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Quando qualcuno a cui vogliamo bene soffre a causa dell’ansia spesso non sappiamo come possiamo davvero aiutarlo. Vediamo insieme cosa si può fare concretamente per supportare al meglio chi ci è vicino e soffre di un disturbo d’ansia.

aiutare ansia

Non è facile, per un amico, un familiare o un partner, vedere qualcuno al quale si vuole bene soffrire quotidianamente a causa dell’ansia. Vorresti aiutarli ad affrontare e superare la loro condizione, ma non sai come fare. Vorresti trovare le parole giuste per sostenerli, ma non sai cosa dire.

Quella con l’ansia è una lotta quotidiana per chi ne soffre, ma anche chi sta loro vicino paga un prezzo alto. Sentimenti di impotenza e di frustrazione sono decisamente comuni: assistere ogni giorno alla sofferenza di chi vogliamo bene può essere fonte di grande dolore, e c’è chi addirittura comincia a sviluppare a sua volta dei problemi d’ansia. Quando il dolore e il risentimento raggiungono livelli limite, c’è anche il rischio concreto che la relazione possa incrinarsi. Questi e altri possono essere gli effetti collaterali dei disturbi d’ansia.

Proviamo a vedere insieme cosa si può fare concretamente per aiutare e sostenere una persona che soffre d’ansia, ma anche cosa fare per cercare di evitare, per quanto possibile, alcune conseguenze negative per chi offre la propria vicinanza e il proprio supporto.

C’è ansia e Ansia

Innanzitutto bisogna capire che soffrire di un disturbo d’ansia non è come quando si prova un’ansia “normale”. Non è l’ansia che si prova quando devi uscire con una persona che ti piace tanto, né quella che si prova quando sei in ritardo per un appuntamento importante e la metro non passa.

È qualcosa di molto più complesso, più intenso, più “totale”. È un’esperienza decisamente molto più spiacevole di quanto normalmente si possa sperimentare, qualcosa che può sembrare incontrollabile e che ti fa sentire impotente davanti a qualcosa che sembra molto più grande di te, degli altri, di ogni cosa.

Ad esempio: hai idea di cosa si prova durante un attacco di panico? Sai che uno dei possibili sintomi è la sensazione di una morte o di una pazzia imminente, assieme a sintomi fisici che ricordano molto degli attacchi cardiaci? Prova a immaginare cosa può essere vivere più volte un’esperienza del genere.

Insomma, se l’ansia fosse soltanto nervosismo e sudorazione non ci sarebbe bisogno di prenderla così seriamente (e io sarei disoccupato). Invece l’ansia, quando è così intensa, è un qualcosa di maledettamente serio.

Se non hai mai provato quell’ansia può essere molto difficile empatizzare con chi ne soffre e capire cosa stia passando, quanto stia soffrendo e quanto sia difficile affrontarla. Quindi se provi a “curare” l’ansia del tuo amico credendo di capire cosa sta passando, sei fuori strada. Anzi, rischi di fare ulteriore danno: all’altra persona, ma, come vedremo, anche a te stesso. Questo non significa che non puoi fare nulla per aiutarla, ma piuttosto che, a volte, conviene fare un passo indietro e dimenticare ciò che si pensa di sapere sull’ansia.

Non ci resta, a questo punto, che cominciare dalle basi.

Cosa dire e cosa non dire

Quando ci troviamo di fronte a una persona in preda all’ansia non è semplice capire cosa dire (o non dire) in quel momento. Alcune frasi sono sicuramente da evitare, come queste:

  • “Stai bene? Tutto ok?”. Durante un attacco d’ansia il cuore batte a più non posso, tutto il corpo è in tensione, le mani tremano, il respiro sembra mancare… quindi meglio evitare di chiedere come va o se stanno bene. Perché no, non stanno bene. E sì, pensano che il mondo gli stia crollando sotto i piedi. Prova a chiederti: stai cercando di rassicurare loro o te stesso?
  • “Non c’è motivo per stare in ansia”. Parla per te! È chiaro che un motivo c’è, magari può sembrare assurdo e assolutamente irrazionale, ma in quei momenti non è così semplice riuscire a osservare con distacco cosa sta succedendo. Inoltre, è una frase che fa (giustamente) arrabbiare parecchio.
  • “Ma smettila! Perché non ti rilassi?”. Beh, se fosse così semplice l’avrebbe già fatto, credimi! Anche espressioni di questo tipo fanno particolarmente girare le scatole, e certamente non è quello che una persona in ansia vorrebbe sentirsi dire da qualcuno che in teoria dovrebbe volergli bene.

Cosa dire allora? Innanzitutto dipende molto dalla persona che abbiamo davanti. Potrebbe essere lei stessa a suggerirci cosa è meglio dirle (e non dirle) in quei momenti. Premesso che a volte è meglio stare semplicemente in silenzio e aspettare che tutto passi, in generale l’atteggiamento migliore è quello di mostrarsi pazienti, presenti e disponibili: se puoi anche solo semplicemente ascoltare ciò che l’altro dice stai già offrendo un grande supporto.

Nel migliore dei casi, la persona ha già cominciato un percorso terapeutico. Se così fosse, chiedile di condividere le strategie concordate con il terapeuta, così da poterle suggerire nei momenti di crisi.

Ascoltare e parlare

Non è facile per chi soffre d’ansia riuscire a parlare del loro problema, perché è difficile non sentirsi giudicati quando si condividono paure così intime. È anche difficile non giudicare, perché a volte il desiderio di vedere l’altra persona stare meglio fa affrettarci a dare consigli e indicazioni, più che semplicemente stare ad ascoltare.

Semplicemente stare ad ascoltare può sembrare poco, ma in realtà è tutto: comunica disponibilità, apertura, accettazione. Significa far capire alla persona a cui vuoi bene che con te può parlare liberamente e senza timore di essere giudicata, che sei a lei vicina e che qualunque cosa dirà (anche se la sentirai più e più volte nel corso del tempo), ciò che provi per lei e ciò che pensi di lei non cambierà.

E solo dopo, quando il momento sarà quello giusto, sarà il tempo dei consigli e delle opinioni. E dopo ancora, quando la tempesta sarà ben lontana, sarà il tuo turno di parlare. Perché vedere una persona a cui teniamo soffrire così ha un effetto anche su di te, e lo sai bene: non c’è solo il dispiacere, la preoccupazione, la compassione, ma anche il risentimento, la frustrazione, l’impotenza.

Esprimere ciò che proviamo e come ci sentiamo, quando la situazione è appropriata e con la giusta dose di tatto e buon senso, è l’antidoto al tenersi tutto dentro per poi esplodere rinfacciando questo e quello, in una spirale di sensi di colpa e vergogna. Ma anche per evitare che la relazione si raffreddi, a causa di un “non detto” che in realtà potrebbe dire molto di più di quanto potrebbero le parole, e con molta più forza. Facendo così ancora più danno al rapporto dell’ansia stessa.

Cosa non fare

Come abbiamo visto, avere a che fare con chi soffre d’ansia non è semplice: anche noi possiamo risentire enormemente di questo problema, anche se sulla carta appartiene esclusivamente all’altro.

Non sempre è facile capire cosa è possibile fare di concreto per aiutare l’altro, ma di sicuro ci sono alcune cose che sarebbe meglio evitare quando ci relazioniamo a un nostro caro che soffre d’ansia:

  • Non andare in ansia! Avere a che fare con una persona in preda all’ansia può …mettere ansia! Lavora sulle tue reazioni a queste situazioni: è importante non solo per te, ma anche perché il tuo modo di reagire può avere un effetto anche su ciò che prova l’altro (che poi è lo stesso meccanismo che hai vissuto sulla tua pelle!). Insomma: se vai in ansia tu, l’altra persona sarà ancora più in ansia!
  • Non prenderla sul personale. Se avete dovuto cancellare dei piani all’ultimo momento a causa di un attacco d’ansia, non è un qualcosa che è stato “fatto apposta”. Se l’altra persona ti risponde in maniera sprezzante o irritata, se ti viene detto che è stato un tuo gesto o una tua parola a innescare l’ansia, potrebbe non essere la persona a parlare, ma la sua ansia. Si tratta di effetti collaterali dell’ansia, che potrebbero avere un impatto anche su di te. Quindi, anche se non è facile, non prendertela e prova a perdonare, per quanto ti è possibile.
  • Non è compito tuo salvarla. Le puoi stare vicino, ascoltarla, metterti a disposizione, supportarla, mostrare il tuo amore e la tua comprensione… ma quella con l’ansia è una battaglia personale che non puoi combattere al posto suo. Puoi motivarla e fare il tifo per lei (e te ne sarà grata, credimi), ma se vuoi davvero aiutare la persona alla quale vuoi bene c’è tanto altro che puoi fare.

Cosa fare

Ecco, cosa si può fare allora? Di seguito alcune indicazioni generali sul come essere concretamente d’aiuto per l’altra persona:

  • Fai capire che ci sei. L’ansia fa sentire le persone perse e sole, e sapere che c’è qualcuno disponibile ad ascoltarle quando ne hanno più bisogno può essere d’aiuto nel ridurre questi vissuti negativi. Resta comunque in ascolto anche dei tuoi vissuti: il rischio di farsi eccessivamente carico della situazione c’è sempre.
  • Proponi qualcosa da fare insieme. Qualunque attività che possa mettere da parte l’ansia anche solo se per poco e che permetta di sperimentare nuove emozioni positive va più che bene. Fare qualcosa che possa farvi divertire e sentire attivi è utile a entrambi per non cadere nell’apatia dell’ansia e per rinforzare la relazione. È importante comunque non forzare l’altro e scegliere insieme qualcosa che possa farlo sentire a proprio agio.
  • Conosci il (vostro) nemico. Fondamentale per capire come aiutare l’altro è comprendere cos’è l’ansia, cosa si prova ad averla, cosa si può fare per uscirne. Non è facile, per chi ne soffre, spiegare cosa significa provare ansia, quindi la cosa migliore da fare è cominciare a informarsi da sé! Fai delle ricerche, chiedi informazioni a dei professionisti del settore… ma soprattutto segui il mio blog e la mia pagina Facebook!
  • Aiuta a chiedere aiuto. Essere comprensivi e offrire il proprio supporto sicuramente è utile, ma non risolve il problema. L’unico modo per farlo è lavorarci, ma raramente ci si riesce da soli. Incoraggia chi vuoi bene a cercare aiuto, in modo che possa davvero lavorare sulla propria ansia. Io, come sempre, sono a disposizione! ;)

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Incoraggia e sostieni

Superare l’ansia è sempre possibile, ma si tratta di un percorso che può essere più o meno lungo, ed è difficile che non compaiano ostacoli lungo il cammino. A volte andrà meglio, altre peggio. A volte le paure cambieranno, si evolveranno, poi andranno via. Spesso l’ansia è lì da molto tempo, al punto da essere diventata una modalità di funzionamento automatica: ci vuole tempo per “riprogrammarsi”.

Il compito di sconfiggere l’ansia non spetta a te, ma in tutto questo tu puoi fare la differenza. Perché nei momenti di difficoltà è importante che ci sia qualcuno che possa infondere speranza e ricordare che l’ansia non ci sarà per sempre. Perché ad ogni passo in avanti della persona a cui vogliamo bene, anche se può sembrare piccolo, c’è bisogno di qualcuno che festeggi con lei, che la incoraggi a continuare a combattere, a farle sentire che c’è qualcuno che è orgoglioso di lei.

E quel qualcuno puoi essere tu.

Se in questo momento c’è una persona nella tua vita che sta soffrendo, qualunque sia il problema, stalle vicino come già fai ma sostienila nel cercare aiuto. Non è tua responsabilità il benessere dell’altro, ma puoi comunque dare un’enorme mano nel cammino verso la guarigione.

Credimi: al suo posto vorresti qualcuno che facesse lo stesso per te.

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Gli amici sono una parte importante della vita di ciascuno di noi, ma non sempre è facile farsi dei nuovi amici, soprattutto in età adulta. Come conoscere persone nuove e scoprire nuove amicizie? Come si coltiva una nuova amicizia e come fare per mantenerla nel tempo?

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Facciamo un tuffo nel passato, in particolare negli anni della scuola: quanto ci sembrava semplice, allora, farsi dei nuovi amici?

Si cominciava presto: dalle prime uscite al parco o dall’ingresso alla materna c’era sempre un compagnuccio col quale condividere (o litigarsi!) una palla, una bambola, cose così. Negli anni successivi, tra le ore passate a scuola sempre in compagnia, le uscite per i compleanni e le feste, e le infinite partite a pallone per le strade sotto casa, le occasioni di stringere amicizia non sono mai mancate.

Anche dopo, al tempo delle superiori, le amicizie sembravano accendersi in maniera naturale: dalle uscite in comitiva alle prime manifestazioni di indipendenza, dalle prime crisi esistenziali a quelle con i propri genitori, dalle prime cotte alle prime delusioni, abbiamo scoperto quanto preziosi possano essere dei veri amici.

Poi è successo qualcosa, qualcosa che ha reso tutto più complicato: non solo creare nuove amicizie, ma anche mantenere quelle già in piedi. Questo qualcosa si chiama “vita adulta”, che è fatta sempre di tanti (troppi) impegni e poco tempo da investire nelle amicizie, a vantaggio soprattutto delle relazioni romantiche e familiari. Ma non è detto che non si possano più fare amicizie: forse è solo diventato meno facile, per il poco tempo e le poche occasioni a disposizione.

L’importanza dell’amicizia

Eppure, esattamente come per l’infanzia e l’adolescenza, avere dei buoni amici in età adulta può essere fondamentale per il nostro benessere. Gli amici si sostengono a vicenda, si confortano, si apprezzano e si motivano, perché hanno a cuore il bene dell’altro, senza particolari interessi personali. È una forma d’amore, per certi versi più altruistico dell’amore romantico.

Un’amicizia non è qualcosa che nasce per caso: gli amici si scelgono, perché sentiamo che si tratta di qualcuno che è in sintonia con noi, qualcuno con il quale sentirci a casa.

Gli amici ci ricordano chi siamo, ci proteggono dalla solitudine e ci fanno forza nei momenti difficili, ma sono anche i primi con i quali stappare una bottiglia per festeggiare un traguardo. Un buon amico è innanzitutto un partner, un alleato fedele, pronto al nostro fianco quando ne abbiamo più bisogno. E noi per loro.

I limiti della libertà

Tutto molto bello, sì. Ma come si fa? Come si fa a curare un rapporto di questo tipo, intimo e leggero allo stesso tempo, se non si ha il tempo per coltivarlo e mantenerlo? Come si fa, quando per lavoro, per amore o per mille altri motivi, si cambia città e si cambia vita? Quando abbiamo dei figli da crescere, una carriera da sostenere, una relazione da portare avanti, come si fa?

Gli amici di sempre, quelli con i quali siamo cresciuti, spesso restano presenti nelle nostre vite. Anche se il tempo, le distanze e gli impegni possono aver richiesto un certo prezzo da pagare, in termini soprattutto di frequentazioni, queste amicizie possono durare per tutta una vita. Se parliamo invece di fare nuove amicizie, può sembrarci molto difficile. Ma soprattutto può spaventare.

Quando eravamo piccoli non sembravano esserci molte “regole” per fare amicizia: ci si trovava e si giocava, basta. Se poi l’amichetto ci stava simpatico e avevamo modo di ritrovarlo (a scuola, al parco, a casa), si riprendeva a giocare. Da “grandi”, invece, siamo molto più complessi: “Dove lo trovo un amico con cui giocare? Come mi avvicino? Cosa gli dico? E se gli sto antipatico? E se è lui a stare antipatico a me?”.

Noi adulti generalmente abbiamo bisogno di struttura, la spontaneità l’abbiamo un po’ persa per strada. Paradossalmente, siamo molto più liberi di prima ma il campo sembra troppo ampio per sapere esattamente cosa fare. E poi ci sono i dubbi, le nostre insicurezze, le delusioni passate, il poco tempo da investire. Così finiamo per rinunciare: “Ormai è troppo tardi per farmi un nuovo amico…”.

Come trovare nuove amicizie

Eppure proprio questa grande libertà di azione – finalmente siamo grandi, e possiamo fare come ci pare! – può essere l’aiuto più importante per stabilire nuove amicizie in età adulta. Gli amici si scelgono, e noi possiamo scegliere, nel modo che ci è più comodo, con quali persone possiamo entrare in contatto. E da lì, magari, costruire un’amicizia.

La strategia migliore è quella di cercare persone con le quali possiamo stabilire una relazione basata sui nostri interessi, le nostre preferenze, la nostra visione della vita. Cioè, qualcuno con un terreno a noi comune, qualcuno di simile a noi. Perché amicizia è anche vedere sé stessi nell’altro.

Ok, ma da dove si comincia?

  • Un primo passo può essere partire dalla nostra già esistente rete sociale. Familiari, colleghi, persino gli amici che già abbiamo, possono presentarci nuove persone con le quali iniziare una frequentazione. Una persona amica di una persona a noi amica è già una potenziale amica! Inoltre così possiamo iniziare una frequentazione in un ambiente protetto, in compagnia di persone che già ci vogliono bene e con le quali già ci troviamo a nostro agio.

Se hai già battuto questa strada senza risultati forse è giunto il momento di mettersi in gioco. Cioè uscire dalla tua confort zone e fare il piccolo sforzo di uscire dal terreno a te familiare per sperimentarti nel mondo.

  • Al giorno d’oggi ci sono tantissime opportunità di socializzazione (al di fuori dei social): corsi, eventi, gruppi sportivi, associazioni culturali (a proposito, se siete di Monterotondo o dintorni vi consiglio di cominciare dall’Associazione PETRA!). Le possibilità sono infinite. Il consiglio, in questi casi, è di scegliere un’attività che possa piacerci realmente (se non ci piace cucinare non ha senso iscriversi a un corso di cucina solo per fare nuove amicizie!), non solo perché probabilmente troveremo persone con interessi in comune, ma anche perché se ci concentriamo sull’attività piuttosto che sul fare amicizia, potremmo anche sentire meno pressioni nel “trovare un amico” e così, indirettamente, rendercelo più facile!
  • Se ti trovi in una determinata fase della vita, come quella della gravidanza, avrai modo di trovare persone “sulla tua stessa barca” in contesti specifici, come un corso preparto: questi compagni di avventura non solo potrebbero esserti di aiuto nel gestire un momento particolare della tua vita, ma potrebbero anche rivelarsi delle potenziali nuove amicizie.
  • Sfrutta la rete locale partecipando ad attività ed eventi del tuo quartiere o della tua città: i nostri vicini di casa – che spesso immaginiamo come molto lontani anche se vivono a pochi metri da noi – possono rappresentare una grande opportunità per amicizie a km 0!
  • Il volontariato è un’altra grande opportunità per conoscere nuove persone appassionate alle cause che ci stanno più a cuore, oltre a essere una gran bella occasione per fare un po’ di bene a chi ne bisogno.
  • I “social”, dal mio punto di vista, sono l’ultima spiaggia. È vero che è molto più facile parlare dietro l’anonimia della rete, ma quanto vigore potrebbe avere un’amicizia nata in questo modo? Meglio sfruttare il web per individuare gruppi e forum tematici su argomenti di tuo interesse, per poi partecipare agli eventi organizzati… Occhio però!

Ingredienti per una (nuova) amicizia

Come l’amore, possono esserci amicizie stile “colpo di fulmine” e altre che richiedono più tempo e cura. La maggior parte delle volte, comunque, i conoscenti si trasformano in amici solo dopo un certo periodo, ammesso che in questo lasso di tempo ci si sia dedicati a coltivare la relazione. L’amicizia è un processo: si comincia dal presentarsi e da lì si costruisce.

Non esiste un regolamento universale sul come costruire e mantenere un’amicizia, ma possiamo comunque individuare alcuni ingredienti fondamentali per stabilire una sana e solida amicizia:

  • Disponibilità e interesse. Una frequentazione costante è decisiva per costruire una nuova amicizia, quindi è molto importante trovare del tempo da dedicare a esperienze condivise. Quindi di fronte a offerte o inviti, cerca sempre di dire di sì, per quanto ti è possibile. Lo so, il tuo tempo è prezioso… ma chi trova un amico trova anche un tesoro, giusto?
  • Intimità e fiducia sono alla base dell’amicizia, ma non c’è bisogno di snocciolare tutti i vostri segreti e pensieri più intimi immediatamente! Condividi qualcosa di te a piccole dosi e lascia che l’altro faccia lo stesso: pian piano si creerà il contesto migliore per il giusto grado di confidenza.
  • Affidabilità e coerenza. Rimani fedele alla tua parole e alle promesse fatte: se ti sei impegnato in qualcosa, portala a termine. Un amico è qualcuno su cui sentiamo di poter fare affidamento, ma dobbiamo essere noi stessi affidabili prima di poterlo richiedere all’altro. Fin dall’inizio, occorre dare il buon esempio.
  • Reciprocità e uguaglianza. Ci vuole uno sforzo comune per costruire un’amicizia, quindi non puoi essere sempre e solo tu a impegnarti in questo processo. Se dall’altra parte non c’è lo stesso investimento difficilmente potrà svilupparsi una vera e profonda amicizia. Non si tratta di tenere il conto di quanto fa uno e quanto fa l’altro, si tratta di capire se tutto l’investimento di tempo, energie ed emotività ci sta conducendo verso una relazione importante o se è il caso di restare solo buoni conoscenti.

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Se proprio non riesci

Se pensi di aver già tentato ogni strada ma continui ad avere difficoltà nel trovare nuove opportunità o nell’instaurare una nuova amicizia, ti invito a soffermarti su alcuni aspetti:

  • Attenzione a come interpreti un rifiuto. Sii consapevole di come ti approcci: se parti già con l’idea di non piacere agli altri, potresti tendere a interpretare alcuni eventi come conferme della tua idea iniziale. Ti avvicini cioè all’altro con un pregiudizio, ma non nei suoi confronti, bensì nei tuoi! Quando ti trovi di fronte a un ostacolo o a un problema nel rapporto con un potenziale amico, cerca di considerare spiegazioni alternative oltre all’idea che nessuno vorrà mai essere tuo amico. Ad esempio, è possibile che quella persona non abbia accettato un tuo invito perché davvero aveva un impegno che non poteva annullare?
  • Sii paziente verso te stesso e gli altri. Raramente capita di diventare amici per la pelle al primo sguardo, spesso il processo di costruzione di un’amicizia è molto più lungo e non sempre è facile: ci vuole tempo e fiducia per raggiungere quel giusto grado di intimità che caratterizza un’amicizia con la A maiuscola. Non cercare un risultato immediato e non scoraggiarti se con alcune persone non riesci proprio a trovare un legame: nell’amicizia, come nell’amore, l’importante è la qualità, non la quantità. Continua a metterti in gioco, i risultati non tarderanno ad arrivare.
  • Se hai bisogno di supporto, non ti senti pronto o non sai proprio come fare, non esitare a chiedere aiuto. Forse provi un po’ di ansietta al pensiero di dover parlare con uno sconosciuto, o pensi di non sapere nemmeno da dove cominciare: qualunque sia il motivo, se senti di aver bisogno di aiuto, sono a tua disposizione.

In ogni caso, vai avanti e non mollare. Anche se non sempre è facile, ricorda che ne vale sempre la pena. Per dirla con Epicuro:

«Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia.»

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L’attaccamento in età adulta e l’attaccamento di coppia

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Nel primo articolo abbiamo visto come, secondo la teoria dell’attaccamento, nel corso dei primi anni di vita vengano costruiti dei primi modelli di relazione a partire da quella tra il bambino e chi se ne prende cura.

In questa seconda parte facciamo un salto all’età adulta, per vedere in che modo le basi poste durante l’infanzia si esprimono nel rapporto con l’altro, e in particolare nella coppia.

Dall’infanzia all’età adulta

Gli stili di attaccamento sviluppati nel corso dell’infanzia tendono a influenzare le modalità con le quali ciascuno di noi reagisce ai propri bisogni e cerca di soddisfarli all’interno della relazione con l’altro. Questo perché i primi modelli di relazione diventano una specie di “copione” che ci dice cosa fare quando abbiamo bisogno di supporto e di conforto, ma anche a chi rivolgerci.

In questo senso, gli stili di attaccamento possono avere una forte influenza sulle modalità di selezione del partner, su cosa ci aspettiamo da questi e su come ci comportiamo con l’altro quando sentiamo che i nostri bisogni (di sicurezza, di amore, di intimità, ecc.) vogliono essere soddisfatti.

Insomma: anche se ormai siamo grandicelli, quello che da piccoli abbiamo imparato su cosa aspettarci quando ci affidiamo (o meno) a qualcuno tende a lasciare una traccia, visibile anche in età adulta.

È anche vero però che non tutto resta uguale. Con il passare degli anni –per fortuna!– i comportamenti di attaccamento si evolvono con l’evolversi della persona. Difficilmente, infatti, vedremo un adulto attaccarsi alle gonne della mamma e piangere disperato.

La sostanza, comunque, resta: i modelli di relazione che abbiamo assimilato nei primi anni di vita non svaniscono nel nulla.

Le dimensioni dell’attaccamento

In particolare, nell’articolo precedente, si è parlato di come i nostri modelli relazionali prevedano due protagonisti principali: il sé e l’altro. Ovvero il nostro modo di intendere noi stessi (meritevoli o meno di supporto) e le persone a noi vicine (disponibili o meno a fornirci supporto).

Questi “ruoli interni” guidano il nostro modo di relazionarci con i nostri partner, e si manifestano secondo due dimensioni comportamentali che possono essere utilizzate per misurare l’attaccamento in età adulta: quella dell’ansia e quella dell’evitamento.

  • Ansia. Questa dimensione si correla a quanto una persona si preoccupa dell’essere abbandonata, respinta o non apprezzata dal partner. Si parla di individui sempre pronti a rimuginare sulle loro relazioni e sulle reali intenzioni della persona amata, specialmente quando non in prossimità del partner o di fronte a espressioni di indipendenza di quest’ultimo. Quando persone con alti livelli di ansia si sentono insicure dei sentimenti del loro partner o della relazione, tendono a diventare appiccicose e possessive, ma così facendo possono spingere il partner ad allontanarsi, rinforzando proprio le loro insicurezze.
  • Evitamento. Questa dimensione si correla invece a quanto una persona è a proprio agio con l’intimità emotiva in una relazione. Individui con alti livelli di evitamento tendono ad essere meno coinvolti nelle loro relazioni e cercano di rimanere psicologicamente ed emotivamente indipendenti dai loro partner. Questo perché temono di sentirsi vulnerabili e, allo stesso tempo, ritengono che il partner non potrà aiutarli quando ne avranno realmente bisogno: cercano così di sentirsi forti e sicuri facendo affidamento solo su loro stessi e sulla loro autonomia. Ed è così che solitamente rispondono di fronte a situazioni stressanti o conflittuali.

È importante sottolineare che non stiamo parlando di “categorie” (o ci sei o non ci sei), ma di “dimensioni”, il che sta a significare che può esserci una certa variabilità nel proprio essere “ansiosi” o “evitanti”. Potremmo considerarle più delle “tendenze” che delle reazioni rigide, e questo è molto importante perché significa che è qualcosa su cui ci si può lavorare.

L’attaccamento da adulti

In ogni caso, considerando le due dimensioni dell’ansia e dell’evitamento, possiamo notare una certa continuità con gli stili di attaccamento caratteristici dell’infanzia:

  • Stile sicuro. Coloro che hanno un’immagine sostanzialmente positiva di sé e dell’altro, ritenendo loro stessi amabili e gli altri come disponibili e degni di fiducia. Per tale motivo, manifestano bassi livelli di ansia e di evitamento nelle loro relazioni.
  • Stile distanziante. L’aspetto principale è un’immagine negativa dell’altro, considerato come generalmente non disponibile o supportante, il che porta l’individuo a puntare solo su sé stesso. I livelli di ansia nella relazione sono bassi, ma la dimensione dell’evitamento è molto consistente.
  • Stile preoccupato. In questo caso è l’immagine di sé che tende ad essere negativa, perennemente alla ricerca di conferme sulla propria amabilità. Qui i livelli di ansia relazionale sono decisamente alti, mentre la dimensione dell’evitamento è praticamente inesistente.
  • Stile timoroso. Caratteristico di chi presenta un’immagine negativa sia di sé stesso che dell’altro. Risultano particolarmente presenti sia la dimensione dell’ansia che quella dell’evitamento, oscillando perennemente tra la ricerca dell’altro e il timore nei confronti di quest’ultimo.

È importante sottolineare come questi “stili” non sono sempre attivi e non guidano ogni aspetto di una relazione. Rappresentano piuttosto delle tendenze a gestire in un certo modo lo stress nelle relazioni. Quando le cose vanno bene, specialmente nel periodo “luna di miele” all’inizio di un nuovo amore, questi stili non risultano così espliciti. È solo nei momenti di difficoltà che possono emergere in tutta la loro forza: allo stesso modo che nell’infanzia, infatti, questi schemi relazionali si attivano solo quando abbiamo un bisogno di sicurezza o di conforto da soddisfare.

Così, nel caso dello stile “preoccupato”, se il nostro partner si dimentica di chiamarci o non risponde subito a un nostro messaggio, potrebbero immediatamente attivarsi dei comportamenti di ricerca di rassicurazioni (ansia). Se l’altra persona presenta invece uno stile “distanziante”, di fronte a queste richieste potrebbe affiorare una tendenza a starsene alla larga (evitamento).

Questo esempio ci fa intravedere un altro aspetto fondamentale dell’attaccamento in età adulta: come si combinano tra di loro gli stili di attaccamento dei partner in una relazione. Fino ad ora abbiamo parlato di questi stili dal punto di vista dell’individuo, ma non dobbiamo dimenticare che i comportamenti di attaccamento in realtà si manifestano esclusivamente all’interno della relazione con l’altro.

Attaccamento di coppia

A differenza dell’attaccamento in età infantile, l’attaccamento in età adulta è caratterizzato dalla reciprocità: entrambi i partner possono trovarsi in una posizione di ricerca di rassicurazione e di sicurezza o nella posizione di dover supportare e sostenere l’altro.

In questo senso, diventa molto importante considerare l’attaccamento “di coppia”, ovvero le possibili combinazioni di stili di attaccamento tra i due partner:

  • Attaccamento di coppia sicuro/sicuro. Tutti e due i partner sono in grado di esprimere il bisogno di conforto e di accoglierlo in maniera adeguata. Si tratta della combinazione “migliore”, che idealmente dovrebbe coincidere con una buona qualità della relazione di coppia.
  • Attaccamento di coppia distanziante/distanziante. Entrambi i partner tendono a non mostrare le proprie vulnerabilità all’altro, che comunque tenderebbe a reagire mettendo un muro tra sé e il partner. La parola chiave, in questi rapporti, è “autonomia”.
  • Attaccamento di coppia preoccupato/preoccupato. La combinazione più “scoraggiante”, nel senso che entrambi i partner vivono nella costante sensazione di non poter essere soddisfatti nei propri bisogni di conforto, sentendosi continuamente deprivati della possibilità di essere supportati.
  • Attaccamento di coppia distanziante/preoccupato. Probabilmente l’accoppiamento più “drammatico” e conflittuale, con uno dei due che cerca costantemente rassicurazioni da parte dell’altro, che di suo reagisce allontanandosi ancora di più. È il tipico siparietto dove uno dei due insegue, mentre l’altro scappa.
  • Attaccamento di coppia sicuro/insicuro (preoccupato o distanziante). Questa combinazione può essere considerata in qualche modo “incerta”, ma è anche quella che forse più di tutte può portare in qualche modo a “correggere” le tendenze negative degli attaccamenti insicuri. Questo perché il partner sicuro potrebbe fornire un modello diverso e più bilanciato del come vivere una relazione, specialmente nei momenti di maggiore difficoltà.

Esaminando in particolare quest’ultima combinazione, emerge un altro aspetto importante: anche se il nostro stile di attaccamento ci accompagna fin da quando siamo piccoli, riecheggiando nelle relazioni che possiamo avere in età adulta, non è detto che questo non possa essere in qualche modo “corretto” da nuove e diverse relazioni.

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La scelta del partner

Come abbiamo visto nel primo articolo, lo stile di attaccamento che “impariamo” da bambini diventa una sorta di modello che ci guida nel come gestire i nostri bisogni di conforto e di sicurezza. Sviluppiamo, in questo senso, anche delle aspettative rispetto a chi siamo noi e a chi è l’altro. E queste aspettative sono attive anche nella fase di scelta del partner.

Questo significa che quando siamo alla ricerca di una persona con la quale instaurare una relazione, è possibile che le nostre scelte possano dipendere dalla nostra idea di come deve essere l’altro. In altre parole, cerchiamo qualcuno che possa confermare le nostre aspettative su come l’altro possa rispondere ai nostri bisogni.

In questo caso, il detto “chi si somiglia si piglia” non sembra applicabile! Infatti “ci pigliamo” chi può confermare i nostri modelli interni, non chi può smentirli. È il tipico esempio della combinazione distanziante/preoccupante, dove si finisce incastrati in relazioni in cui tendono a ripetersi le stesse sequenze che abbiamo vissuto durante l’infanzia, in cui i nostri bisogni non venivano accolti o non era il caso di esprimerli, e dall’altra parte qualcuno che non rispondeva in maniera adeguata alle nostre richieste di conforto e rassicurazione.

Altre volte, però, se si è fortunati, è possibile trovarsi in relazioni diverse, che in qualche modo mettono in discussione la nostra idea di come devono andare le cose nei rapporti di coppia. È il caso, ad esempio, dell’incontro tra un individuo sicuro e uno insicuro, in cui quest’ultimo può –forse per la prima volta– sperimentare un modo diverso di fidarsi e di affidarsi all’altro.

Vecchi modelli, nuove opportunità

Insomma, anche se tendenzialmente stabile, il nostro stile di attaccamento può essere “modificato”. Ciò che cambia, in questo senso, è il nostro modo di intendere noi e l’altro, ovvero la possibilità che i nostri bisogni possano essere adeguatamente accolti in quanto meritevoli del supporto e dell’affetto dell’altro.

Se è questo ciò che deve cambiare, non è detto che per farlo bisogna per forza troncare la relazione attuale a andare alla ricerca di un individuo “sicuro” per poterci liberare dal giogo delle nostre insicurezze.  Se il nostro partner non lo è, allora non resta che diventarlo noi.

Significa cioè imparare a essere consapevoli dei nostri modi di reagire, ma anche dei modi di reagire dell’altro. E poi essere consapevoli nel rispondere in maniera diversa quando ci sentiamo sopraffatti da qualcosa, o quando è il nostro partner a sentirsi sopraffatto.

Imparare a conoscere le proprie modalità di relazionarsi all’altro è il primo passo, per mettere poi in discussione i nostri modi di reagire e i meccanismi che ci tengono ancorati alla continua riconferma delle nostre idee su di noi e sugli altri. Idee vecchie, che in passato possono anche essere risultate utili, ma che adesso, in un diverso campo di gioco, non possono più applicarsi.

In amore, però, le cose si fanno in due. È importante che entrambi i partner si impegnino a cercare un nuovo equilibrio e a rispondere in nuovi modi quando arrivano i momenti difficili. Non è un lavoro facile, per questo spesso la cosa migliore da fare è rivolgersi a un professionista che possa aiutarvi in questo percorso.

In ogni caso, comincia a portare attenzione ai tuoi modi di reagire nella tua relazione. Chissà che già questo possa portarti a vedere le cose in maniera diversa. E magari spingerti a trovare nuove strade quando pensi di aver imboccato l’ennesimo vicolo cieco.

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La teoria dell’attaccamento e lo sviluppo dell’attaccamento nell’infanzia

attaccamento

Le modalità con le quali ci relazioniamo con i nostri partner o con le persone per noi significative non sono casuali. Si tratta in realtà di modelli di comportamento vecchi almeno quanto noi, imparati nei primi anni di vita a partire dalle relazioni con i nostri genitori. Per capire perché tendiamo a relazionarci in certi modi con le persone a noi più vicine, è quindi necessario comprendere come e perché abbiamo imparato a interagire così.

In questo primo articolo esploreremo come nel corso dell’infanzia si pongono le basi per le relazioni con gli altri significativi, a partire da un particolare tipo di legame che si sviluppa tra il bambino e il proprio genitore: il legame di attaccamento.

Cos’è l’attaccamento?

Secondo la teoria dell’attaccamento, elaborata originariamente da John Bowlby, gli esseri umani nascono con una particolare predisposizione innata a formare dei profondi legami con chi si prende cura di loro. Questo legame, definito per l’appunto attaccamento, ha principalmente una funzione protettiva: un bambino piccolo non è in grado di sopravvivere da solo né tantomeno ha la capacità di gestire la propria sofferenza nei momenti di difficoltà. Per questo motivo, è necessario che ci sia una figura di riferimento alla quale il bambino potrà rivolgersi quando ne sentirà il bisogno.

Il legame di attaccamento si forma nei primi anni di vita a partire dalle modalità con cui le figure di riferimento risponderanno ai bisogni di rassicurazione e conforto del bambino. Se tutto va bene, queste figure di riferimento – solitamente i genitori – rappresenteranno poi la “base sicura” dalla quale il bambino potrà partire per esplorare il mondo e alla quale ritornare in caso di bisogno, garantendo conforto fisico e supporto emotivo.

Ovviamente la cosa non finisce qui. Il sistema di attaccamento non è semplicemente una strategia per stabilire relazioni significative con chi deve proteggerci così da sentirci al sicuro nel nostro percorso verso l’indipendenza. Il rapporto privilegiato che si costruisce in questi primi anni farà sentire la sua influenza per tutta la vita, condizionando profondamente le modalità con le quali entriamo in relazione con l’altro in età adulta. L’attaccamento sarà il modello per i sentimenti, i pensieri e le aspettative che esporteremo nelle nostre relazioni.

Pattern di attaccamento

Di fronte al bisogno innato di protezione del proprio bambino, non tutti i genitori rispondono allo stesso modo. Alcuni possono rivelarsi adeguatamente presenti e supportivi nei confronti del piccolo, altri possono essere incoerenti oppure distaccati, altri ancora potrebbero persino rappresentare una fonte di pericolo per il bambino.

Diversi anni fa, Mary Ainsworth, un’importante ricercatrice dell’attaccamento, ha ideato una procedura sperimentale per identificare quali e quanti fossero gli stili di attaccamento possibili. L’esperimento era tanto semplice quanto geniale: dei bambini piccoli venivano osservati in diverse condizioni, come quando in presenza di un estraneo, in assenza della madre e al ricongiungimento con la stessa.

La Ainsworth è così riuscita a individuare quattro pattern di attaccamento:

  • Attaccamento sicuro: i bambini con questo tipo di attaccamento utilizzano il genitore come “base sicura” dalla quale esplorare il mondo e alla quale ritornare in caso di “pericolo”. Il bambino, cioè, si sente sicuro che la figura di riferimento potrà rispondere ai suoi bisogni di protezione e di conforto quando ne avrà bisogno; per questo motivo si sente anche libero di esplorare l’ambiente circostante e di avviarsi, quindi, sul lungo cammino verso l’indipendenza sapendo di potersi affidare a qualcuno in caso di necessità.
  • Attaccamento insicuro-evitante: caratterizza quei bambini che, nel corso delle interazioni con le figure di riferimento, hanno imparato che, in caso di difficoltà, non troveranno nessuno in grado di accogliere i propri bisogni di protezione. I genitori di questi bambini tendono a essere poco disponibili emotivamente e poco consapevoli dei bisogni dei loro figli; il bambino perciò dovrà, giocoforza, imparare a gestire i propri bisogni da solo e diventare quindi precocemente autonomo. Imparano dunque a inibire le proprie emozioni (“che senso ha mostrarle se poi nessuno mi aiuta?”), ma sviluppano anche l’idea di non essere degni di supporto e di amore da parte degli altri.
  • Attaccamento insicuro-ambivalente: lo stile che si associa a quei bambini che appaiono confusi e insicuri, perché non sanno quale trattamento potrebbero aspettarsi. La figura di riferimento risponde sì alle richieste del piccolo, ma non sempre allo stesso modo: si tratta quindi di genitori poco costanti e imprevedibili, mostrando a volte presenza e supporto, altre volte insensibilità e rifiuto. Come risultato, il bambino non sa se considerarsi amabile o no, e nel dubbio resta appiccicato al genitore in modo da poterlo monitare constantemente. Hanno quindi paura di una separazione, per questo motivo l’esplorazione dell’ambiente (e lo sviluppo della possibilità di agire in maniera indipendente) risulta inibita.
  • Attaccamento insicuro-disorganizzato: è il caso più estremo, quando la figura di riferimento diventa anche la figura che rappresenta il pericolo. Si tratta di una situazione molto grave, spesso determinata da abusi e crudeltà vissute in ambito famigliare, nella quale il bambino è incastrato in un dilemma terribile: da una parte vorrebbe raggiungere la sua fonte di sicurezza (il genitore), che però è la stessa figura dalla quale vorrebbero scappare. Si tratta di un conflitto praticamente irrisolvibile, manifestato anche da comportamenti particolarmente paradossali e incongrui del bambino in situazioni di allontanamento o di riavvicinamento alle figure di riferimento.

Modelli di relazioni

Ciascuno di noi, nel corso della propria vita e proprio a partire dalle prime esperienze relazionali, elabora una serie di schemi mentali che guideranno le nostre percezioni e le nostre interpretazioni, e quindi anche i nostri comportamenti, quando abbiamo a che fare con gli altri. Questi “modelli di relazione”, quasi dei copioni teatrali, prevedono essenzialmente due protagonisti:

  • L’altro: il modello di come sono le figure di riferimento, vale a dire se ci si può fidare della loro capacità di fornire supporto quando ne abbiamo bisogno;
  • Il sé: il modello di come siamo noi, ovvero se i nostri bisogni possono o meno essere soddisfatti dagli altri, ma anche se siamo meritevoli di ricevere il loro supporto.

Se siamo in presenza di una relazione di attaccamento di tipo “sicuro”, il nostro modello dell’altro sarà certamente positivo, poiché percepiremo che la nostra figura di riferimento sarà presente e capace quando ne avremo bisogno; quindi, in caso di necessità, sappiamo di poterci appoggiare agli altri, e che gli altri saranno lì a sostenerci.

Ma se si trattasse di un attaccamento di tipo “insicuro”, le percezioni di noi stessi e degli altri potrebbero non essere così rassicuranti. Potremmo arrivare a considerarci poco o per nulla degni di amore, persino odiati. Potremmo irrigidirci nell’idea che nessuno potrà mai aiutarci o di quanto possa essere sconveniente o inutile esprimere i propri bisogni, oppure di doverli esprimere necessariamente strepitando e disperandosi. Potremmo considerare gli altri, coloro che sulla carta dovrebbero volerci bene, come delle persone insensibili o dalle quali doversi guardare di continuo, da controllare o persino da temere.

Diventa più chiaro, a questo punto, capire come lo stile di attaccamento che caratterizza la prima infanzia possa riecheggiare in tutti le relazioni che vivremo da quel momento in avanti.

attaccamento

Conclusioni

Il sistema di attaccamento è il primo motore dello sviluppo sociale, emotivo e cognitivo di ciascuno di noi. E da lì che può nascere il nostro senso di sicurezza e di fiducia nei confronti degli altri o, al contrario, una percezione di insicurezza e di sfiducia nel rapporto con l’altro.

I modelli appressi nel corso dell’infanzia sono relativamente stabili per tutta la vita, anche perché le modalità con le quali ci mettiamo in relazione con l’altro tendono alla riconferma dei presupposti di base, rinforzando quindi i modelli originali. Ma non tutto è perduto.

Anche se particolarmente resistenti, stiamo sempre parlando di modelli, di copioni da seguire quando ci troviamo in una relazione. Come se fossero dei manuali di istruzione. Ma ciò non significa che saremo condannati per tutta la vita a seguire quello che abbiamo appreso nei nostri primi anni, ma che c’è una forte tendenza a mettere in atto quelle stesse scene.

Nuove relazioni possono portare a nuovi e diversi modi di vivere sé stessi e l’altro. È importante però comprendere da dove derivano i nostri comportamenti relazionali, e che forma assumono in età adulta, in modo da potersene sbarazzare. Sarà proprio questo il tema del prossimo articolo: gli stili di attaccamento nell’adulto.

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Il sesso dovrebbe essere un’esperienza piacevole, ma è difficile che sia così quando si soffre della cosiddetta ‘ansia da prestazione’. Vediamo insieme come nasce l’ansia da prestazione e come fare per ritrovare l’intesa di coppia e il piacere del fare l’amore.

ansia da prestazione

Sulla carta, il sesso dovrebbe essere un’esperienza decisamente piacevole. A volte, però, finisce per diventare l’esatto opposto: un’attività che diviene fonte di stress più che di piacere. Questo è vero soprattutto nel caso siano presenti delle disfunzioni sessuali che impediscono di godere a pieno dell’esperienza, come difficoltà legate all’erezione o all’eiaculazione precoce negli uomini oppure assenza di desiderio o anorgasmia nelle donne.

Al di là delle specifiche problematiche, però, uno dei peggiori nemici del sesso resta sicuramente l’ansia da prestazione. In particolare, le preoccupazioni relative al proprio aspetto o alle proprie performance tra le lenzuola, che rendono il rapporto sessuale un’esperienza decisamente stressante e motivo di forte sofferenza. Anche per il partner.

In questo articolo portiamo l’attenzione sul rapporto tra sesso e ansia, in particolare sulle preoccupazioni relative alla prestazione e su cosa si può fare per vivere con maggiore serenità i momenti di intimità con la propria dolce metà.

Ansia e sessualità: una coppia incompatibile

Abbiamo parlato molte volte di come i nostri pensieri possano portarci a sperimentare ansia. Le tipiche preoccupazioni di chi si approccia all’attività sessuale come una “prestazione” non fanno eccezione.

Nel momento in cui si scatena la risposta di ansia, infatti, nel nostro corpo avvengono delle modificazioni che preparano il nostro corpo ad agire: andiamo cioè in modalità “attacco o fuga”. Quando si attivano i circuiti responsabili di questo processo (parliamo del sistema nervoso simpatico, che di simpatico, come stiamo per vedere, non ha proprio nulla), semplicemente non si può avere un’erezione. Nelle donne, invece, è impedita la risposta di lubrificazione.

Insomma, mancano proprio le basi. Non c’è molto altro da aggiungere: ansia e sesso sono decisamente incompatibili!

Pensieri e preoccupazioni

Ci sono diversi tipi di preoccupazioni che possono passare per la testa dello sfortunato amante. Semplificando, possiamo distinguerle in due tipologie: quelle relative alla prestazione e quelle legate alla propria immagine di sé.

Tra le ansie che hanno come oggetto la performance sessuale troviamo in particolare:

  • L’aspettativa di dover soddisfare sessualmente il partner;
  • La preoccupazione (nell’uomo) di raggiungere l’eiaculazione troppo presto o di non riuscire a raggiungerla affatto;
  • La preoccupazione (nella donna) di non essere in grado di raggiungere un orgasmo.

Per quanto riguarda aspetti legati alla propria immagine corporea, si riscontra soprattutto:

  • Il non essere a proprio agio con il proprio corpo, sia rispetto a inestetismi o a problemi di peso, sia relativamente alla conformazione e alle misure degli organi genitali.

Esistono diversi motivi che possono portare una persona a sperimentare ansia in ambito sessuale. Si va da precedenti esperienze traumatiche a cambiamenti fisici dovuti a malattie o gravidanze, passando per molti altri fattori. Tra questi, un ruolo sicuramente importante è occupato dalle credenze relative alla sessualità.

Credenze sul sesso e immagine di sé

Parliamo di idee decisamente inesatte ma purtroppo molto diffuse nella nostra società relative a cosa sia il sesso e come vada fatto, ma anche concezioni relative alla mascolinità o alla femminilità. Ad esempio:

  • l’uomo è davvero uomo solo se è in grado di soddisfare una donna, magari con un certo numero predefinito di orgasmi “da procurare”;
  • l’uomo deve essere sempre avere voglia ed essere pronto e disponibile a fare sesso, a prescindere dalla stanchezza, dalla saluta fisica e dall’ansia;
  • le dimensioni sono l’unica cosa che conta davvero;
  • in una coppia, se ci si ama davvero, si sa già cosa vuole o pensa il proprio partner;
  • il sesso deve essere un’attività naturale e spontanea, non se ne può parlare, altrimenti non sarebbe la stessa cosa;
  • il sesso è realmente soddisfacente solo se entrambi i partner hanno un orgasmo contemporaneamente.

Il problema di queste credenze, oltre al fatto che sono di per sé assolutamente sbagliate, è che inducono una certa idea di cosa è normale e di cosa non lo è, di ciò che va e di ciò che non va. Un uomo che, ad esempio, non è dell’umore giusto per un rapporto sessuale potrebbe ritenere che c’è qualcosa in lui che non va, che non è normale. Allo stesso modo, un uomo che non riesce a sviluppare o a mantenere l’erezione durante un rapporto sessuale, potrebbe pensare di non essere in grado di soddisfare sessualmente la propria partner, quindi di non essere un “vero” uomo.

Che effetto può avere sulla propria immagine di sé credere a queste concezioni sulla sessualità? Cosa succede se crediamo in maniera rigida a queste idee, confrontandoci continuamente con standard irrealistici e per di più inesatti?

Cosa succede in camera da letto?

Come spesso accade quando si ha a che fare con l’ansia, le conseguenze che più temiamo e che vogliamo evitare si presentano drammaticamente proprio a causa della stessa ansia.

Quando una persona vive la sessualità concentrandosi esclusivamente sulla prestazione o sui propri difetti fisici, perde di vista cosa succede tra le lenzuola in quel momento. Non solo, perde di vista il proprio partner.

Un amante distratto da pensieri quali “sto andando bene?”, “si vede la pancia che sobbalza?” o “non devo perdere il controllo!” è un amante disattento, quindi non in grado di prestare realmente attenzione ai bisogni del partner, quindi – paradossalmente – non in grado di soddisfarlo.

Il rischio è che si instauri un circolo vizioso dal quale diventa difficile uscirne: a partire dagli effetti dell’ansia sulla “prestazione”, che già rendono difficile iniziare o portare avanti un rapporto, se l’attenzione è portata esclusivamente alla performance non c’è possibilità di un incontro realmente soddisfacente, il che alimenta le proprie insicurezze e, quindi, la propria ansia.

ansia da prestazione

Come affrontare l’ansia da prestazione

Un consiglio generale e sempre valido quando si parla di difficoltà sessuali, è di rivolgersi al proprio medico di fiducia ed eventualmente a medici specializzati in disturbi della sessualità. È il caso soprattutto di problemi relativi all’erezione o in caso di dolori nel rapporto. Ad ogni modo, è necessario indagare su possibili condizioni mediche o sull’utilizzo di farmaci o altre sostanze che possono essere alla base di una disfunzione sessuale.

Esclusa la possibilità di una causa organica, il mio consiglio è di:

  • Parlarne con il tuo partner. È molto importante confrontarsi in maniera aperta sulle proprie difficoltà o insicurezze, anche perché spesso il partner è già ben consapevole che c’è “qualcosa che non va”. Provate a trovare una soluzione insieme: oltre che avvicinarvi ancora di più come coppia, la vostra vita sessuale potrebbe guadagnare moltissimo da un confronto aperto e sincero.
  • Non concentrarti solo sulla penetrazione. Il sesso è molto più del coito, e il piacere non dipende solo da questo. Ci sono molti modi per provare benessere e soddisfazione nell’intimità con l’altro, dai massaggi sensuali ai baci, dalle carezze al darsi piacere l’un l’altro senza penetrazione. Quello che conta, alla fine, è solo stare bene insieme e godersi il momento.
  • Chiedere aiuto a un terapeuta. Se hai difficoltà a confrontarti con il partner o non sai bene cosa fare, la cosa migliore da fare è consultare uno psicoterapeuta che possa aiutarti nel risolvere queste difficoltà. È comunque la strada migliore da percorrere se una coppia vive delle forti tensioni al di fuori della camera da letto: in questi casi è difficile anche che ci sia il desiderio di fare l’amore, che è sicuramente un prerequisito fondamentale, figuriamoci il resto.

Infine, è importante che tu smetta di darti addosso. Smetti di concentrarti sui tuoi difetti o sullo standard minimo da garantire: come abbiamo visto non è che aiuti molto. Smetti di giudicarti negativamente: non serve a nulla e ti fa stare solo male. Se pensi di avere dei problemi a letto, cerca aiuto: è la decisione più saggia per tornare nuovamente a vivere la sessualità in maniera positiva e soddisfacente.

Se hai bisogno, io ci sono.

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La ripetitività è nella nostra natura. Ogni singolo apprendimento, sia esso positivo o negativo, è frutto di ripetizioni. Ma così come abbiamo imparato a mettere in atto alcuni comportamenti, è possibile impararne di nuovi per non essere destinati a commettere sempre gli stessi errori.

ripetitività

Chi più, chi meno, ciascuno di noi tende a ripetere sempre gli stessi errori. Che sia la scelta di un partner o il modo di intervenire durante una discussione, nella nostra quotidianità è possibile osservare una certa tendenza a ripetere alcuni comportamenti. Quasi si trattasse di un copione già scritto, in cui non sembra esserci possibilità di uscire dal ruolo che, volenti o nolenti, ci siamo assegnati.

Ma perché continuiamo a ripetere gli stessi comportamenti? Sembra essere più forte di noi: quando ci troviamo in alcune situazioni è come se andassimo in automatico a riviverle come già fatto in passato. Con la conseguenza di mettere in scena sempre le stesse sequenze con l’inevitabile rimprovero del nostro regista interiore.

Già, perché non solo tendiamo a commettere gli stessi sbagli ogni volta che possiamo, in più, quando ce ne accorgiamo, completiamo la sequenza con una buona dose di autorimproveri. Che, spesso, hanno effetti anche peggiori dell’errore appena ripetuto.

Ma come mai siamo soggetti a queste dolorose ripetizioni? Cosa ci impedisce di spezzare l’incantesimo?

Esseri ripetitivi

Che ci piaccia o no, l’essere umano è un essere altamente ripetitivo. Semplicemente, funzioniamo così. Per quanto ci piaccia considerare noi stessi delle persone “senza schemi” e mai banali, la ripetitività fa comunque parte di noi.

Pensiamo anche solo alle piccole routine che ciascuno di noi ha nella vita quotidiana. Ad esempio, ciascuno di noi (me compreso) può facilmente identificare la successione di diversi comportamenti che vengono messi in atto al risveglio. Caffè, colazione, bagno, doccia, eccetera: ad ognuno la sua combinazione, ma la costante è che mettiamo in atto questa routine in maniera sistematica ogni mattina (forse, per alcuni, con l’eccezione del weekend!).

Chiaro, c’è chi è più attaccato a questi piccoli o grandi rituali e chi lo è in misura minore, ma in sostanza siamo tutti portati automaticamente a ripetere alcuni gesti. A dirla tutta, più che di “attaccamento” a queste ripetitività, in realtà sarebbe il caso di parlare di “rigidità”. Come vedremo, infatti, spesso il problema non è nelle routine, ma nella nostra difficoltà a farne a meno.

Ripetuta…mente

Quella della routine mattutina può sembrare un’osservazione banale e poco significativa, ma è comunque un piccolo indizio di come in realtà funziona il nostro cervello.

I diversi circuiti cerebrali, ovvero le reti di neuroni (le cellule del nostro cervello), ad esempio, si sviluppano per ripetitività. Quando una certa combinazione di cellule si attiva più volte, il circuito di rinforza e si stabilizza; al contrario, se non c’è un’attivazione costante, pian piano questa struttura perde di forza fino a estinguersi.

In parole povere, quando ripetiamo un comportamento, le strutture del cervello dedicate a quella funzione diventeranno più solide e si attiveranno più facilmente. Viceversa, se non compiamo più una certa azione, quindi non sollecitando più quel particolare circuito, col tempo questo si indebolirà e scomparirà della “mappa” del nostro cervello.

Un’analogia che mi piace molto è quella con i vecchi dischi in vinile. Ripetere un’azione è come scavare un solco nel disco. Se la puntina del giradischi va a finire in quel solco, quella sarà la musica che verrà suonata. Più è profondo il solco, più è difficile uscirne.

Ripetizione = apprendimento

Detta così può sembrare una cosa negativa, ma in realtà è grazie a questi meccanismi legati alla ripetitività che impariamo a fare ciò che sappiamo fare. Pensiamo, ad esempio, ai noiosissimi esercizi di pianoforte nei quali ripetiamo sempre la stessa scala musicale. Cosa succede se ci applichiamo ogni giorno, costantemente, a questi esercizi?

Arriverà il giorno, quando si saranno sviluppati e rinforzati i circuiti cerebrali legati al movimento delle mani, all’anticipazione della nota seguente e molti altri ancora, che eseguiremo quella stessa scala con grande sicurezza e precisione, senza nemmeno doverci concentrare sui movimenti da fare o sui tasti da suonare.

Quindi, ripetere serve ad imparare una cosa fino a quando il cervello non ce la farà svolgere in automatico… ovvero, senza che ci pensiamo.

Ansia a ripetizione

Quando parliamo di ansia non parliamo soltanto di un’emozione, ma anche di specifici pattern di comportamento dal carattere ripetitivo. Già, perché le sequenze che si possono osservare nei disturbi d’ansia sono decisamente il frutto di apprendimenti causati dalla ripetizione incessante di determinate azioni.

Anche senza considerare l’estrema ripetizione sistematica di alcuni gesti per ridurre l’ansia – come nel caso delle classiche “compulsioni” – possiamo comunque notare che c’è una certa ripetitività nelle azioni compiute da una persona che soffre d’ansia. Cosa fa una persona che teme un attacco di panico? Risponde alla propria paura con un comportamento, che solitamente ha a che fare con la fuga da una certa situazione o l’evitamento della stessa.

Questo perché, a causa delle ripetizioni di questo comportamento, la risposta tipica di fronte a un evento ansiogeno si è strutturata in maniera rigida. La persona ansiosa non ha nemmeno bisogno di pensare a “cosa” fare, quando si trova in quella specifica situazione, risponde automaticamente in base a ciò che nel tempo ha appreso: “se faccio così, l’ansia va via”.

Il problema, ovviamente, è che la fuga o l’evitamento di queste situazioni ha poi degli effetti molto importanti sulla vita di chi li mette in atto. Evitare sistematicamente di uscire di casa, perché, ad esempio, si ha paura di sentirsi male o di perdere il controllo, significa ridurre la propria vita sociale o lavorativa. Significa, in sostanza, che per evitare qualcosa di spiacevole e tremendamente spaventoso, si va incontro a conseguenze altrettanto dolorose ma sicuramente più “reali”.

Tutto questo perché si agisce in maniera automatica, lasciando che il nostro cervello selezioni in maniera ripetitiva sempre la stessa risposta.

Coazione a ripetere

Se è vero che piccole e innocenti routine mattutine sono caratterizzate da ripetitività, e se è vero che tendiamo a rispondere a singoli eventi o situazioni in modo stereotipato, è possibile sostenere che addirittura grosse “fette” della nostra vita siano il frutto di sequenze che tendono a ripetersi?

C’è chi, ad esempio, finisce per ritrovarsi sempre con la stessa tipologia di partner. Non è anche questa una specie di ripetizione? Magari all’inizio è più difficile notare i segnali che ci indicano che stiamo ripercorrendo, ancora una volta, sempre la stessa strada. Anche perché non sempre ci sono! È molto più probabile che sia l’interazione continua tra i due partner a caratterizzare una relazione che si rivelerà “uguale” a quelle già vissute.

Questo perché ciascuno dei due tenderà a “mettere” nella coppia le proprie ripetitività, col risultato che, col tempo, le dinamiche di coppia si organizzeranno in modo da adattarsi alle personali routine dei partner.

ripetitività

Cose già viste

Prendiamo un individuo molto “accudente”, al punto che la sua ultima relazione è finita perché la partner si è sentita “stretta” dalle sue continue attenzioni (vissute come “apprensioni”). Ipotizzando una buona capacità di analisi, il nostro amico potrebbe rendersi conto che i suoi comportamenti potrebbero essere stati la causa della rottura della relazione. Così, si ripromette di non farlo più. All’occasione successiva, infatti, è probabile che partirà in maniera più “soft”, evitando di riproporre le stesse “attenzioni soffocanti”.

All’inizio le cose potrebbero andare bene, non senza fatica dal trattenersi dalla propria “indole”. Arriverà però il giorno in cui inevitabilmente si “rilasserà”, abbasserà la guardia e gli automatismi prenderanno il sopravvento. In pratica, tenderà a rimettere in atto quegli stessi comportamenti “accudenti” che hanno segnato la relazione precedente.

Intendiamoci: a parte il fatto che si tratta di una semplificazione e che il secondo partner potrebbe anche “incastrarsi” bene in questa dinamica, il senso qui è che, nel piccolo e nel grande, la nostra tendenza è quella di essere ripetitivi.

Buone ripetizioni

Ma l’essere ripetitivi è un problema solo quando, nella migliore delle ipotesi, continuiamo a mettere in atto gli stessi comportamenti senza in realtà trarne alcun vantaggio. Nei casi peggiori, finiamo addirittura per complicarci la vita.

Ovviamente, rispetto al “semplice” apprendimento di una singola azione, l’analisi di copioni narrativi così ampi come, ad esempio, il modo in cui viviamo le nostre relazioni, risulta molto più complessa. Ma, nella sostanza, si tratta sempre di pattern ripetitivi.

Solo che, al di là dei circuiti cerebrali, che comunque sono la “base” del nostro funzionamento, spesso entrano in atto altri aspetti, molto più profondi e non immediatamente accessibili alla nostra coscienza, che hanno a che fare con i nostri bisogni, i nostri modi di stare con l’altro, l’immagine che abbiamo della nostra persona, di chi ci è vicino e del mondo in cui viviamo.

Nel concreto, però, la costante è sempre quella: nel bene o nel male, tendiamo a ripeterci. A prima vista potrebbe sembrare quasi una condanna, ma in realtà non è così. Le nostre routine, le nostre ripetizioni, i nostri comportamenti sono tutti frutto di ciò che abbiamo appreso. E quel che è stato appreso, è possibile disimpararlo.

Non è facile, ci vuole sicuramente tempo e pazienza, ma si può imparare nuovi modi di fare e di essere, per uscire dal circolo vizioso della ripetitività. Che sia un modo diverso di organizzarsi il mattino, una modalità differente di affrontare ciò che temiamo o la messa in atto di nuovi comportamenti all’interno di una relazione, c’è sempre la possibilità di conoscersi e di reinventarsi.

Del resto, come si suol dire, nella vita non si finisce mai di imparare.

 

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Da fuori non si vede, ma dentro è più che reale. Continuare ad andare avanti, giorno dopo giorno, ma sentirsi sempre stanchi e senza energie. È la “depressione ad alto funzionamento”: quando si è in grado di “funzionare” nella propria vita, ma non di essere felici.

depressione ad alto funzionamento

Ilaria si alza ogni mattina per andare a lavoro. Le cose da fare sono sempre tante, ma tutti sanno che Ilaria è una gran lavoratrice e non si lamenta mai. Il capo la loda sempre per l’impegno e la puntualità. Cerca sempre di mettere su un bel sorriso quando è necessario interagire con i suoi colleghi, ma spesso preferisce passare la pausa caffé alla sua scrivania. Spesso viene invitata a unirsi a loro per un aperitivo dopo il lavoro, ma ha sempre qualche scusa pronta e credibile per declinare l’invito.

Ogni giorno Ilaria torna a casa, stanchissima, mette degli abiti comodi e si toglie la maschera. Accende la TV, il canale non è importante, si raggomitola sul divano e si perde nelle vite degli altri. Ogni tanto arriva un messaggio su Whatsapp, spesso amiche che le chiedono di uscire, ma queste proposte si stanno diradando sempre più. Ilaria declina con gentilezza, e se qualcuno le chiede come va, la risposta è sempre: «Bene, grazie».

La serata passa così, con lo sguardo nel vuoto e la sensazione che le cose così proprio non vanno. Domani sarà un altro giorno, ma già pensa alla fatica che farà per alzarsi dopo l’ennesima notte passata a rigirarsi. Pensa alle mille piccole commissioni che dovrà fare al lavoro, e a quanta energia le richiedono. Energia che Ilaria sente di non avere più. Sa che dovrà indossare di nuovo la maschera, perché è importante che gli altri non si accorgano di quanto è triste e vuota la vita di Ilaria.

Depressione o non depressione?

Quando parliamo di depressione, potremmo immaginare una persona raggomitolata su sé stessa nel letto, nel buio della sua indicibile sofferenza. In effetti, è un’immagine molto appropriata per definire la “classica” depressione. Chi è depresso tende a isolarsi, a galleggiare in stati di estrema tristezza e manca di energie e di voglia per svolgere attività relativamente semplici, come alzarsi dal letto la mattina.

Ilaria però riesce ad alzarsi dal letto. E va a lavorare, ogni santo giorno. Anche se ogni piccolo compito è estenuante come scalare una montagna. Tende a evitare il contatto con gli altri, ma se è costretta a interagire riesce a farlo, anche se con gran fatica. Ma dentro di sé c’è un turbinio di pensieri che raccontano di come sia triste e scialba la sua vita, con nessuna prospettiva per il futuro, nessuna voglia di andare avanti. Fa quello che deve fare per tirare avanti giorno dopo giorno.

Gli altri non lo sanno, non lo immaginano nemmeno, ma Ilaria è la classica persona che potrebbe essere definita come “depressa ad alto funzionamento”.

Depressione ad alto funzionamento

Ufficialmente non esiste una diagnosi di questo tipo. Per i manuali diagnostici o si rispettano i criteri per un disturbo oppure non lo si ha o questo non esiste. Ma a Ilaria non le importa un granché nemmeno della sua vita, figuriamoci dei manuali diagnostici.

La differenza fondamentale tra la depressione maggiore e una depressione ad alto funzionamento, al netto dei criteri diagnostici, è che chi soffre di quest’ultima sembra vivere una vita apparentemente normale. Cioè, è in grado di funzionare.

Una persona con una depressione conclamata spesso non è nemmeno in grado di alzarsi dal letto, figuriamoci andare a lavoro o prendersi cura di sé. Quando si è alle prese con una depressione ad alto funzionamento, invece, queste attività vengono sì svolte quotidianamente, ma richiedono un’energia e uno sforzo difficili da immaginare. Insomma, la persona riesce a mantenere una vita più o meno attiva, ma ogni attività è improntata alla semplice sopravvivenza.

Quello che gli altri non vedono

Dall’esterno tutto questo non si vede e nessuno sospetta niente, perché non c’è motivo di considerare Ilaria una persona depressa. È in grado di interagire con le persone, anche se la natura dei discorsi è sempre piuttosto superficiale e ha sempre una buona scusa per declinare degli inviti, ma la realtà è ben diversa. Le interazioni sociali non sono altro che l’ennesimo compito da svolgere, non un piacere.

Ilaria sembra funzionare come chiunque altro, ma diventa ogni giorno più faticoso. Non ha più energie, spesso è stanca e la spiegazione che dà agli altri è un ritornello su come il lavoro ultimamente sia molto stressante.

Solo lei sa cosa significa tornare a casa tutti i giorni e finalmente lasciarsi andare alla tristezza. Togliere la maschera e tirare i remi in barca. E contemplare la propria stanchezza, la mancanza di forza e di stimoli per alzarsi da quel divano, l’assenza di una prospettiva. Certo, in teoria sarebbe bello uscire per strada e parlare con la gente, ma a che pro? Nulla cambia, il dado è tratto: il domani sarà soltanto l’ennesimo oggi.

Vivere, non funzionare

Ilaria fa quello che deve fare andare avanti, ma è un semplice “tirare a campare”. Non ha sogni, non ha obiettivi, non ha speranze. Il futuro è indefinito, tutt’al più è una grigia fotocopia di quello che è stato ieri e oggi. Andare avanti, senza una meta, solo per inerzia.

Ma vivere è molto, molto di più. Significa essere nel presente e apprezzare quanto di buono c’è in ogni giorno, godere dei momenti di felicità ma anche cercarli attivamente, facendo ciò che ci piace e con le persone che ci fanno stare bene. Vivere è anche guardare avanti e sperare in un domani migliore. Porsi degli obiettivi e andare dritti, con fiducia e risolutezza, in direzione del loro raggiungimento.

Questo forse è ciò che manca a Ilaria. Riscoprire le piccole gioie quotidiane che esistono già ma che non riesce più a vedere: l’aroma del caffé che risveglia i sensi quando al mattino gli occhi sono ancora mezzi chiusi, il profumo dei fiori quando passa davanti al fioraio, la soddisfazione di un lavoro fatto bene, l’abbraccio di un’amica che è contenta di vederti.

Riaprire il cassetto, da tempo chiuso con molteplici lucchetti, dove stanno a riposare i sogni: nient’altro che altri momenti belli che non sono qui, non sono ora, ma saranno, forse, un domani.

depressione ad alto funzionamento

Giù la maschera

Quante persone, nella vita di tutti i giorni, lottano per andare avanti avvertendo un angoscioso senso di vuoto dentro di sé? Sono quelle stesse persone che leggono storie sulla depressione e non si riconoscono nell’immagine della persona raggomitolata nel letto, che si dicono: “Io non sono così, ma perché non riesco a essere felice?”.

Vivere è molto più che stamparsi in faccia un sorriso forzato per affrontare l’ennesima giornata che ci è stata concessa. Quanti di noi, però, considerano ogni giorno che passa come l’ennesima prova da superare? Quanti si chiedono cosa c’è di sbagliato in loro e temono la risposta più della domanda?

Andare avanti con indosso la maschera di chi sta bene non è però l’unico modo per cercare di affrontare la tristezza e l’incertezza che assediano la nostra vita. Condividere il proprio dolore con chi ci è accanto, chiedere aiuto a chi ci vuole bene o rivolgersi a un professionista possono fare la differenza tra il restare intrappolati in un indefinito grigiore e il rivedere la luce alla fine del tunnel.

So che non è facile, ma trova il coraggio di togliere la maschera. Perché nessuno deve soffrire in silenzio e affrontare, da solo, un dolore che appare più grande persino di sé stessi.

 

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La fine di una storia d’amore può essere un evento molto doloroso, al punto da sentirci completamente sopraffatti e senza speranze di riprovare felicità. Scopriamo insieme alcuni consigli che possono aiutarci a superare questo periodo di intensa sofferenza.

relazione

Notti passate a rigirarsi nel letto, gli occhi gonfi di lacrime. Non mangi più, e quel poco che mangi non ha più sapore, non dà più piacere. Nessun sorriso, nemmeno un accenno, e pensi che non potrai farlo mai più. Ogni cosa ti ricorda quella persona che prima c’era, ma che adesso non c’è più. Senti solo un vuoto enorme, spaventoso e incolmabile, fatto di domande, rimpianti, paure.

Quando una relazione va in pezzi, tutto il resto crolla. I sogni, le speranze, perfino la normale quotidianità: ogni cosa è in frantumi. Tutto è messo in discussione: il tuo senso di sicurezza, la tua autostima, la tua sessualità, le relazioni con gli altri, il tuo ruolo nel mondo. Ci si sente confusi, isolati, impauriti per un futuro così diverso da come era stato immaginato.

“Come sarà la mia vita adesso? Cosa ne sarà di me? Ne uscirò mai? Come faccio a ricominciare?”. Mille dubbi e mille domande, ma nessuna certezza a parte il dolore per un amore che non è più.

Cosa fare quando finisce una relazione? Come fare a riprendere in mano la propria vita e superare tutto questo?

Elaborare il lutto

La fine di una storia d’amore rappresenta un vero e proprio lutto. È la perdita di una persona per noi importante e che adesso non fa più parte della nostra vita, anche se è ancora viva. Ma il lutto non è solo per la perdita di quella persona: è anche la perdita di uno stile di vita, di un supporto costante a livello emotivo, sociale, a volte anche economico. E poi c’è la perdita di speranze, sogni e piani per un futuro che adesso appare quantomai incerto e spaventoso.

Le emozioni associate a queste perdite fanno paura. Sono così intense che sembra di non poterle sopportare in alcun modo, e soprattutto sembra non possano avere mai fine. Anche volendo, non si possono mettere da parte. Certo, si può fare finta di star bene, di avere la scorza dura, ma dentro quelle emozioni restano e urlano forte. La cosa migliore è lasciarle fluire, per quanto doloroso possa essere. Lasciare cioè che il lutto faccia il suo corso.

Più facile a dirsi che a farsi, ma c’è qualcosa che possiamo fare per favorire questo processo:

  • Non soffocare le tue emozioni. Non parliamo solo di tristezza, ma anche di rabbia, risentimento, paura, confusione: è importante riconoscere cosa stiamo provando e non negare ciò che sentiamo. Ignorare queste e altre emozioni non ha altro effetto che prolungare il processo di elaborazione, e quindi prolungare la loro permanenza. Ricorda che queste emozioni non saranno per sempre: col tempo, le proverai sempre meno e diventeranno meno intense.
  • Esprimi ciò che provi. Parlare agli altri delle proprie emozioni può essere difficile a prescindere, ma in una situazione di perdita può davvero fare la differenza. Condividere il tuo dolore con chi ti vuole bene alleggerirà il tuo fardello ti farà sentire meno solo. Un’altra possibilità è mettere per iscritto cosa provi, ma attenzione a non rileggere di continuo quanto messo su carta: c’è il rischio di farsi risucchiare di nuovo nel vortice. Meglio un buon amico.
  • Non sconvolgere la tua vita. Quando si sente di aver perso tutto, la tentazione di cambiare città, lavoro, amicizie o altro è molto forte. Come se cambiando aria cambiasse anche quello che si prova. Ma il dolore c’è, forte e sconvolgente, al punto da non farti ragionare con lucidità: evita quindi di fare grossi cambiamenti nella tua vita, prenditi il tempo per capire cosa è meglio per te e il tuo futuro.
  • Ricorda che l’obiettivo è star meglio. Riconoscere ed esprimere ciò che provi va bene, ma non lasciarti trascinare da emozioni distruttive come rabbia, risentimento e colpa: non faranno altro che trattenerti nella valle di lacrime. Non rimuginare troppo su quanto è successo e non cedere all’impulso di volerlo analizzare in ogni piccolo particolare, soprattutto all’inizio. Concentrati piuttosto su cosa puoi fare per stare meglio.

Prendersi cura di sé

Bisognerebbe sempre prendersi cura di sé stessi, visto che, a prescindere dalle relazioni con gli altri, quella con noi stessi è l’unica che sicuramente durerà tutta la vita. Ma è proprio quando dobbiamo affrontare grandi cambiamenti, e più che mai ci sentiamo vulnerabili e spaventati, che abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi per poter, pian piano, ricominciare a vivere.

Nel concreto, ci sono diverse cose che si possono fare per aiutarsi attivamente a ricominciare dopo la fine di un amore:

  • Concediti un periodo di pausa. Da quando è finita ti senti devastato, senza forze e non riesci nemmeno a concentrarti su compiti banali. Non darti addosso e non disperarti se ti senti così. È normale, e passerà, ma per il momento non ha senso cercare di fare tutto come prima. Concediti il permesso di non essere al massimo, almeno per il momento.
  • Prenditi del tempo per quello che ti piace e ti fa stare bene. Invece che controllare compulsivamente il profilo Facebook dell’ex, decidi di fare qualcosa che sia davvero utile per te stesso: esci con gli amici, fatti una passeggiata, prenditi un gelato. Cose semplici, ma che ti aiuteranno a riprovare piccoli attimi di felicità che sembravi aver dimenticato. Programma la tua giornata concedendoti del tempo per ciò che ti piace fare e ti dà soddisfazione, e vedi cosa succede.
  • Cura il corpo e la mente. C’è chi si butta sul cibo, chi sull’alcol o sulle droghe: qualunque cosa pur di soffocare il dolore, anche a rischio di sostituire un problema con un altro. Ma non è questo di cui hai bisogno adesso. Hai bisogno di ritornare in forze e di riprenderti la tua vita, e per farlo è importante che tu ti senta bene con te stesso. Tieniti in forma con lo sport o l’attività fisica e cura la tua alimentazione, fai meditazione o esercizi di rilassamento. Qualunque cosa sia, l’importante è trattare bene il tuo corpo così come la tua mente: non c’è ricetta migliore.
  • Non isolarti. Come abbiamo visto prima, le persone che ci vogliono bene, come gli amici o i familiari, possono darci una grande mano per risollevarci. Non dar retta alla vocina che ti ripete che “hai bisogno di stare da solo” (e poi ormai sai bene che non tutto quello che ti passa per la testa è vero), prendersi cura di sé significa anche mantenere una ricca vita sociale. All’inizio potremmo dover lottare un po’ contro l’impulso a sotterrarci sotto le coperte, ma se vogliamo realmente stare bene abbiamo bisogno anche di stare con chi ci vuole bene.

relazione

Respirare, finalmente

All’inizio potrai sentire solo un grande vuoto e il dolore che lo delimita, ma questo non vuol dire che sarà sempre così. Arriverà il giorno in cui starai bene. È semplicemente così, perché ogni cosa ha un inizio e una fine: così come è finita la tua relazione, finirà anche la sofferenza.

Così, giorno dopo giorno, il dolore si placherà, lui o lei smetteranno di tormentare il tuo cuore e la tua vita si riempirà nuovamente di cose belle, nonostante le difficoltà che inevitabilmente incontrerai lungo il cammino.

E forse scoprirai che i tuoi sogni in realtà non si sono mai infranti, ma che semplicemente hanno cambiato forma, mantenendo però lo stesso protagonista di sempre: tu.

È nei momenti di maggiore crisi che possiamo riscoprire quanta forza abbiamo dentro, anche se all’inizio ci sembra impossibile, visto quanto ci sentiamo fragili e inermi. Non abbiamo mai voluto che la nostra relazione finisse, ma così è andata, e non possiamo farci molto. È un’altra dura lezione alla quale può sottoporci la vita, un insegnamento dal quale imparare il più possibile, senza paura. Per capire cos’è che non è andato e cosa fare affinché la prossima volta (perché c’è sempre una “prossima volta”) le cose vadano meglio, Un’opportunità per crescere e migliorarci, anche se non l’avevamo mai richiesta.

Ma all’inizio, quando attorno c’è solo buio, tutto ciò che possiamo fare è prenderci tempo per guarire e ritrovare un po’ di luce, prendendoci cura di noi stessi con pazienza e amore.

Se senti di non farcela, se pensi di aver bisogno di aiuto, io ci sono.

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Riuscire a comunicare in maniera efficace non è sempre facile, e molte volte le relazioni che instauriamo sono il risultato di queste difficoltà. È possibile però riuscire a comunicare meglio e avere relazioni più soddisfacenti semplicemente imparando a comportarsi in maniera assertiva: come essere pienamente sé stessi quando si è con gli altri.

assertività

Nel bene e nel male, tutti noi siamo profondamente inseriti in un tessuto di relazioni sociali. Che sia il rapporto con il partner, quello con il capo o con il vicino di casa, in ciascuna di queste relazioni ci siamo comunque noi, con le nostre esigenze e i nostri desideri. Che non sempre coincidono con quelli dell’altro. E non sempre è facile riuscire a mediare tra i nostri bisogni e quelli dell’altro.

Ciascuno di noi presenta delle caratteristiche relazionali e comunicative assolutamente uniche che si esprimono all’interno dei rapporti che instauriamo con gli altri. Rapporti che possono essere molto diversi tra di loro, e allo stesso modo noi stessi possiamo sentirci “diversi” in relazioni differenti. Infatti, il modo con cui ci rapportiamo al “supermegadirettore” potrebbe essere completamente diverso rispetto a come siamo con la persona che amiamo. E non è detto che in quest’ultimo caso la relazione sia più facile!

Alcune persone possono avere molte difficoltà nel riuscire ad esprimere i loro sentimenti, i loro bisogni e le loro idee nel rapporto con altri. Non è necessariamente una questione di timidezza o di inibizione, ma piuttosto di comunicazione soddisfacente ed efficace. Un concetto particolarmente utile per migliorare le proprie abilità comunicative e il rapporto con sé stessi e gli altri è quello di assertività.

Assertiviche?

Il termine assertività (reso anche come affermatività) deriva dal latino asserere, che altro non significa che “asserire”. Ma asserire, cioè esprimere, cosa? Assertività significa nient’altro che esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti, le proprie opinioni in maniera efficace e produttiva.

Una descrizione dell’assertività che a me piace molto mette l’accento sul far valere i propri diritti nel rispetto di quelli dell’altro attraverso di una modalità di comunicazione chiara, diretta e coerente.

In generale, l’assertività si compone di diverse abilità comunicative e relazionali, abilità che possono essere imparate ed esercitate e che consentono di comunicare in maniera funzionale e rispettosa. Tra queste troviamo:

  • Espressione dei sentimenti. Cioè comunicare ciò che si prova, nel bene e nel male;
  • Indipendenza. La capacità di esprimere le proprie opinioni e di non conformarsi necessariamente alle pressioni degli altri;
  • Iniziativa. Essere in grado di agire e comunicare in modo da soddisfare i propri bisogni. Quindi riuscire a fare richieste, chiedere favori, ma anche essere in grado di mediare;
  • Difesa dei diritti. Ad esempio, dire di “no” a richieste che ci vengono fatte;
  • Abilità sociale. In generale, essere a proprio agio nel relazionarsi con l’altro, che sia il chiedere informazioni a uno sconosciuto o corteggiare una persona che ci piace.

Il training all’assertività nasce in ambito clinico come soluzione per chi manifesta importanti difficoltà comunicative, ma può essere applicato a chiunque voglia anche solo imparare a comunicare meglio e con maggiore consapevolezza in situazioni in cui potrebbe non riuscire bene a farlo. Magari a causa di concenzioni errate legate alla comunicazione e al rapporto con l’altro o perché, semplicemente, non si è mai imparato a relazionarsi con gli altri in maniera appropriata.

Stili di comunicazione

Nonostante l’ampia variabilità tra le persone, le differenti caratteristiche comunicative e relazionali possono essere comprese all’interno di alcune categorie. Oltre allo stile assertivo, troviamo anche altre due modalità che, idealmente, ne rappresentano gli estremi: la modalità passiva e la modalità aggressiva.

Per iniziare a comprendere le caratteristiche dei tre stili comunicativi, possiamo considerare la capacità di esprimere sé stessi nel rispetto dell’altro. Nella modalità assertiva questa capacità è pienamente presente, mentre chi si caratterizza per uno stile “passivo” tenderà a rinunciare all’espressione di sé e a sottostare al volere dell’altro. La modalità “aggressiva” è invece propria di chi è in grado di esprimere sé stesso ma senza riguardo per l’altro.

È importante chiarire come queste categorie siano più una semplificazione a beneficio dell’esposizione, che rigidi raggruppamenti  nel quale incasellare le persone. Sempre per comodità di spiegazione, tuttavia, passerò a descrivere le caratteristiche di questi stili comunicativi utilizzando alcuni noti personaggi, secondo un’analogia usata da una mia grande docente.

Fantozzi, il passivo

Come per il famoso ragioniere, la persona con un comportamento passivo tende a subire e a sottomettersi agli altri. Non è in grado di esprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni, teme il giudizio degli altri, non è in grado di dire di no, ritiene gli altri migliori di sé stessa.

Perché si comporta in questo modo? Essenzialmente, per evitare conflitti o compiacere l’altro. Certo, a breve termine sembra una buona modalità di relazionarsi (bye bye ansia!), ma alla lunga, potete scommetterci, prevarrà il senso di sconforto, di impotenza e di frustrazione. Ci sarà un calo dell’autostima e ricadute negative rispetto all’immagine che si ha di sé. Non è insolito, inoltre, che prima o poi si potrebbe anche “sbottare”, arrivando addirittura a esprimere la propria rabbia in maniera incontrollata.

E chi ha a che fare con un “passivo”? Anche qui, all’inizio può anche starci bene, ma più in là potremmo addirittura sentire un certo astio nei confronti di una persona così accondiscendente, senza considerare che possono addirittura emergere sensi di colpa per la sensazione di essersi “approfittato” dell’altro.

Sgarbi, l’aggressivo

Anche se ultimamente sembra essersi un po’ calmato, il noto critico d’arte è celebre per il suo comportamento iroso e sprezzante. La persona con comportamenti aggressivi, a differenza dello stile Fantozzi, tende a prevaricare sugli altri. Quando interagisce con l’altro, l’unica persona che ha davvero importanza è soltanto sé stessa. Non rispetta i diritti altrui, la colpa non è mai sua, pensa che gli altri siano tutti delle “capre”. Le uniche opinioni giuste e che contano sono solo le proprie.

Chi si comporta in questo modo si sente forte e potente, in grado di tenere la situazione sotto controllo grazie ai suoi modi “decisi”. A lungo termine, però, la persona “aggressiva” paga lo scotto di una tensione costante, e non è insolito che provi anche sensi di colpa o di vergogna nei confronti di chi è stato “vittima” dei propri comportamenti.

L’altro, a primo impatto, potrebbe anche rimandargli un’immagine di individuo che sa cosa vuole e come ottenerlo, che è una bella gratificazione. Ma non passerà molto che tenderà progressivamente ad allontanarsi dal “tiranno”: il rischio, per quest’ultimo, è di ritrovarsi isolato, messo da parte a causa dei suoi modi di comunicare e di relazionarsi con l’altro.

La terza via

Tra la sottomissione e l’aggressione, esiste una modalità decisamente più utile: l’assertività. Comportarsi in maniera assertiva significa, essenzialmente, rispettare i propri diritti così come quelli degli altri, avere rispetto delle opinioni e delle emozioni proprie e altrui e non giudicare gli altri. Perseguire i propri obiettivi ma prendersi anche le proprie responsabilità.

Non è facile essere “assertivi”, soprattutto se veniamo da modalità relazionali estreme, ma i vantaggi di una tale modalità di stare in relazione con l’altro sono innegabili. L’assertività porta come conseguenza naturale un sano aumento dell’autostima e del senso di efficacia personale, una maggiore comprensione dei propri bisogni e necessità e una modalità più efficace di perseguirli, oltre che rispettosa dei diritti altrui. Per non parlare del miglioramento della qualità del rapporto con gli altri, a beneficio di entrambe le parti.

In sostanza, avere uno stile assertivo significa saper essere in grado di affrontare con la giusta serenità e in maniera efficace le situazioni problematiche che possono verificarsi nella relazione con l’altro. Per far questo, occorre però uscire dalle solite modalità interattive che abbiamo appreso nel corso della nostra vita e che, per un motivo o per un altro, semplicemente non ci aiutano a raggiungere i nostri scopi. O che ci tengono incastrati in relazioni, sentimentali e non, che non ci portano altro che sofferenza.

assertività

Essere o non essere assertivi

Per delineare le differenze tra i tre stili interattivi, prima ho utilizzato come parametro la capacità di esprimere sé stessi nel rispetto dell’altro. C’è anche un altro elemento, però, che chiarisce ancora meglio cosa significa comportarsi in maniera “assertiva”: la possibilità di scegliere.

Quanto detto fin a ora rispetto alle modalità passiva e aggressiva lascia intendere che queste modalità siano assolutamente sbagliate e inappropriate. Non è così. In alcune situazioni, anzi, potrebbe addirittura essere meglio ritirarsi da un confronto verbale inconcludente o alzare la voce nei confronti di chi ci sta attaccando. Non esiste una ricetta su come ci si comporta in questa o in quella situazione, e l’assertività non è un dogma per cui ci si può relazionare solo in un determinato modo.

Il fattore fondamentale che distingue un comportamento assertivo da uno non-assertivo, è la capacità di scegliere come agire. Assertività è scegliere, consapevolmente e intenzionalmente, nel rispetto di sé stessi e degli altri, cosa fare e cosa dire. Non-assertività, invece, significa semplicemente re-agire alle situazioni, quindi essere in balìa degli eventi e delle decisioni degli altri.

Assertività significa essere pienamente sé stessi e agire di conseguenza. Se vuoi imparare a farlo, io ci sono.

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