c’era, ha aggiunto anche altre reazioni che vorrebbe modificare)

 

Ora viene la parte difficile: mettere in atto le nuove risposte quando si presentano gli stimoli. Nessuno può pretendere a sé stesso di non reagire più nel “vecchio modo” d’ora in avanti, ma ciò che puoi fare è, con pazienza e perseveranza, impegnarti a rispondere nel “nuovo modo”. C’è voluto molto tempo per imparare a reagire in un certo modo, molto tempo ci vorrà per “riprogrammarsi” a rispondere diversamente.

Non si cambia dall’oggi al domani, quindi non scoraggiarti se ogni tanto ricadi nelle vecchie abitudini. Piuttosto, sii felice quando riesci rispondere in maniera diversa. Premiati se vuoi, ma i benefici vedrai che non tarderanno ad arrivare.

Porta con te questo foglio, rileggilo, usalo come guida. Sperimenta, cambia risposta, aggiungine di nuove. Mettiti alla prova. E se hai bisogno, contattami.

Com’è andata a finire?

Martina può dire di esserci riuscita. Si è impegnata, ci ha messo tutta sé stessa. All’inizio ha avuto molte difficoltà, era difficile per lei ricordarsi di rispondere in maniera diversa. E quando le veniva in mente, non sempre è riuscita a mettere in atto i buoni propositi.

Ne ha parlato con Maurizio, che l’ha aiutata molto. Le ricordava del foglio, la incoraggiava e cercava di “prendersela di meno”. Martina si è sentita ancora più motivata. Poco alla volta, giorno dopo giorno, è riuscita a esprimere il proprio dolore e la propria rabbia in modi diversi in sempre più occasioni.

Ogni tanto si arrabbia ancora, ma non c’è paragone con prima. Gli episodi sono meno intensi e meno frequenti. Tra loro le cose vanno meglio, il pericolo di separarsi sembrerebbe scongiurato. Ora però tocca a lui, perché le cose si fanno in due.

reazioni emotive

Finalmente scegliere

Capire le cause dietro alcuni nostri comportamenti può aiutarci a fare luce sui motivi che sostengono alcune nostre reazioni. Può aiutarci anche a fare pace con noi stessi, a dare un senso a ciò che sembra non averne. Ma capire il perché non necessariamente si traduce in un cambiamento vero e proprio.

L’aspetto più importante, forse, è comprendere che non siamo destinati a reagire sempre allo stesso modo. Possiamo cambiare. Possiamo scegliere come rispondere. Una volta imparato questo, dopo aver tastato con mano le possibilità che un nuovo modo di rispondere può regalarci, diventa difficile tornare indietro.

Vivere è inevitabilmente essere costantemente sottoposti a stimoli, alcuni positivi e altri negativi. Ciò che non è inevitabile è come decidiamo di rispondere. È tutto nelle nostre mani.

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Non c’è niente di male nel fare del proprio meglio o nell’avere obiettivi elevati, ma quando facciamo coincidere i risultati ottenuti con il nostro valore come persona ci esponiamo inevitabilmente al fallimento. Ma cosa c’è dietro il perfezionismo e quando questo diventa un problema?

perfezionismo

Claudia è una perfezionista. L’attenzione al dettaglio è sempre stato un suo grande vanto, e in ogni pagina che scrive cerca di descrivere al meglio ogni particolare, in modo da riuscire a trasmettere al lettore ogni emozione presente nelle sue storie.

Claudia è un’affermata scrittrice e una perfezionista, ma sono tre mesi che non riesce più a completare il capitolo finale del suo ultimo libro. Scrive una frase, a volte due, poi torna indietro e cancella. “Così non va bene”, si dice ogni volta, “non ci siamo”.

Claudia è una perfezionista ma ha delle scadenze. L’editore le ha chiesto più volte la bozza del suo ultimo romanzo, ma non riesce a completarlo. Sembra arrivata al limite: ci sono giorni che non ci prova nemmeno a scrivere, sente che non sarebbe in grado di farlo in maniera accettabile. Non solo in quei giorni, ma praticamente sempre, si sente tesa, stressata ed estremamente triste.

Claudia è una perfezionista, eppure in questo periodo si sente inutile, una nullità. Si vergogna di sé stessa, passa il tempo a ripetersi che non è in grado di fare niente, di essere una perdente, un fallimento completo.

Il problema della perfezione

Per molti, la ricerca della perfezione è un pregio. Specialmente per chi si ritiene un perfezionista. È chiaro che avere degli standard elevati e fare del proprio meglio è, generalmente, una buona cosa.

Il problema nasce quando quegli stessi standard elevati sono l’unica e sola meta da raggiungere. A volte può andare bene, se si lavora sodo e l’obiettivo è realistico. Ma cosa succede se l’asticella viene posta troppo in alto e non è possibile raggiungere quel livello?

E quali sono i costi da sostenere per arrivare fin lassù? E, una volta arrivati, il beneficio che se ne potrebbe trarre potrebbe giustificare tutti i sacrifici, le rinunce e le notti in bianco?

Perfezione a tutti i costi?

Non sempre le cose vanno nel verso giusto, o certi obiettivi si rivelano irraggiungibili. Chi ha tendenze perfezionistiche non sa quando è il momento di alzare bandiera bianca e di accettare che ciò che si poteva fare è già stato fatto. No, il vero perfezionista persevera. Semmai, è che non si è impegnato abbastanza.

Specialmente davanti a un obiettivo irrealistico, l’effetto di raddoppiare gli sforzi è di aumentare anche lo stress, la tensione e la fatica. E in queste condizioni di solito si commettono anche più errori. Diventa un circolo vizioso, dove a un maggiore sforzo corrisponde una performance peggiore, che viene compensata da uno sforzo ancora maggiore.

Ammesso e non concesso che si raggiungano gli standard desiderati, quale sarebbe il costo in termini di benessere personale? Tutti i sacrifici, la tensione, l’isolamento dagli altri o dai semplici piaceri della vita, visti come distrazioni che distolgono dall’obiettivo ultimo, hanno davvero senso? Il gioco vale davvero la candela?

O perfetti, o nulla

La domanda che viene spontanea, quando ci si trova davanti a persone che sacrificano tutto pur di tentare di raggiungere la “perfezione”, è piuttosto ovvia: perché?

La risposta, spesso, ha a che fare con l’idea che il proprio valore personale dipende dagli obiettivi raggiunti. Per un vero perfezionista, il valore di una persona coincide con ciò che si fa, non con ciò che si è. E quando è così, la prospettiva di “fallire” equivale al proprio fallimento come persona.

Così, ogni qualvolta ci si trova davanti a un obiettivo da raggiungere per confermare il proprio valore come essere umano, ci si espone inevitabilmente al fallimento. Se l’obiettivo è di prendere 30 e lode a ogni esame, cosa accadrà quando il professore-cerbero proporrà un 28? Cosa significherà per il perfezionista in erba quel “misero” voto?

Che non è stato abbastanza bravo? Che non si è impegnato abbastanza? Che non è in grado di andare avanti nel proprio percorso di studi? Che è un fallimento completo, una persona inutile, nemmeno in grado di superare degnamente uno stupido esame?

Vivere così è decisamente stressante. Ogni occasione può essere un pretesto per mettere in discussione il proprio valore, per considerarsi un fallimento, una persona indegna. Tutto questo perché si parte da una premessa tanto estrema quanto errata: io valgo per ciò che faccio.

Dietro la perfezione

Questa ricerca della perfezione come unico mezzo per confermare il proprio valore spesso ha radici antiche. Questa credenza potrebbe essersi sviluppata in un ambiente familiare in cui l’unico modo per ricevere affetto e attenzione era quello di eccellere. Ogni fallimento veniva decisamente criticato, ogni successo fortemente incoraggiato.

Non è l’unica spiegazione possibile, ovviamente. Ciò che è probabile, però, è che dietro il perfezionismo ci siano all’opera uno o più dei seguenti meccanismi:

  • L’illusione del controllo. La vita è innanzitutto incertezza, e l’incertezza spaventa. L’idea di avere controllo in determinate aree della propria vita è rassicurante, perché sappiamo che, almeno in certi contesti, siamo noi a poter controllare le cose. A patto però che vadano come diciamo noi. Cioè, che sia tutto perfettamente come lo vogliamo noi.
  • Il timore delle conseguenze. Riassumibile nell’assunzione: “se non sono perfetto potrebbero accadere brutte cose”. Se non si è perfetti, tutto potrebbe andare a rotoli. Se non si lavora al massimo, si potrebbe perdere il lavoro, la casa, finire sotto i ponti. Se l’arrosto non è perfettamente delizioso, i miei amici non verranno più a casa mia, nessuno vorrà avere a che fare con me, resterò sola e morirò sola.
  • Il bisogno di approvazione. Forse riflesso di un’infanzia dove l’affetto era condizionato al soddisfare l’altro, alcune persone tendenti al perfezionismo ripropongono la stessa dinamica nelle relazioni interpersonali. Coloro i quali ritengono di dover soddisfare perfettamente i bisogni degli altri per poter essere davvero amati e accettati si trovano davanti a un compito impossibile ed emotivamente assai impegnativo.

 

perfezionismo

Perfetto, così come sei

Che il tuo perfezionismo sia relativo al lavoro, alle relazioni interpersonali, allo status sociale o al vestiario, se sei un vero perfezionista conosci molto bene il prezzo che stai pagando per mantenere certi standard. Ansia, insicurezza, stanchezza, tensione, vergogna, timore di essere umiliati sono solo alcune delle condizioni che possono associarsi al perfezionismo.

Se associ il tuo valore esclusivamente agli standard che ti sei posto, o agli obiettivi che hai in mente di raggiungere, stai dimenticando un concetto tanto semplice quanto realistico: nessuno è perfetto. E la vita, quella vera, non è soltanto raggiungere un obiettivo o mantenere un determinato livello raggiunto. La vita è molto, molto di più. TU sei molto, molto di più.

Prenditi un momento: cosa c’è oltre l’oggetto del tuo perfezionismo? Cos’è che ti piace, che ti scalda il cuore, che ti fa sentire vivo? Cos’è che ti fa ridere?
Pensi di poter dedicare del tempo (per quanto poco pensi di averne) alle cose che ti fanno stare bene? Cosa potrebbe accadere se provassi a farlo davvero?

Pensaci: potrebbe essere un tuo nuovo obiettivo, di quelli però decisamente raggiungibili! Dedicare del tempo a ciò che ti piace e ti fa stare bene, ricercare un po’ di leggerezza in questo mondo sempre più frenetico e pesante.

E magari così scoprire che il tuo valore non si può misurare in base a ciò che fai, ma piuttosto dipende da quanto te ne dai.

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Chiunque soffra di ansia prima o poi se ne chiederà il perché. Ma da dove nasce l’ansia? Perché c’è chi ne soffre e chi no? L’ansia è una parte di noi, una condanna inevitabile, o è qualcosa che è possibile lasciarsi alle spalle?

origine ansia

C’è una domanda che, prima o poi, chiunque soffri di una qualunque forma di ansia si pone: “Perché sono così ansioso?”. La domanda non è per niente banale, considerato anche che la sofferenza di chi presenta un disturbo d’ansia non deriva soltanto dalla problematica in sé, ma anche dalla netta e soverchiante sensazione che qualcosa di sé stessi non va. Cioè, di essere in qualche modo “sbagliati” o “fatti male”.

Spesso, questa e altre domande simili si originano quando inevitabilmente ci si confronta con gli altri (che non mostrano alcun timore di fronte alle situazioni che l’ansioso invece teme) oppure quando il confronto è tra un passato in cui l’ansia non c’era (o non era così invalidante) e un presente fatto di paure, limitazioni ed eventi inspiegabili.

Ma cos’è l’ansia? Perché alcuni ne soffrono e altri no? È qualcosa che fa parte di noi e che non possiamo eliminare o è possibile fare qualcosa per sconfiggerla?

Perché l’ansia?

L’ansia è un prezioso meccanismo di allarme, senza il quale il genere umano non avrebbe potuto sopravvivere così a lungo. In pratica, la reazione d’ansia ci si segnala che c’è un pericolo che, direttamente o indirettamente, in qualche modo ci minaccia.

Nel tempo, il significato di “sopravvivenza” sembra essersi dilatato: i segnali di pericolo non riguardano più soltanto le minacce concrete al nostro organismo (ad es., un serpente velenoso o un orso pronto ad agguantarci), ma anche qualunque evento o situazione che potrebbe comportare un isolamento dagli altri, la perdita del proprio status sociale o economico, una condizione di salute precaria, la sperimentazione di dolore e di perdita.

Insomma: se c’è qualcosa che temiamo, a torto o a ragione, sperimenteremo ansia quando ci troveremo davanti alla prospettiva che ciò che temiamo possa accadere. Da non sottovalutare, inoltre, è anche un altro aspetto: la fiducia o meno nelle nostre capacità di far fronte a queste minacce.

Da dove viene l’ansia?

Sintetizzando, possiamo dire che i fattori che possono determinare lo sviluppo dell’ansia sono essenzialmente tre:

  • Genetica e temperamento: ovvero la predisposizione di un individuo a reagire o meno con ansia di fronte a degli stimoli;
  • Ambiente familiare: cioè il modo in cui sei stato cresciuto, le paure che circolano in famiglia e le abilità di gestione delle emozioni e degli imprevisti che ti sono state indirettamente insegnate mentre crescevi;
  • Eventi e traumi: tutte le situazioni che hai vissuto che possono aver comportato una minaccia alla tua vita, al tuo status o al tuo benessere in generale.

Prima di addentrarci nel dettaglio di questi fattori, una precisazione: più che di una singola causa specifica sarebbe più corretto parlare di una combinazione di questi fattori.

È raro, infatti, che a seguito di un singolo evento traumatico si sviluppi un disturbo ansioso vero e proprio. Più spesso, invece, è proprio la combinazione tra predisposizione ed eventi significativi, o tra predisposizione e apprendimenti avvenuti in famiglia (o qualsiasi altra associazione tra questi tre fattori) ad essere, in ultima analisi, responsabile dello sviluppo dell’ansia.

Genetica e temperamento

Quando si parla di genetica, eccetto che per determinate condizioni, non bisogna immaginarsi una “condanna” ad avere o meno una certa malattia o a sviluppare o meno determinati comportamenti. Specialmente riguardo i disturbi d’ansia, è decisamente più corretto parlare di predisposizione.

In particolare, di predisposizione del proprio organismo a reagire con intense reazioni emotive di fronte a determinate situazioni. Quindi di avere un minore stabilità emotiva di fronte ad eventi o sollecitazioni ambientali. Ma, come dicevo, non si tratta necessariamente di una condanna: stiamo parlando della planimetria della casa, non di come questa verrà effettivamente costruita. Quello che accadrà dalla nascita in poi sarà altrettanto (se non più) importante di una possibile predisposizione.

Spesso, è facile riscontrare nella propria famiglia “genetica” (i parenti acquisiti non valgono!) uno zio perennemente preoccupato di questo o di quello o una nonna particolarmente incline all’agitazione di fronte agli imprevisti. Insomma, per farla breve: se noti una somiglianza tra alcuni tuoi comportamenti ansiosi con quelli dello zio Nino, potrebbe essere questione di genetica.

Ambiente familiare

Prima di correre ad accusare i propri genitori o parenti di essere responsabili della vostra ansia, tenete bene in mente che:

  • di solito è la combinazione di più fattori a risultare determinante (quindi non si può addossare la colpa a un singolo fattore, in questo caso l’ambiente familiare);
  • qualunque genitore fa del proprio meglio per crescere i propri figli (e non è per nulla un compito facile), il tutto senza manuale di istruzioni!

Alcune persone che soffrono d’ansia sono cresciute in un contesto familiare in cui si trasmette l’idea che il mondo sia, in qualche modo, un posto pericoloso e imprevedibile, ovviamente senza alcuna consapevole intenzione di “traumatizzare” i propri figli. Si tratta, in ogni caso, del riflesso dell’ansia dei genitori stessi, che, direttamente o indirettamente, possono “insegnare” ai propri bambini ad essere ansiosi di fronte ad alcune situazioni.

Stili genitoriali

A volte questo avviene in modo esplicito (“Stai attenta quando esci, il mondo è pieno di malintenzionati!”), altre volte questa trasmissione è più sottile, e dipende dalle modalità con le quali i genitori educano i propri figli. Alcuni stili educativi, infatti, sembrano correlarsi più di altri allo sviluppo di problematiche legate all’ansia. Tra questi troviamo:

  • i genitori iperprotettivi: ovvero coloro che si impegnano costantemente a proteggere o a schermare i propri figli da qualunque possibile minaccia, frustrazione o sofferenza. Sempre pronti a soccorrerli e a trovare soluzioni ai problemi dei propri bambini, non consentono loro di imparare a tollerare e a gestire le proprie ansie e le piccole grandi sfide che inevitabilmente incontreranno nel loro cammino verso l’età adulta;
  • i genitori ipercontrollanti: cioè coloro che (spesso per contenere le proprie, di ansie) tendono a dirigere a controllare qualsiasi aspetto della vita dei propri figli, come le attività e gli sport da fare, i vestiti da mettere, persino cosa bisogna dire e cosa bisogna fare in certe situazioni. È chiaro che i genitori devono essere una guida per i loro figli, ma se si eccede si corre il rischio di smorzare qualunque espressione di autonomia, rinforzando l’idea del bambino (che poi diventerà adulto) di essere dipendente dagli altri e, soprattutto, di non essere in grado di affrontare ciò che teme;
  • i genitori incoerenti: alcuni genitori hanno difficoltà nel definire regole e limiti chiari, ma soprattutto tendono a rispondere in maniera imprevedibile e incoerente in situazioni tra loro simili. Succede dunque che un bambino possa, ad esempio, incontrare difficoltà nel prevedere cosa possa accadere dopo aver confessato una marachella: a volte ne consegue un sorriso comprensivo, altre volte un aspro rimprovero. Ogni volta è un lancio di moneta, e se ogni cosa avviene all’interno di una cornice non ben delimitata, tutto può essere incerto. La sensazione è di non avere il controllo su niente, che il pericolo possa trovarsi dietro l’angolo all’apparenza più innocuo. Come chiamarla, se non ansia?

Eventi e traumi

La predisposizione genetica o un ambiente familiare “ansiogeno” possono sì giocare un ruolo fondamentale nella genesi dell’ansia, ma spesso è possibile individuare un determinato episodio (singolo o presentatosi più volte) che sembra direttamente responsabile dello scatenarsi di un disturbo d’ansia vero e proprio.

Ma vale anche il ragionamento contrario. Un evento decisamente minaccioso per la sopravvivenza di più individui (pensiamo, ad esempio, a un terremoto) non “genera” automaticamente un disturbo d’ansia in tutti coloro che l’hanno vissuto. Quindi, ancora una volta, non è possibile individuare una singola causa per l’origine dell’ansia (predisposizione, apprendimenti o accadimenti), benché sia evidente come alcuni eventi possano rivelarsi un fattore scatenante.

Quando si parla di “traumi” si è portati a immaginare eventi singolari e catastrofici che segnano inevitabilmente la vita di chi li subisce. A volte, però, non si tratta di eventi specifici o ben definiti, ma anche di esperienze che semplicemente possono minacciare il proprio senso di stabilità o cambiamenti significativi con i quali è difficile venire a patti.

Piccoli grandi traumi

In questo senso, anche situazioni apparentemente positive possono favorire lo sviluppo di un disturbo d’ansia. Prendiamo, ad esempio, un avanzamento di carriera: nuove responsabilità, nuovi impegni e nuove sfide possono esacerbare vecchie preoccupazioni, vecchie paure e vecchie convinzioni.

Insomma, qualunque cosa possa spingerci al di fuori della nostra zona di comfort o che in qualche modo minaccia un equilibrio consolidato, può potenzialmente esporci a sviluppare (o a esprimere pienamente) un disturbo d’ansia.

La lista, potenzialmente, è infinita: la fine di una relazione, una malattia temporanea, un trasferimento, la nascita di un figlio, il trovarsi intrappolati nel traffico durante un forte acquazzone. In pratica, qualsiasi evento possa metterci di fronte alle nostre paure e alle nostre fragilità. Qualsiasi situazione possa rappresentare per noi un pericolo: come l’essere abbandonati, il sentirsi deboli e fragili, il trovarsi in una situazione in cui ci sentiamo impotenti.

origine ansia

Ritorno alle origini

Per risolvere la propria ansia non è necessario scoprirne l’origine precisa. Anche perché non è così facile: anche solo pensando alle esperienze vissute durante l’infanzia, possiamo dire con certezza che i ricordi che ci appartengono sono reali? E se in qualche modo si fossero mischiati ad altre memorie, altre ricostruzioni, altre narrazioni, altre interpretazioni?

Anche se non sempre è fondamentale capire l’origine della propria ansia, mettersi sulle tracce di questa può essere utile per due importanti ragioni:

  • Riesaminando alcuni episodi del passato, così come quelli che si verificano nel presente, è possibile individuare alcuni elementi che possono contribuire a dare un senso alle emozioni che si provano, ai pensieri che ci sono dietro e ai comportamenti che ne conseguono. Non tanto per fare luce sul passato (ormai è andato via), piuttosto per capire cosa non va ora e come affrontare l’ansia di adesso.
  • L’ansia non è un qualcosa che ci infliggiamo volontariamente: l’ansia può svilupparsi per molte ragioni, ma certamente la colpa non è di chi ne soffre. Dare un senso alla propria ansia, capire perché è così presente nella nostra vita, aiuta a contrastare la tendenza ad incolparsi, a sentirsi “diversi”, “fatti male” o “inferiori” rispetto ai non-ansiosi.

La colpa e l’autocritica, compagne decisamente dannose e che spesso vanno a braccetto con l’ansia, in questo senso, non hanno motivo di esserci. Nessuno decide di voler “essere ansioso”, né tantomeno è contento di non riuscire ad affrontare determinate situazioni. L’ansia nasce per alcune ragioni, ma nessuna di queste dipende dalla volontà della persona che ne soffre.

Disimparare l’ansia

L’ansia che si prova in determinate situazioni, che così tante limitazioni comporta nella nostra vita, non è un qualcosa caduto dal cielo: l’ansia è qualcosa che si impara. Questo al di là di possibili predisposizioni, che non sono condanne, ma, per l’appunto, solo “predisposizioni”.

Se l’ansia è un qualcosa che abbiamo imparato, allora, perché concentrare le proprie energie sui sensi di colpa, sul sentirsi “diversi”, “stupidi”, “inferiori”? Perché considerare l’ansia come inevitabile, come qualcosa che fa parte di noi e dalla quale non potremmo liberarcene mai?

Al di là di come abbiamo imparato a vivere alcune esperienza con ansia, è sempre possibile imparare un nuovo modo di affrontare quelle stesse situazioni. Quindi perché investire le proprie energie concentrandosi su quanto si è sbagliati, diversi e impotenti? Non sarebbe meglio investirle nel capire come e perché proviamo ansia, per imparare un modo diverso di gestirla?

Smetti quindi di giudicarti perché soffri d’ansia: non ti porta altro che ulteriore sofferenza. Così come è stata appresa, l’ansia può essere disappresa. Se vuoi, possiamo riuscirci insieme.

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Ci sono giorni dove tutto è tenebra, mentre altri sembrano fatti di pura luce. Ciò che è diverso, in realtà, è la prospettiva dalla quale li osserviamo, il modo in cui guardiamo a noi stessi e alle cose. A volta basta una piccola deviazione dal percorso e il coraggio di voltare pagina per accorgersene. Per scoprire che in fondo non esistono due giorni uguali. Perché ogni cosa cambia, persino noi stessi.

rinascita

Ieri

Fuori è ancora buio. L’unica luce è lo schermo della sveglia, che segna le 4 e 29. Non ricordo di essermi addormentata, né ricordo quando può essere successo. Sicuramente era passata la mezzanotte, anche se ero a letto da molto prima.

È presto, troppo presto. Ma so già che non potrò più chiudere gli occhi, almeno per un po’. Sono settimane che va avanti così: una manciata di ore a notte prima di un’altra giornata a lavoro, desiderando nient’altro che un po’ di pace. Un po’ di silenzio, un meritato e lungo riposo.

Lui sta dormendo dall’altra parte del letto. Sembra avere un sorriso stampato in faccia anche quando dorme. Mi chiedo come faccia, cosa trovi di bello da sorridere. Per quel che mi riguarda, è molto che non rido.

L’altro giorno è venuta a trovarmi mia sorella assieme al mio nipotino. Quanto vorrei essere come lui: spensierato, entusiasta, leggero. Io di leggero ho solo il sonno. Mi viene spesso in mente cosa mi disse mia sorella quel giorno: «Vale, tesoro mio, non ce la faccio a vederti così. Cos’hai? Cosa ti è successo? Cosa c’è che non va?». Secondo lei ho tutto per essere felice, e nessun motivo per non esserlo.

Già, sulla carta sono d’accordo con lei. Ma quel senso di apatia, quella mancanza di energie anche solo per forzare un sorriso, non è un qualcosa che scelgo di avere. È così e basta. Quando poi mio nipote mi ha chiesto di giocare con lui sono riuscita appena ad annuire. Mi sono seduta sul pavimento assieme a lui, ma in realtà l’ho lasciato giocare da solo, mentre io guardavo quei pupazzetti che aveva in mano e mi sentivo esattamente come loro: fredda e inanimata.

Sono stanca, molto stanca. Non me la sento di andare a lavoro oggi. Ad essere onesti non mi va nemmeno di farmi una doccia, di mangiare, di vestirmi, di sistemare il letto. In realtà non ho voglia nemmeno di stare a letto, ma sempre meglio del pensiero di alzarmi.

Gli dirò che non mi sento bene, che resterò nel letto per riposare. Già lo vedo, con l’espressione di chi non ci crede neanche un po’. Ma che senso ha dirgli che ultimamente non riesco a fare altro che restare sotto le coperte, in posizione fetale, circondata da fazzoletti di carta per cercare di arginare le lacrime in piena? Un fiume che scende dai miei occhi gonfi ma senza provocare alcun lamento, quasi il riflesso di un corpo che soffre.

Non so nemmeno perché piango così tanto. Prima che si aprano i rubinetti sento solo un senso di oppressione al petto, che sembra così passare. Almeno per un po’.

Mi faccio schifo così. Sono sempre stata una donna attiva e solare, almeno così mi dicevano gli altri. Adesso sembro l’ombra di me stessa. L’inutile proiezione del mio corpo esposto alla luce. Basterebbe così poco per eliminare ogni dolore, ogni sensazione di inutilità. Basterebbe spegnere la luce.

Per il momento c’è solo quella della sveglia.

Oggi

Cerco dentro di me la forza per sollevarmi dal mio giaciglio, appoggiare i piedi a terra e sedermi sul bordo del letto. Non ho dormito molto, ma anche se l’avessi fatto per otto ore di fila comunque non mi sentirei riposata.

Mi sono svegliata qualche minuto prima della sveglia, ma non importa più di tanto. Ciò che conta è quel magone che anche oggi ho ritrovato poco dopo aver aperto gli occhi. E il silenzio di questa stanza, senza più il suo lieve russare. Senza più lui.

In queste ultime settimane ho capito una cosa importante. Sono io stessa a nutrire il mio dolore. Anzi, la mia depressione. Già, ho questa malattia. Me l’ha spiegato una persona importante, che mi ha aiutato a dare un nome a ciò che prima era innominabile.

È come se ogni mattina, mentre io restavo a digiuno, servivo una ricca colazione all’ombra di me stessa. Ogni volta che restavo nel letto, con gli occhi lividi a fissare il soffitto, era come servire cornetto e cappuccino alla parte di me che mi trascinava a fondo.

A proposito, mi sta venendo fame. Chi nutro oggi, me stessa o la mia ombra? È molto facile cedere alla tentazione di alzare bandiera bianca, ma ormai so bene quali sarebbero le conseguenze. Se non mi alzo dal letto, so che ci resterò tutto il giorno. E questo non posso permetterlo. So che posso alzarmi dal letto, anche se non mi sento di farlo. Basta appoggiare un piede a terra. Ecco, così.

Che fatica, però. Se penso alla giornata che mi attende quasi quasi mi rimetto giù. Ma non erano questi i patti con me stessa. Ok, prendo la mia agendina sul comodino. So bene cosa fare nei prossimi minuti, ma rileggerlo mi aiuta. Mi aiuta a ricordare che dopo “questo” c’è “quello”, ma soprattutto che a “quello” ci posso arrivare.

Sciaquarsi il viso. Bere un bicchiere d’acqua. Mettere su il caffè. Preparare la colazione (“anche se non ho fame”, ho aggiunto). Doccia. Vestirsi. Truccarsi. Uscire.

Mi è sempre piaciuto mangiare cucinare. Così abbiamo deciso che mi darò la “spinta” così. Nell’agendina c’è una piccola tabella in cui segno come è stato cucinare quel dato giorno. Cioè, quanta soddisfazione ho provato. Quando ho iniziato non pensavo nemmeno alla possibilità di poter provare un briciolo di piacere nel fare qualsiasi cosa, persino quelle che prima mi regalavano un’immensa gioia. Quei numerini che ogni giorno segno in agenda mi dimostrano il contrario. Poco alla volta, ho riscoperto quanto mi piace cucinare. Quanto bene mi fa sentire. Cucinare per me, non per l’ombra.

Dopo aver preparato la colazione di solito mi sento meglio. Giusto un po’, quel tanto che basta per avviare la giornata. Non è facile, non lo è per niente. Ma ho scoperto che alla fine basta poco, e quel poco so di poterlo fare.

Oggi pancakes. Con la Nutella. Alla faccia dell’ombra.

Domani

Uccellini. Strano, prima nemmeno li sentivo. Immagino siano sempre stati lì, ma forse non c’ho mai fatto caso. Anche se è inverno, anche se il sole sembra giocare a nascondino con le nuvole, loro cantano a prescindere.

«Buongiorno», mi dico. Un piccolo sorriso, solo per me. Mi alzo, senza fretta, sbadigliando pigramente. È abbastanza presto, ma c’è un po’ di luce. Vado in soggiorno, ma prima apro l’armadio per prendere il mio cuscino. Lo sistemo sul tappeto e mi ci siedo sopra, le gambe incrociate. Qualche momento per guardarmi attorno e sistemarmi comodamente. Un paio di bei respiri e lascio andare. Semplicemente, siedo con me stessa.

Fuori c’è silenzio, a parte lo sferragliare del camion per la raccolta dei rifiuti, mio fedele compagno di meditazione. Non mi disturba affatto. Anzi, mi aiuta a ricordare che lo scopo non è chiudersi in se stessi, ma aprirsi a ciò che c’è, così com’è.

Porto la mia attenzione al respiro. Sento l’aria che entra dalle narici, la immagino raggiungere ogni cellula del mio corpo, nutrendola di vita. L’aria esce, il corpo si rilassa. Il respiro è già finito, ma ecco che ne arriva un altro. È così che vanno le cose: tutto ha un inizio e una fine. Anche il dolore. Ho scoperto che anche quello, prima o poi, è destinato a sparire.

rinascita

Nei mesi scorsi ho passato molto tempo a osservarmi. E ho scoperto che quella tristezza, quella sofferenza che offuscava ogni momento della mia giornata non era altro che un artificio. Anche se il dolore era più che reale. Ma ero io a tenerlo in vita. Perché non ero abbastanza, perché non avevo ottenuto niente dalla vita, perché non era giusto che gli altri fossero felici e io no. Almeno così credevo.

Ho scoperto che la tristezza c’è, e che è giusto che ci sia. Perché nella vita ce ne sono molte di cose che possono rendere infelici. Ma l’indugiare nel dolore, il darsi addosso per partito preso, non fanno altro che alimentare quella tristezza. Mi sembrava che non ci fosse speranza per me, né oggi né domani, ma era l’ombra di me stessa a parlare, l’ombra lunga della mia depressione.

Poi un giorno ho deciso di fare un piccolo passo. E poi ne ho fatto un altro. E da allora ne ho fatta di strada. Ogni tanto mi sono fermata, esitando, ma anche quei momenti mi sono serviti per capire meglio la mia malattia.

Ogni tanto mi ritornano in mente alcune delle frasi che mi martellavano in testa, anche se all’epoca non riuscivo nemmeno a vederle. Anche oggi, nella pace e nel silenzio, mentre siedo assieme a me, ogni tanto riaffiorano. “Sei una stupida. Non vali niente. Nessuno può amarti. Che campi a fare?”.

Le noto, le osservo, le riconosco. Un altro respiro. Puff, non ci sono più. Anche loro, come il respiro, sono destinate a sparire.

Ancora qualche minuto, ho voglia di sentire ancora il mio corpo che respira. Oggi mi aspetta una dura giornata, ma non più del solito. E poi anche questa finirà. E poi stasera c’è Paolo.

Sento lo stomaco che borbotta. Cos’è questa sensazione? Fame?

Fortuna che ieri ho preparato in anticipo i muffin per la colazione.

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Da fuori non si vede, ma dentro è più che reale. Continuare ad andare avanti, giorno dopo giorno, ma sentirsi sempre stanchi e senza energie. È la “depressione ad alto funzionamento”: quando si è in grado di “funzionare” nella propria vita, ma non di essere felici.

depressione ad alto funzionamento

Ilaria si alza ogni mattina per andare a lavoro. Le cose da fare sono sempre tante, ma tutti sanno che Ilaria è una gran lavoratrice e non si lamenta mai. Il capo la loda sempre per l’impegno e la puntualità. Cerca sempre di mettere su un bel sorriso quando è necessario interagire con i suoi colleghi, ma spesso preferisce passare la pausa caffé alla sua scrivania. Spesso viene invitata a unirsi a loro per un aperitivo dopo il lavoro, ma ha sempre qualche scusa pronta e credibile per declinare l’invito.

Ogni giorno Ilaria torna a casa, stanchissima, mette degli abiti comodi e si toglie la maschera. Accende la TV, il canale non è importante, si raggomitola sul divano e si perde nelle vite degli altri. Ogni tanto arriva un messaggio su Whatsapp, spesso amiche che le chiedono di uscire, ma queste proposte si stanno diradando sempre più. Ilaria declina con gentilezza, e se qualcuno le chiede come va, la risposta è sempre: «Bene, grazie».

La serata passa così, con lo sguardo nel vuoto e la sensazione che le cose così proprio non vanno. Domani sarà un altro giorno, ma già pensa alla fatica che farà per alzarsi dopo l’ennesima notte passata a rigirarsi. Pensa alle mille piccole commissioni che dovrà fare al lavoro, e a quanta energia le richiedono. Energia che Ilaria sente di non avere più. Sa che dovrà indossare di nuovo la maschera, perché è importante che gli altri non si accorgano di quanto è triste e vuota la vita di Ilaria.

Depressione o non depressione?

Quando parliamo di depressione, potremmo immaginare una persona raggomitolata su sé stessa nel letto, nel buio della sua indicibile sofferenza. In effetti, è un’immagine molto appropriata per definire la “classica” depressione. Chi è depresso tende a isolarsi, a galleggiare in stati di estrema tristezza e manca di energie e di voglia per svolgere attività relativamente semplici, come alzarsi dal letto la mattina.

Ilaria però riesce ad alzarsi dal letto. E va a lavorare, ogni santo giorno. Anche se ogni piccolo compito è estenuante come scalare una montagna. Tende a evitare il contatto con gli altri, ma se è costretta a interagire riesce a farlo, anche se con gran fatica. Ma dentro di sé c’è un turbinio di pensieri che raccontano di come sia triste e scialba la sua vita, con nessuna prospettiva per il futuro, nessuna voglia di andare avanti. Fa quello che deve fare per tirare avanti giorno dopo giorno.

Gli altri non lo sanno, non lo immaginano nemmeno, ma Ilaria è la classica persona che potrebbe essere definita come “depressa ad alto funzionamento”.

Depressione ad alto funzionamento

Ufficialmente non esiste una diagnosi di questo tipo. Per i manuali diagnostici o si rispettano i criteri per un disturbo oppure non lo si ha o questo non esiste. Ma a Ilaria non le importa un granché nemmeno della sua vita, figuriamoci dei manuali diagnostici.

La differenza fondamentale tra la depressione maggiore e una depressione ad alto funzionamento, al netto dei criteri diagnostici, è che chi soffre di quest’ultima sembra vivere una vita apparentemente normale. Cioè, è in grado di funzionare.

Una persona con una depressione conclamata spesso non è nemmeno in grado di alzarsi dal letto, figuriamoci andare a lavoro o prendersi cura di sé. Quando si è alle prese con una depressione ad alto funzionamento, invece, queste attività vengono sì svolte quotidianamente, ma richiedono un’energia e uno sforzo difficili da immaginare. Insomma, la persona riesce a mantenere una vita più o meno attiva, ma ogni attività è improntata alla semplice sopravvivenza.

Quello che gli altri non vedono

Dall’esterno tutto questo non si vede e nessuno sospetta niente, perché non c’è motivo di considerare Ilaria una persona depressa. È in grado di interagire con le persone, anche se la natura dei discorsi è sempre piuttosto superficiale e ha sempre una buona scusa per declinare degli inviti, ma la realtà è ben diversa. Le interazioni sociali non sono altro che l’ennesimo compito da svolgere, non un piacere.

Ilaria sembra funzionare come chiunque altro, ma diventa ogni giorno più faticoso. Non ha più energie, spesso è stanca e la spiegazione che dà agli altri è un ritornello su come il lavoro ultimamente sia molto stressante.

Solo lei sa cosa significa tornare a casa tutti i giorni e finalmente lasciarsi andare alla tristezza. Togliere la maschera e tirare i remi in barca. E contemplare la propria stanchezza, la mancanza di forza e di stimoli per alzarsi da quel divano, l’assenza di una prospettiva. Certo, in teoria sarebbe bello uscire per strada e parlare con la gente, ma a che pro? Nulla cambia, il dado è tratto: il domani sarà soltanto l’ennesimo oggi.

Vivere, non funzionare

Ilaria fa quello che deve fare andare avanti, ma è un semplice “tirare a campare”. Non ha sogni, non ha obiettivi, non ha speranze. Il futuro è indefinito, tutt’al più è una grigia fotocopia di quello che è stato ieri e oggi. Andare avanti, senza una meta, solo per inerzia.

Ma vivere è molto, molto di più. Significa essere nel presente e apprezzare quanto di buono c’è in ogni giorno, godere dei momenti di felicità ma anche cercarli attivamente, facendo ciò che ci piace e con le persone che ci fanno stare bene. Vivere è anche guardare avanti e sperare in un domani migliore. Porsi degli obiettivi e andare dritti, con fiducia e risolutezza, in direzione del loro raggiungimento.

Questo forse è ciò che manca a Ilaria. Riscoprire le piccole gioie quotidiane che esistono già ma che non riesce più a vedere: l’aroma del caffé che risveglia i sensi quando al mattino gli occhi sono ancora mezzi chiusi, il profumo dei fiori quando passa davanti al fioraio, la soddisfazione di un lavoro fatto bene, l’abbraccio di un’amica che è contenta di vederti.

Riaprire il cassetto, da tempo chiuso con molteplici lucchetti, dove stanno a riposare i sogni: nient’altro che altri momenti belli che non sono qui, non sono ora, ma saranno, forse, un domani.

depressione ad alto funzionamento

Giù la maschera

Quante persone, nella vita di tutti i giorni, lottano per andare avanti avvertendo un angoscioso senso di vuoto dentro di sé? Sono quelle stesse persone che leggono storie sulla depressione e non si riconoscono nell’immagine della persona raggomitolata nel letto, che si dicono: “Io non sono così, ma perché non riesco a essere felice?”.

Vivere è molto più che stamparsi in faccia un sorriso forzato per affrontare l’ennesima giornata che ci è stata concessa. Quanti di noi, però, considerano ogni giorno che passa come l’ennesima prova da superare? Quanti si chiedono cosa c’è di sbagliato in loro e temono la risposta più della domanda?

Andare avanti con indosso la maschera di chi sta bene non è però l’unico modo per cercare di affrontare la tristezza e l’incertezza che assediano la nostra vita. Condividere il proprio dolore con chi ci è accanto, chiedere aiuto a chi ci vuole bene o rivolgersi a un professionista possono fare la differenza tra il restare intrappolati in un indefinito grigiore e il rivedere la luce alla fine del tunnel.

So che non è facile, ma trova il coraggio di togliere la maschera. Perché nessuno deve soffrire in silenzio e affrontare, da solo, un dolore che appare più grande persino di sé stessi.

 

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La fine di una storia d’amore può essere un evento molto doloroso, al punto da sentirci completamente sopraffatti e senza speranze di riprovare felicità. Scopriamo insieme alcuni consigli che possono aiutarci a superare questo periodo di intensa sofferenza.

relazione

Notti passate a rigirarsi nel letto, gli occhi gonfi di lacrime. Non mangi più, e quel poco che mangi non ha più sapore, non dà più piacere. Nessun sorriso, nemmeno un accenno, e pensi che non potrai farlo mai più. Ogni cosa ti ricorda quella persona che prima c’era, ma che adesso non c’è più. Senti solo un vuoto enorme, spaventoso e incolmabile, fatto di domande, rimpianti, paure.

Quando una relazione va in pezzi, tutto il resto crolla. I sogni, le speranze, perfino la normale quotidianità: ogni cosa è in frantumi. Tutto è messo in discussione: il tuo senso di sicurezza, la tua autostima, la tua sessualità, le relazioni con gli altri, il tuo ruolo nel mondo. Ci si sente confusi, isolati, impauriti per un futuro così diverso da come era stato immaginato.

“Come sarà la mia vita adesso? Cosa ne sarà di me? Ne uscirò mai? Come faccio a ricominciare?”. Mille dubbi e mille domande, ma nessuna certezza a parte il dolore per un amore che non è più.

Cosa fare quando finisce una relazione? Come fare a riprendere in mano la propria vita e superare tutto questo?

Elaborare il lutto

La fine di una storia d’amore rappresenta un vero e proprio lutto. È la perdita di una persona per noi importante e che adesso non fa più parte della nostra vita, anche se è ancora viva. Ma il lutto non è solo per la perdita di quella persona: è anche la perdita di uno stile di vita, di un supporto costante a livello emotivo, sociale, a volte anche economico. E poi c’è la perdita di speranze, sogni e piani per un futuro che adesso appare quantomai incerto e spaventoso.

Le emozioni associate a queste perdite fanno paura. Sono così intense che sembra di non poterle sopportare in alcun modo, e soprattutto sembra non possano avere mai fine. Anche volendo, non si possono mettere da parte. Certo, si può fare finta di star bene, di avere la scorza dura, ma dentro quelle emozioni restano e urlano forte. La cosa migliore è lasciarle fluire, per quanto doloroso possa essere. Lasciare cioè che il lutto faccia il suo corso.

Più facile a dirsi che a farsi, ma c’è qualcosa che possiamo fare per favorire questo processo:

  • Non soffocare le tue emozioni. Non parliamo solo di tristezza, ma anche di rabbia, risentimento, paura, confusione: è importante riconoscere cosa stiamo provando e non negare ciò che sentiamo. Ignorare queste e altre emozioni non ha altro effetto che prolungare il processo di elaborazione, e quindi prolungare la loro permanenza. Ricorda che queste emozioni non saranno per sempre: col tempo, le proverai sempre meno e diventeranno meno intense.
  • Esprimi ciò che provi. Parlare agli altri delle proprie emozioni può essere difficile a prescindere, ma in una situazione di perdita può davvero fare la differenza. Condividere il tuo dolore con chi ti vuole bene alleggerirà il tuo fardello ti farà sentire meno solo. Un’altra possibilità è mettere per iscritto cosa provi, ma attenzione a non rileggere di continuo quanto messo su carta: c’è il rischio di farsi risucchiare di nuovo nel vortice. Meglio un buon amico.
  • Non sconvolgere la tua vita. Quando si sente di aver perso tutto, la tentazione di cambiare città, lavoro, amicizie o altro è molto forte. Come se cambiando aria cambiasse anche quello che si prova. Ma il dolore c’è, forte e sconvolgente, al punto da non farti ragionare con lucidità: evita quindi di fare grossi cambiamenti nella tua vita, prenditi il tempo per capire cosa è meglio per te e il tuo futuro.
  • Ricorda che l’obiettivo è star meglio. Riconoscere ed esprimere ciò che provi va bene, ma non lasciarti trascinare da emozioni distruttive come rabbia, risentimento e colpa: non faranno altro che trattenerti nella valle di lacrime. Non rimuginare troppo su quanto è successo e non cedere all’impulso di volerlo analizzare in ogni piccolo particolare, soprattutto all’inizio. Concentrati piuttosto su cosa puoi fare per stare meglio.

Prendersi cura di sé

Bisognerebbe sempre prendersi cura di sé stessi, visto che, a prescindere dalle relazioni con gli altri, quella con noi stessi è l’unica che sicuramente durerà tutta la vita. Ma è proprio quando dobbiamo affrontare grandi cambiamenti, e più che mai ci sentiamo vulnerabili e spaventati, che abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi per poter, pian piano, ricominciare a vivere.

Nel concreto, ci sono diverse cose che si possono fare per aiutarsi attivamente a ricominciare dopo la fine di un amore:

  • Concediti un periodo di pausa. Da quando è finita ti senti devastato, senza forze e non riesci nemmeno a concentrarti su compiti banali. Non darti addosso e non disperarti se ti senti così. È normale, e passerà, ma per il momento non ha senso cercare di fare tutto come prima. Concediti il permesso di non essere al massimo, almeno per il momento.
  • Prenditi del tempo per quello che ti piace e ti fa stare bene. Invece che controllare compulsivamente il profilo Facebook dell’ex, decidi di fare qualcosa che sia davvero utile per te stesso: esci con gli amici, fatti una passeggiata, prenditi un gelato. Cose semplici, ma che ti aiuteranno a riprovare piccoli attimi di felicità che sembravi aver dimenticato. Programma la tua giornata concedendoti del tempo per ciò che ti piace fare e ti dà soddisfazione, e vedi cosa succede.
  • Cura il corpo e la mente. C’è chi si butta sul cibo, chi sull’alcol o sulle droghe: qualunque cosa pur di soffocare il dolore, anche a rischio di sostituire un problema con un altro. Ma non è questo di cui hai bisogno adesso. Hai bisogno di ritornare in forze e di riprenderti la tua vita, e per farlo è importante che tu ti senta bene con te stesso. Tieniti in forma con lo sport o l’attività fisica e cura la tua alimentazione, fai meditazione o esercizi di rilassamento. Qualunque cosa sia, l’importante è trattare bene il tuo corpo così come la tua mente: non c’è ricetta migliore.
  • Non isolarti. Come abbiamo visto prima, le persone che ci vogliono bene, come gli amici o i familiari, possono darci una grande mano per risollevarci. Non dar retta alla vocina che ti ripete che “hai bisogno di stare da solo” (e poi ormai sai bene che non tutto quello che ti passa per la testa è vero), prendersi cura di sé significa anche mantenere una ricca vita sociale. All’inizio potremmo dover lottare un po’ contro l’impulso a sotterrarci sotto le coperte, ma se vogliamo realmente stare bene abbiamo bisogno anche di stare con chi ci vuole bene.

relazione

Respirare, finalmente

All’inizio potrai sentire solo un grande vuoto e il dolore che lo delimita, ma questo non vuol dire che sarà sempre così. Arriverà il giorno in cui starai bene. È semplicemente così, perché ogni cosa ha un inizio e una fine: così come è finita la tua relazione, finirà anche la sofferenza.

Così, giorno dopo giorno, il dolore si placherà, lui o lei smetteranno di tormentare il tuo cuore e la tua vita si riempirà nuovamente di cose belle, nonostante le difficoltà che inevitabilmente incontrerai lungo il cammino.

E forse scoprirai che i tuoi sogni in realtà non si sono mai infranti, ma che semplicemente hanno cambiato forma, mantenendo però lo stesso protagonista di sempre: tu.

È nei momenti di maggiore crisi che possiamo riscoprire quanta forza abbiamo dentro, anche se all’inizio ci sembra impossibile, visto quanto ci sentiamo fragili e inermi. Non abbiamo mai voluto che la nostra relazione finisse, ma così è andata, e non possiamo farci molto. È un’altra dura lezione alla quale può sottoporci la vita, un insegnamento dal quale imparare il più possibile, senza paura. Per capire cos’è che non è andato e cosa fare affinché la prossima volta (perché c’è sempre una “prossima volta”) le cose vadano meglio, Un’opportunità per crescere e migliorarci, anche se non l’avevamo mai richiesta.

Ma all’inizio, quando attorno c’è solo buio, tutto ciò che possiamo fare è prenderci tempo per guarire e ritrovare un po’ di luce, prendendoci cura di noi stessi con pazienza e amore.

Se senti di non farcela, se pensi di aver bisogno di aiuto, io ci sono.

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