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È sempre lì in agguato, pronta a farsi a sentire non appena le cose non vanno come avremmo voluto. È la voce dell’autocritica, quella tendenza a darci addosso e a rimproverarci al primo cenno di errore. Come fare per metterla a tacere e smettere di farci del male da soli? È possibile trovare un modo diverso di parlare a noi stessi quando le cose non vanno come previsto?

autocritica

A volte è come una voce nella tua testa che ti assilla, che ti sottolinea come –ancora una volta–  non sei stato all’altezza. Quella stessa voce che ti prende per mano e ti fa rivivere quei momenti in cui hai esitato, o in cui hai risposto in modo poco brillante, o non sei riuscito a importi, o non sei stato in grado di fare bella figura.

A volte è semplicemente una sensazione. Sottile ma prepotente, come un senso di colpa, di vergogna o di inferiorità, che sembra volerti dire come anche questa volta hai rovinato tutto. Come anche questa volta hai fallito.

Non stiamo parlando di una sana valutazione di cosa è andato e cosa no, ma di quella tendenza a darci addosso per ogni piccolo errore, per ogni esitazione, per ogni risultato che non siamo riusciti a conseguire. Parliamo, cioè, di pura e semplice autocritica: quella continua dose di rimprovero che tendiamo a somministrarci ogniqualvolta ci troviamo di fronte a qualcosa che smentisce le nostre aspettative su come dovremmo essere, sui risultati che dovremmo per forza raggiungere.

Ed è un gioco a perdere, perché invece che motivarci verso ciò che realmente desideriamo, il nostro continuo criticarci e rimproverarci non fa altro che erodere, lentamente ma inesorabilmente, ogni traccia di stima per noi stessi. E ci fa vivere costantemente in attesa del prossimo errore, della prossima aspettativa che non riusciremo a soddisfare. Per poi finire a massacrarci nuovamente.

Voci dal passato

Ma da dove nasce questa tendenza all’autocritica? Dove abbiamo imparato a rimproverarci per ogni cosa che non va come vorremmo? Le cause sicuramente possono essere molteplici, e certamente hanno a che fare con ciò che abbiamo imparato nel corso della nostra vita, ma è molto probabile che alcune di queste dipendano dal modo in cui siamo cresciuti.

Può essere che abbiamo avuto genitori autocritici proprio come lo siamo noi, e che questa tendenza sia stata assorbita naturalmente in quanto parte della nostra cultura familiare. Quindi non necessariamente si tratta di qualcosa che ci è stato “insegnato”. In altri casi è possibile che siamo cresciuti in un ambiente carico di aspettative, per cui il riuscire sempre era l’unico modo per evitare di sentire una disapprovazione che, seppure non particolarmente evidente nei comportamenti, poteva comunque essere decisamente palpabile. O, ancora peggio, quella disapprovazione poteva esprimersi in comportamenti rabbiosi e aggressivi, che ci hanno fatto crescere in uno stato di costante paura di sbagliare.

Queste sono solo ipotesi, chiaro, ma è facile intuire come un ambiente caratterizzato da un eccessivo criticismo possa aver condizionato il nostro modo di vedere noi stessi e il nostro stesso valore. È facile anche comprendere come queste esperienze, una volta cresciuti, non vadano via con il nostro andare via di casa. Si tratta di tendenze che si sono sviluppate insieme a noi, ed è molto facile che queste voci dal passato tornino a farsi sentire ogni volta che ci ritroviamo in situazioni in cui le nostre aspettative su noi stessi rischiano di essere messe in discussione.

Ad ogni modo, il passato purtroppo non si può cambiare. Quello che possiamo cambiare, però, è il modo in cui trattiamo noi stessi. Invece che continuare a sentirci dei bambini in cerca di approvazione per ricevere un po’ d’amore, forse sarebbe il caso di iniziare a capire che così facendo rischiamo di passare la vita a correre in una ruota per criceti inseguendo una perfezione che, per fortuna o purtroppo, non arriverà mai.

Inseguire la perfezione

La prima cosa di cui rendersi conto è che non sono i nostri errori, le nostre mancanze, i nostri comportamenti a essere il problema. Non è questo che va affrontato. È tutta una vita che ci proviamo, guidati da una voce dentro di noi che continua a ripeterci come queste cose siano sbagliate. Il problema è la voce stessa.

Se pensiamo che l’unico modo per zittire la voce dell’autocritica è quello di fare di più, di correggere ogni nostro difetto, di non commettere errori, di fare sempre bene e solo ciò che gli altri si aspettano da noi… in realtà ci stiamo preparando una bella trappola con le nostre stesse mani. Perché questa strategia funziona, sì, ma solo temporaneamente (quando funziona!)

Quando pensi di essere riuscito in qualcosa solo perché ti sei impegnato a seguire le indicazioni della tua voce critica, il risultato è che ti sentirai sollevato, soddisfatto, persino felice. Ma quanto può durare questa sensazione? Te lo dico io: fino a quando non ti imbatterai nella prossima aspettativa. E lì ti ritroverai a cominciare da capo. E come andrà questa volta?

Insomma, proseguire su questa strada del continuo rincorrere una perfezione che (mi spiace ricordartelo) non è di questo mondo, significa continuare a sentirsi per sempre “non all’altezza”, se non addirittura sbagliati, inadeguati, dei falliti. Intendiamoci: migliorarsi va bene, ma quando si ha a che fare con l’autocritica la cosa più importante non è inseguire una impossibile perfezione, ma mettere a tacere la voce che ci dice di farlo.

Silenziare la voce

Ok, ma come mettere a tacere questa voce assillante? Innanzitutto occorre ricordare a sé stessi l’origine di queste voci: il nostro passato. Stiamo parlando di nient’altro che commenti da un’epoca lontana, rimasugli di un’infanzia che è finita da tempo, e che non per forza deve essere il tuo presente. Per quanto possa sembrare forte, la voce che senti in realtà è solo un’eco.

Inoltre, potresti provare a vedere la tua voce critica in un altro modo: prova a darle un corpo, una voce, uno scopo. Ad esempio, potresti immaginarla come un cane da guardia talmente nervoso che inizia ad abbaiare al più piccolo rumore: sta solo cercando di proteggerti, avvisandoti quando c’è pericolo di commettere degli errori …solo che tende a esagerare un po’! Quando abbaia, come accadrebbe nella vita reale, non devi far altro che calmare il mastino che è in te, rassicurarlo dicendogli che è tutto a posto, che non c’è niente di cui preoccuparsi, che va tutto bene.

In alternativa, puoi provare a visualizzare la tua voce critica come un bulletto che ti sta aggredendo. Ma tu ora non sei più un bambino: difenditi, digli di lasciarti in pace, di togliersi dai piedi. Scegli tu quale approccio utilizzare, e non limitarti a questi esempi, sfrutta la tua fantasia!

Rispondere a tono

Ribatti ai messaggi critici con altri più realistici e positivi. Invece che cadere nella spirale della catastrofizzazione o della facile generalizzazione, rispondi alla tua voce critica con frasi più equilibrati e, soprattutto, più veritiere: «Ho fatto del mio meglio», «Non è la fine del mondo», «Considerato il grande schema della mia vita, quanto è davvero importante ciò che è successo?», «Rispetto ad altri problemi, questo mi sembra proprio insignificante», «Sono fiero di quanto ho raggiunto fino ad ora», ecc.

Certo, all’inizio questa strategia non sembrerà funzionare un granché: le frasi sembreranno forse un po’ forzate, ma continuando a ripeterle diventeranno sempre più credibili. Perché, in fin dei conti, lo sono più di quelle originali. E poi si tratta dello stesso meccanismo che nel tempo reso “credibili” le frasi negative che ci diciamo adesso, quindi perché non fare la stessa cosa, ma al contrario?

C’è poi un altro passo da fare: ridefinire i tuoi valori e le tue priorità rispetto a chi sei ora, non a chi ti è stato detto di essere. Invece che continuare ad accontentare gli implacabili fantasmi nella tua testa, prova adesso ad accontentare te stesso: cos’è per te essere felice?

Prova a chiederti: hai davvero bisogno di fare ogni cosa alla perfezione? Perché, se non lo fai cosa succede? È davvero necessario essere sempre “i primi della classe”? Chi è che ti darà una pacca sulla spalla per la maratona di lavoro che hai appena concluso? Chi è che ci tiene davvero? Tu o una qualche ombra dal passato? Per ricevere amore, adesso, devi per forza essere perfetto?

autocritica

Nuove voci

La lezione più importante è che bisogna cambiare il modo in cui trattiamo noi stessi quando la voce dell’autocritica prende il sopravvento. Perché non serve a nulla continuare a darsi addosso e inseguire una perfezione impossibile da raggiungere. Ciò che può essere davvero utile è vedere la voce che è dentro di noi per quella che in realtà è: solo una voce.

Una voce che viene da lontano, che è fuori dal tempo e dal contesto. Un meccanismo che può esserci stato in qualche modo utile in passato, ma che adesso non solo non ci aiuta più, ma può essere addirittura dannoso. È il momento di cambiare questa voce, di sostituire i suoi contenuti a partire da quelli che sono i nostri valori e le nostre idee su chi siamo e su chi vogliamo essere. Non su ciò che dovremmo essere. Non su ciò che per qualcuno è giusto o sbagliato.

È il momento di stabilire un rapporto diverso con noi stessi, cominciare a trattarci in maniera differente: più comprensivi, più tolleranti, più amorevoli. Imparare a vederci più come un caro amico, piuttosto che come un bambino incapace da tenere sempre in riga. Quel tempo è finito, siamo grandi ormai.

Ci saranno ricadute, di sicuro. Al minimo errore, alla prima esitazione, la voce critica dal profondo riprenderà ad assillarti. Sarà lì, pronta ad aspettarti dietro l’angolo, con frasi già pronte e sentite mille volte su quanto è schifoso il lavoro che hai fatto, sul fatto che sei un lavativo, una persona che non merita niente e bla bla bla…

Aspettatelo. E quando accadrà, contrattacca con quanto abbiamo detto sopra. E congratulati con te stesso, perché hai avuto il coraggio di contrastare le tue vecchie e ormai inutili e dannose abitudini.

Hai avuto il coraggio di prenderti cura di te.

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Non c’è niente di male nel fare del proprio meglio o nell’avere obiettivi elevati, ma quando facciamo coincidere i risultati ottenuti con il nostro valore come persona ci esponiamo inevitabilmente al fallimento. Ma cosa c’è dietro il perfezionismo e quando questo diventa un problema?

perfezionismo

Claudia è una perfezionista. L’attenzione al dettaglio è sempre stato un suo grande vanto, e in ogni pagina che scrive cerca di descrivere al meglio ogni particolare, in modo da riuscire a trasmettere al lettore ogni emozione presente nelle sue storie.

Claudia è un’affermata scrittrice e una perfezionista, ma sono tre mesi che non riesce più a completare il capitolo finale del suo ultimo libro. Scrive una frase, a volte due, poi torna indietro e cancella. “Così non va bene”, si dice ogni volta, “non ci siamo”.

Claudia è una perfezionista ma ha delle scadenze. L’editore le ha chiesto più volte la bozza del suo ultimo romanzo, ma non riesce a completarlo. Sembra arrivata al limite: ci sono giorni che non ci prova nemmeno a scrivere, sente che non sarebbe in grado di farlo in maniera accettabile. Non solo in quei giorni, ma praticamente sempre, si sente tesa, stressata ed estremamente triste.

Claudia è una perfezionista, eppure in questo periodo si sente inutile, una nullità. Si vergogna di sé stessa, passa il tempo a ripetersi che non è in grado di fare niente, di essere una perdente, un fallimento completo.

Il problema della perfezione

Per molti, la ricerca della perfezione è un pregio. Specialmente per chi si ritiene un perfezionista. È chiaro che avere degli standard elevati e fare del proprio meglio è, generalmente, una buona cosa.

Il problema nasce quando quegli stessi standard elevati sono l’unica e sola meta da raggiungere. A volte può andare bene, se si lavora sodo e l’obiettivo è realistico. Ma cosa succede se l’asticella viene posta troppo in alto e non è possibile raggiungere quel livello?

E quali sono i costi da sostenere per arrivare fin lassù? E, una volta arrivati, il beneficio che se ne potrebbe trarre potrebbe giustificare tutti i sacrifici, le rinunce e le notti in bianco?

Perfezione a tutti i costi?

Non sempre le cose vanno nel verso giusto, o certi obiettivi si rivelano irraggiungibili. Chi ha tendenze perfezionistiche non sa quando è il momento di alzare bandiera bianca e di accettare che ciò che si poteva fare è già stato fatto. No, il vero perfezionista persevera. Semmai, è che non si è impegnato abbastanza.

Specialmente davanti a un obiettivo irrealistico, l’effetto di raddoppiare gli sforzi è di aumentare anche lo stress, la tensione e la fatica. E in queste condizioni di solito si commettono anche più errori. Diventa un circolo vizioso, dove a un maggiore sforzo corrisponde una performance peggiore, che viene compensata da uno sforzo ancora maggiore.

Ammesso e non concesso che si raggiungano gli standard desiderati, quale sarebbe il costo in termini di benessere personale? Tutti i sacrifici, la tensione, l’isolamento dagli altri o dai semplici piaceri della vita, visti come distrazioni che distolgono dall’obiettivo ultimo, hanno davvero senso? Il gioco vale davvero la candela?

O perfetti, o nulla

La domanda che viene spontanea, quando ci si trova davanti a persone che sacrificano tutto pur di tentare di raggiungere la “perfezione”, è piuttosto ovvia: perché?

La risposta, spesso, ha a che fare con l’idea che il proprio valore personale dipende dagli obiettivi raggiunti. Per un vero perfezionista, il valore di una persona coincide con ciò che si fa, non con ciò che si è. E quando è così, la prospettiva di “fallire” equivale al proprio fallimento come persona.

Così, ogni qualvolta ci si trova davanti a un obiettivo da raggiungere per confermare il proprio valore come essere umano, ci si espone inevitabilmente al fallimento. Se l’obiettivo è di prendere 30 e lode a ogni esame, cosa accadrà quando il professore-cerbero proporrà un 28? Cosa significherà per il perfezionista in erba quel “misero” voto?

Che non è stato abbastanza bravo? Che non si è impegnato abbastanza? Che non è in grado di andare avanti nel proprio percorso di studi? Che è un fallimento completo, una persona inutile, nemmeno in grado di superare degnamente uno stupido esame?

Vivere così è decisamente stressante. Ogni occasione può essere un pretesto per mettere in discussione il proprio valore, per considerarsi un fallimento, una persona indegna. Tutto questo perché si parte da una premessa tanto estrema quanto errata: io valgo per ciò che faccio.

Dietro la perfezione

Questa ricerca della perfezione come unico mezzo per confermare il proprio valore spesso ha radici antiche. Questa credenza potrebbe essersi sviluppata in un ambiente familiare in cui l’unico modo per ricevere affetto e attenzione era quello di eccellere. Ogni fallimento veniva decisamente criticato, ogni successo fortemente incoraggiato.

Non è l’unica spiegazione possibile, ovviamente. Ciò che è probabile, però, è che dietro il perfezionismo ci siano all’opera uno o più dei seguenti meccanismi:

  • L’illusione del controllo. La vita è innanzitutto incertezza, e l’incertezza spaventa. L’idea di avere controllo in determinate aree della propria vita è rassicurante, perché sappiamo che, almeno in certi contesti, siamo noi a poter controllare le cose. A patto però che vadano come diciamo noi. Cioè, che sia tutto perfettamente come lo vogliamo noi.
  • Il timore delle conseguenze. Riassumibile nell’assunzione: “se non sono perfetto potrebbero accadere brutte cose”. Se non si è perfetti, tutto potrebbe andare a rotoli. Se non si lavora al massimo, si potrebbe perdere il lavoro, la casa, finire sotto i ponti. Se l’arrosto non è perfettamente delizioso, i miei amici non verranno più a casa mia, nessuno vorrà avere a che fare con me, resterò sola e morirò sola.
  • Il bisogno di approvazione. Forse riflesso di un’infanzia dove l’affetto era condizionato al soddisfare l’altro, alcune persone tendenti al perfezionismo ripropongono la stessa dinamica nelle relazioni interpersonali. Coloro i quali ritengono di dover soddisfare perfettamente i bisogni degli altri per poter essere davvero amati e accettati si trovano davanti a un compito impossibile ed emotivamente assai impegnativo.

 

perfezionismo

Perfetto, così come sei

Che il tuo perfezionismo sia relativo al lavoro, alle relazioni interpersonali, allo status sociale o al vestiario, se sei un vero perfezionista conosci molto bene il prezzo che stai pagando per mantenere certi standard. Ansia, insicurezza, stanchezza, tensione, vergogna, timore di essere umiliati sono solo alcune delle condizioni che possono associarsi al perfezionismo.

Se associ il tuo valore esclusivamente agli standard che ti sei posto, o agli obiettivi che hai in mente di raggiungere, stai dimenticando un concetto tanto semplice quanto realistico: nessuno è perfetto. E la vita, quella vera, non è soltanto raggiungere un obiettivo o mantenere un determinato livello raggiunto. La vita è molto, molto di più. TU sei molto, molto di più.

Prenditi un momento: cosa c’è oltre l’oggetto del tuo perfezionismo? Cos’è che ti piace, che ti scalda il cuore, che ti fa sentire vivo? Cos’è che ti fa ridere?
Pensi di poter dedicare del tempo (per quanto poco pensi di averne) alle cose che ti fanno stare bene? Cosa potrebbe accadere se provassi a farlo davvero?

Pensaci: potrebbe essere un tuo nuovo obiettivo, di quelli però decisamente raggiungibili! Dedicare del tempo a ciò che ti piace e ti fa stare bene, ricercare un po’ di leggerezza in questo mondo sempre più frenetico e pesante.

E magari così scoprire che il tuo valore non si può misurare in base a ciò che fai, ma piuttosto dipende da quanto te ne dai.

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La ripetitività è nella nostra natura. Ogni singolo apprendimento, sia esso positivo o negativo, è frutto di ripetizioni. Ma così come abbiamo imparato a mettere in atto alcuni comportamenti, è possibile impararne di nuovi per non essere destinati a commettere sempre gli stessi errori.

ripetitività

Chi più, chi meno, ciascuno di noi tende a ripetere sempre gli stessi errori. Che sia la scelta di un partner o il modo di intervenire durante una discussione, nella nostra quotidianità è possibile osservare una certa tendenza a ripetere alcuni comportamenti. Quasi si trattasse di un copione già scritto, in cui non sembra esserci possibilità di uscire dal ruolo che, volenti o nolenti, ci siamo assegnati.

Ma perché continuiamo a ripetere gli stessi comportamenti? Sembra essere più forte di noi: quando ci troviamo in alcune situazioni è come se andassimo in automatico a riviverle come già fatto in passato. Con la conseguenza di mettere in scena sempre le stesse sequenze con l’inevitabile rimprovero del nostro regista interiore.

Già, perché non solo tendiamo a commettere gli stessi sbagli ogni volta che possiamo, in più, quando ce ne accorgiamo, completiamo la sequenza con una buona dose di autorimproveri. Che, spesso, hanno effetti anche peggiori dell’errore appena ripetuto.

Ma come mai siamo soggetti a queste dolorose ripetizioni? Cosa ci impedisce di spezzare l’incantesimo?

Esseri ripetitivi

Che ci piaccia o no, l’essere umano è un essere altamente ripetitivo. Semplicemente, funzioniamo così. Per quanto ci piaccia considerare noi stessi delle persone “senza schemi” e mai banali, la ripetitività fa comunque parte di noi.

Pensiamo anche solo alle piccole routine che ciascuno di noi ha nella vita quotidiana. Ad esempio, ciascuno di noi (me compreso) può facilmente identificare la successione di diversi comportamenti che vengono messi in atto al risveglio. Caffè, colazione, bagno, doccia, eccetera: ad ognuno la sua combinazione, ma la costante è che mettiamo in atto questa routine in maniera sistematica ogni mattina (forse, per alcuni, con l’eccezione del weekend!).

Chiaro, c’è chi è più attaccato a questi piccoli o grandi rituali e chi lo è in misura minore, ma in sostanza siamo tutti portati automaticamente a ripetere alcuni gesti. A dirla tutta, più che di “attaccamento” a queste ripetitività, in realtà sarebbe il caso di parlare di “rigidità”. Come vedremo, infatti, spesso il problema non è nelle routine, ma nella nostra difficoltà a farne a meno.

Ripetuta…mente

Quella della routine mattutina può sembrare un’osservazione banale e poco significativa, ma è comunque un piccolo indizio di come in realtà funziona il nostro cervello.

I diversi circuiti cerebrali, ovvero le reti di neuroni (le cellule del nostro cervello), ad esempio, si sviluppano per ripetitività. Quando una certa combinazione di cellule si attiva più volte, il circuito di rinforza e si stabilizza; al contrario, se non c’è un’attivazione costante, pian piano questa struttura perde di forza fino a estinguersi.

In parole povere, quando ripetiamo un comportamento, le strutture del cervello dedicate a quella funzione diventeranno più solide e si attiveranno più facilmente. Viceversa, se non compiamo più una certa azione, quindi non sollecitando più quel particolare circuito, col tempo questo si indebolirà e scomparirà della “mappa” del nostro cervello.

Un’analogia che mi piace molto è quella con i vecchi dischi in vinile. Ripetere un’azione è come scavare un solco nel disco. Se la puntina del giradischi va a finire in quel solco, quella sarà la musica che verrà suonata. Più è profondo il solco, più è difficile uscirne.

Ripetizione = apprendimento

Detta così può sembrare una cosa negativa, ma in realtà è grazie a questi meccanismi legati alla ripetitività che impariamo a fare ciò che sappiamo fare. Pensiamo, ad esempio, ai noiosissimi esercizi di pianoforte nei quali ripetiamo sempre la stessa scala musicale. Cosa succede se ci applichiamo ogni giorno, costantemente, a questi esercizi?

Arriverà il giorno, quando si saranno sviluppati e rinforzati i circuiti cerebrali legati al movimento delle mani, all’anticipazione della nota seguente e molti altri ancora, che eseguiremo quella stessa scala con grande sicurezza e precisione, senza nemmeno doverci concentrare sui movimenti da fare o sui tasti da suonare.

Quindi, ripetere serve ad imparare una cosa fino a quando il cervello non ce la farà svolgere in automatico… ovvero, senza che ci pensiamo.

Ansia a ripetizione

Quando parliamo di ansia non parliamo soltanto di un’emozione, ma anche di specifici pattern di comportamento dal carattere ripetitivo. Già, perché le sequenze che si possono osservare nei disturbi d’ansia sono decisamente il frutto di apprendimenti causati dalla ripetizione incessante di determinate azioni.

Anche senza considerare l’estrema ripetizione sistematica di alcuni gesti per ridurre l’ansia – come nel caso delle classiche “compulsioni” – possiamo comunque notare che c’è una certa ripetitività nelle azioni compiute da una persona che soffre d’ansia. Cosa fa una persona che teme un attacco di panico? Risponde alla propria paura con un comportamento, che solitamente ha a che fare con la fuga da una certa situazione o l’evitamento della stessa.

Questo perché, a causa delle ripetizioni di questo comportamento, la risposta tipica di fronte a un evento ansiogeno si è strutturata in maniera rigida. La persona ansiosa non ha nemmeno bisogno di pensare a “cosa” fare, quando si trova in quella specifica situazione, risponde automaticamente in base a ciò che nel tempo ha appreso: “se faccio così, l’ansia va via”.

Il problema, ovviamente, è che la fuga o l’evitamento di queste situazioni ha poi degli effetti molto importanti sulla vita di chi li mette in atto. Evitare sistematicamente di uscire di casa, perché, ad esempio, si ha paura di sentirsi male o di perdere il controllo, significa ridurre la propria vita sociale o lavorativa. Significa, in sostanza, che per evitare qualcosa di spiacevole e tremendamente spaventoso, si va incontro a conseguenze altrettanto dolorose ma sicuramente più “reali”.

Tutto questo perché si agisce in maniera automatica, lasciando che il nostro cervello selezioni in maniera ripetitiva sempre la stessa risposta.

Coazione a ripetere

Se è vero che piccole e innocenti routine mattutine sono caratterizzate da ripetitività, e se è vero che tendiamo a rispondere a singoli eventi o situazioni in modo stereotipato, è possibile sostenere che addirittura grosse “fette” della nostra vita siano il frutto di sequenze che tendono a ripetersi?

C’è chi, ad esempio, finisce per ritrovarsi sempre con la stessa tipologia di partner. Non è anche questa una specie di ripetizione? Magari all’inizio è più difficile notare i segnali che ci indicano che stiamo ripercorrendo, ancora una volta, sempre la stessa strada. Anche perché non sempre ci sono! È molto più probabile che sia l’interazione continua tra i due partner a caratterizzare una relazione che si rivelerà “uguale” a quelle già vissute.

Questo perché ciascuno dei due tenderà a “mettere” nella coppia le proprie ripetitività, col risultato che, col tempo, le dinamiche di coppia si organizzeranno in modo da adattarsi alle personali routine dei partner.

ripetitività

Cose già viste

Prendiamo un individuo molto “accudente”, al punto che la sua ultima relazione è finita perché la partner si è sentita “stretta” dalle sue continue attenzioni (vissute come “apprensioni”). Ipotizzando una buona capacità di analisi, il nostro amico potrebbe rendersi conto che i suoi comportamenti potrebbero essere stati la causa della rottura della relazione. Così, si ripromette di non farlo più. All’occasione successiva, infatti, è probabile che partirà in maniera più “soft”, evitando di riproporre le stesse “attenzioni soffocanti”.

All’inizio le cose potrebbero andare bene, non senza fatica dal trattenersi dalla propria “indole”. Arriverà però il giorno in cui inevitabilmente si “rilasserà”, abbasserà la guardia e gli automatismi prenderanno il sopravvento. In pratica, tenderà a rimettere in atto quegli stessi comportamenti “accudenti” che hanno segnato la relazione precedente.

Intendiamoci: a parte il fatto che si tratta di una semplificazione e che il secondo partner potrebbe anche “incastrarsi” bene in questa dinamica, il senso qui è che, nel piccolo e nel grande, la nostra tendenza è quella di essere ripetitivi.

Buone ripetizioni

Ma l’essere ripetitivi è un problema solo quando, nella migliore delle ipotesi, continuiamo a mettere in atto gli stessi comportamenti senza in realtà trarne alcun vantaggio. Nei casi peggiori, finiamo addirittura per complicarci la vita.

Ovviamente, rispetto al “semplice” apprendimento di una singola azione, l’analisi di copioni narrativi così ampi come, ad esempio, il modo in cui viviamo le nostre relazioni, risulta molto più complessa. Ma, nella sostanza, si tratta sempre di pattern ripetitivi.

Solo che, al di là dei circuiti cerebrali, che comunque sono la “base” del nostro funzionamento, spesso entrano in atto altri aspetti, molto più profondi e non immediatamente accessibili alla nostra coscienza, che hanno a che fare con i nostri bisogni, i nostri modi di stare con l’altro, l’immagine che abbiamo della nostra persona, di chi ci è vicino e del mondo in cui viviamo.

Nel concreto, però, la costante è sempre quella: nel bene o nel male, tendiamo a ripeterci. A prima vista potrebbe sembrare quasi una condanna, ma in realtà non è così. Le nostre routine, le nostre ripetizioni, i nostri comportamenti sono tutti frutto di ciò che abbiamo appreso. E quel che è stato appreso, è possibile disimpararlo.

Non è facile, ci vuole sicuramente tempo e pazienza, ma si può imparare nuovi modi di fare e di essere, per uscire dal circolo vizioso della ripetitività. Che sia un modo diverso di organizzarsi il mattino, una modalità differente di affrontare ciò che temiamo o la messa in atto di nuovi comportamenti all’interno di una relazione, c’è sempre la possibilità di conoscersi e di reinventarsi.

Del resto, come si suol dire, nella vita non si finisce mai di imparare.

 

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Il modo in cui reagiamo di fronte a un evento dipende sostanzialmente dal modo in cui lo valutiamo. Ma se queste valutazioni fossero in realtà frettolose e imprecise? Se ci fossero degli errori nel nostro modo di pensare? Che effetto avrebbero questi errori sul nostro modo di rispondere a quello che ci succede?

distorsioni cognitive

Come rispondiamo a determinate situazioni dipende fondamentalmente dal modo in cui le vediamo, cioè da come vengono automaticamente valutate dalla nostra mente. Il meccanismo, già introdotto in un precedente articolo, è molto semplice: se il nostro sistema cognitivo valuta la situazione come pericolosa, l’intero organismo scatta sull’attenti e si predispone a reagire al presunto pericolo.

Essere in grado di valutare per tempo una situazione potenzialmente pericolosa può fare la differenza tra il vivere e il morire, o quantomeno così è stato così in epoche più remote, quando il pericolo di lasciarci le penne era all’ordine del giorno. Immaginiamo di passeggiare in un bosco e di intravedere una sagoma lunga e sottile e di avvertire un rumore sospetto tra il fogliame: a cosa pensa il nostro cervello? È un serpente o un rametto? Nel dubbio, automaticamente punta sul serpente. La conseguenza è un’attivazione fisiologica che facilita la fuga dal pericolo e l’azione relativa di allontanarsi dal posto.

A questo punto importa poco se si trattasse davvero di un serpente o se fosse invece un rametto inoffensivo: ciò che ci interessa è osservare come ciò che proviamo e ciò che facciamo dipenda da come valutiamo una data situazione, cioè da come la pensiamo.

Falsi allarmi

…alla fine era soltanto un rametto, e il rumore chissà da cosa è stato causato. Per fortuna nessun pericolo immediato. Certo, ci siamo presi un bello spavento, ma alla fine tutto è bene quel che finisce bene, giusto?

Oggigiorno è molto più difficile imbattersi in un serpente mentre si passeggia in mezzo alla natura, ma il meccanismo di valutazione resta comunque attuale ed è più vivo che mai. Tant’è che è esattamente ciò che si attiva quando ci troviamo di fronte a un qualunque evento, piccolo o grande che sia.

E così come per il serpente/rametto, è sempre possibile fare errori di valutazione, soprattutto considerata la chiave di lettura “allarmistica” di un cervello che si è evoluto nel corso di centinaia di migliaia di anni proprio per tenerci alla larga da potenziali pericoli.

Insomma, falsi allarmi possono capitare e alla fine va bene così, soprattutto se parliamo di situazione estreme. “Better safe than sorry”, direbbero gli inglesi. Ma come può tradursi questo meccanismo automatico e dal carattere allarmistico nella vita di tutti i giorni? Cosa succede se sistematicamente tendiamo a valutare delle situazioni come se fossero “pericolose” quando in realtà non lo sono?

Nuovi pericoli, vecchie abitudini

A questo punto potremmo anche chiederci: quante nostre reazioni emotive e comportamentali dipendono da una valutazione troppo frettolosa e imprecisa della realtà?

Pericolo, oggi, non è più il morso velenoso di un serpente. Pericolo, oggi, è restare soli, non avere abbastanza soldi, sentirsi inutili, non riuscire a svolgere un lavoro in tempo. Questo e molto altro è ciò che in quest’epoca si teme, e ognuno di noi teme alcune cose più di altre. Ma anche se il mondo è cambiato, i bisogni sono cambiati e le paure sono cambiate, il modo in cui funziona il nostro cervello è sempre lo stesso: rapido, automatico, prepotente.

Se ci lasciamo trascinare da meccanismi di valutazione immediati ma altamente fallibili, si corre il rischio di commettere errori importanti nel nostro modo di vedere le cose, con conseguenze spesso significative rispetto a come ci sentiamo e a cosa facciamo.

Fumo negli occhi

Già, perché il nostro cervello sbaglia molto più di quanto immaginiamo. E lo fa in maniera molto sottile, forte di un’autorità che acriticamente gli attribuiamo data la nostra tendenza a considerare “verità” qualunque cosa ci passi per la testa.

Se però ci fermiamo un attimo a valutare quei pensieri automatici, frutto di una prima valutazione rapidissima e inconsapevole, potremmo scoprire che alcune delle cose che pensiamo sono in realtà assolutamente sbagliate, se non addirittura assurde.

Siamo davanti a quelle che vengono tecnicamente definite distorsioni cognitive: errori logici del pensiero che influenzano il nostro modo di valutare le situazioni, e quindi ciò che proviamo e le azioni che compiamo. Nient’altro che fumo negli occhi, che ci impedisce di vedere con chiarezza ciò che abbiamo davanti.

Le distorsioni cognitive

Esistono diversi tipi di distorsioni cognitive, ed è importante imparare a riconoscerle in modo da individuarle tempestivamente quando si presentano, così da poter valutare se in quel momento stiamo ragionando in maniera lucida o se invece ci siamo lasciati trascinare dai nostri abituali e a volte controproducenti modi di pensare.

Quella che segue è una lista delle distorsioni cognitive più frequenti:

  • Pensiero “tutto o nulla”. Vedere le cose per categorie opposte e senza gradazioni intermedie: “Se non sono il più bravo significa che faccio schifo”.
  • Catastrofizzazione. La tendenza a considerare solo gli esiti negativi di una situazione, ignorandone possibili altri, specialmente se positivi o neutri: “Se sbaglio la presentazione sarà un disastro, verrò umiliato davanti a tutti e perderò il lavoro”.
  • Doverizzazioni. La visione rigida che alcune cose debbano essere in un determinato modo, altrimenti si andrebbe incontro a conseguenze spiacevoli: “Devo essere sempre gentile e accondiscendente, altrimenti lui si stancherà di me e mi lascerà”.
  • Ipergeneralizzazione. Dare importanza a un singolo evento al punto da considerarlo come prova di un aspetto più generale, o, in parole povere, fare di tutta l’erba un fascio: “Se non ha voluto uscire con me significa che nessuno vorrà mai farlo”.
  • Etichettamento. Attribuire un giudizio globale a sé stessi o agli altri invece che circoscriverlo ad una determinata circostanza: “Non sono in grado di compilare questo documento, quindi sono un fallimento”.
  • Squalificare/sminuire il positivo. Trascurare le prove o le esperienze positive o non dar loro peso quando si valuta una certa situazione: “Se gli altri mi fanno dei complimenti è solo perché sono gentili, in realtà non sono in grado di fare nulla”.
  • Ragionamento emotivo. Confondere ciò che si sente (si crede) con quello che è: “Sento che non ce la farò, quindi sicuramente andrà male”.
  • Astrazione selettiva. Prestare attenzione a un singolo dettaglio piuttosto che considerare il quadro generale. Ad esempio, al termine di un primo appuntamento ricco di momenti positivi: “Non mi ha dato neanche un bacio sulla guancia, si vede che non le piaccio”.
  • Lettura del pensiero. Ritenere di sapere cosa pensano gli altri e valutare la situazione in base a questo senza considerare ulteriori prove: “Ha sbadigliato, starà pensando che sono noioso”.
  • Personalizzazione. Attribuire determinati comportamenti degli altri a fattori personali senza considerare altre possibili spiegazioni: “Se mi ha salutato frettolosamente e non si è fermato a parlare con me è perché gli sto antipatico”.

distorsioni cognitive

Sbagliando si impara?

Insomma, non sempre il nostro modo di ragionare è così “ragionevole”! Anzi, molto spesso ci lasciamo condizionare dalle nostre abituali modalità di pensiero e finiamo per valutare alcune situazioni in maniera sostanzialmente errata.

Cosa può significare per una persona che soffre di depressione etichettarsi come incompetente davanti a una banale difficoltà? Come può una persona gestire la propria ansia se è convinta che ciò che accadrà sarà sicuramente un disastro e non c’è nulla da fare per rimediare? Come può una persona vivere serenamente la relazione con il proprio partner se è sottoposta a doveri, obblighi o regole senza senso?

Che effetto può avere su di noi considerare corrette conclusioni sbagliate alle quali crediamo ciecamente? Quanto di ciò che proviamo, quante delle azioni che facciamo dipendono da errori logici come quelli che abbiamo visto?

Oltre la cortina

La prima impressione conta solo se la accettiamo come vera, senza metterla in alcun modo in discussione. Ma se ci fermiamo a osservare cosa pensiamo e come pensiamo, potremmo scoprire che i nostri atteggiamenti, le nostre emozioni e le nostre azioni potrebbero nascere da semplici errori di ragionamento. Semplici, ma dalle conseguenze a volte estremamente significative.

Ma agli errori, spesso, si può rimediare. Imparare a riconoscere le distorsioni cognitive tipiche del proprio modo di pensare e non saltare immediatamente alle conclusioni può essere il primo passo per una maggiore consapevolezza delle nostre reazioni.

Per imparare a pensare, emozionarsi e agire in maniera più funzionale e adeguata. Oltre che più corretta, per noi stessi e per gli altri.

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Spesso, quando qualcosa ci va male o ci troviamo di fronte a un fallimento importante, è molto facile darsi addosso e trattarsi male. Infatti è più facile essere comprensivi con chi vogliamo bene piuttosto che con sé stessi. Ma davvero meritiamo di trattarci così, proprio quando più avremmo bisogno di conforto e rassicurazione?

amare se stessi

Uno degli insegnamenti più importanti della cristianità è quello di amare gli altri, proprio come si fa con sé stessi. In realtà l’indicazione non fa riferimento è chi è già vicino (prossimo) a noi, ma riguarda soprattutto chi è più lontano da noi. Il nostro vicino che non ci fa dormire alle due del pomeriggio, il collega antipatico che proprio non ci va giù. Insomma i nostri nemici, piccoli o grandi che siano.

Di questi tempi non è facile. Anzi, direi che sta diventando sempre più difficile riuscire a mettere da parte pregiudizi e differenze per amare chi è così lontano dal nostro cuore. Ma quantomeno quando si tratta delle persone che ci sono vicine, per fortuna, siamo sempre pronti e disponibili a mostrare tutto il nostro affetto e la nostra comprensione.

Nella versione ribaltata del titolo («Amerai te stesso come il prossimo tuo»), il riferimento quindi è a chi davvero è più prossimo a noi: i nostri familiari, i nostri amici, le persone che ci sono più care.  Insomma, le persone per le quali ci siamo sempre, nonostante tutto. Coloro i quali, quando sono nei guai o qualcosa va loro male, riceveranno sempre il nostro appoggio. Incondizionatamente.

Ma non era il contrario?

Già, perché ribaltare l’insegnamento originale? Semplicemente, perché tendiamo ad amare più chi c’è vicino che noi stessi. Niente di male ad amare gli altri, ma voler bene anche a sé stessi non è poi una cattiva idea.

Di cosa parlo? Pensaci bene: quando un amico commette un errore, anche importante, cosa gli dici? Generalmente, si tende a consolarlo, a dirgli che può capitare di sbagliare, che le cose andranno meglio e via discorrendo.

Ora immagina che l’errore l’abbia commesso tu. Il tuo amico, da parte sua, probabilmente ti esprimerà la sua vicinanza e la sua solidarietà. Proprio come avresti fatto tu a parti invertite. Ma cosa diresti a te stesso in una situazione del genere?

A meno che tu non sia un narcisista ortodosso, con l’idea di essere perfetto e infallibile, non è insolito che vengano fuori giudizi di questo tipo: “Sei il solito buono a nulla! Sei una frana, un disastro! Hai fallito anche questa volta! Sei un perdente!”

Prova a chiederti: «sono più gentile con gli altri o con me stesso»?

Non c’è peggior giudice di chi giudica se stesso

La tendenza, insomma, è quella di giudicarsi aspramente quando ci troviamo di fronte a un fallimento o a qualcosa che non va. Ci si può sentire inadeguati, sbagliati, non meritevoli di altro destino diverso dalla sofferenza, proprio a causa del modo in cui ci si percepisce.

In realtà, la cosa che più colpisce, più che l’eccesso di autocritica, è la disparità di trattamento che ci riserviamo in situazioni del genere. Perché se lo stesso errore o fallimento l’avesse fatto chi più c’è caro, mai penseremmo di vomitargli addosso tutte le cattiverie e le parolacce che riserviamo a noi stessi.

Eppure, quando si tratta di noi stessi, non ce ne facciamo passare liscia una.

Oltre al danno, la beffa

Insomma, quando ci troviamo davanti a qualcosa che non è andata, che sia un “grande fallimento” o un banale errore di valutazione, invece che consolarci e farci forza, preferiamo prenderci a bastonate. E pensare che sarebbero proprio questi i momenti in cui più avremmo bisogno di starci vicini. Esattamente come faremmo col nostro prossimo.

Quindi non solo soffriamo perché qualcosa c’è andata male, stiamo anche peggio per quello che ci diciamo e per la brutalità con la quale ci diamo addosso. In questo modo, un piccolo errore potrà sembrarci ancora più grande, fino a riempire interamente la nostra visuale.

Rischiando così di non cogliere le opportunità di cercare una soluzione, di analizzare cosa non è andato e cosa si poteva fare meglio. Occupando cioè qualunque spazio per il miglioramento.

amare se stessi

Sbagliando si …è umani

Una cosa molto banale ma che spesso tendiamo a dimenticare, soprattutto quando ha a che fare con noi stessi, è che tutti fanno errori. Tutti, nessuno escluso.

Se è dunque una condizione umana ed essendo noi umani (giusto?), perché mai dovremmo ritenerci infallibili e non soggetti a errore? E nel momento in cui riconosciamo di poter sbagliare, perché darci addosso quando ci capita di farlo?

Quanto ci è utile massacrarci e insultarci quando stiamo già soffrendo per un errore, un fallimento, un qualcosa che è andato storto?

A tutti capita di avere momenti difficili e di grande sofferenza, momenti in cui dubitiamo di noi stessi, delle nostre scelte, dei nostri modi di fare e di non-fare. Ben venga una messa in discussione di noi stessi, ma solo se è improntata al migliorarsi e non al fustigarsi inutilmente. E che sia fatta con gentilezza e con rispetto: lo stesso trattamento che riserviamo agli altri e che, troppo spesso, tendiamo a non applicare quando si tratta di noi stessi.

Amarsi: più facile a dirsi che a farsi

Non è facile, purtroppo, riuscire ad essere gentili e rispettosi verso sé stessi. Forse, presi dai sensi di colpa e dall’autobiasimo, non riusciamo ad andare oltre il nostro errore, trascurando una questione fondamentale: noi stiamo soffrendo. Come possiamo ignorare questo fatto?

Nonostante la nostra prontezza nel rivolgere la nostra compassione verso chi ci è più vicino, non riusciamo a volgere quella stessa compassione verso il nostro interno. Quello di cui avremmo bisogno, quando le cose si mettono male, è soltanto fermarci, ascoltarci, capirci, abbracciarci, consolarci.  Perché stiamo male, e di questo si ha bisogno quando si sta male.

Per farlo, occorre andare oltre il solito modo di vedere noi stessi e riconoscere che anche noi, come tutti, possiamo fallire. E magari non limitarci a vedere soltanto il tremendo errore commesso, il bruciante fallimento a cui siamo andati incontro, la stoltezza dietro alcune nostre decisioni. Vediamo anche noi stessi, il dolore che proviamo.

E troviamo il coraggio di perdonarci, di sostenerci, di incoraggiarci. Di aiutarci.

Di amarci, così come siamo. Perché tutti –proprio tutti- sono degni di amore. Noi per primi.

 

Allora, sei più gentile con gli altri o con te stesso? Cosa ti dici quando sbagli o quando ti trovi di fronte a un fallimento? Ti comporti allo stesso modo se l’errore è di qualcuno che ti è vicino? Riesci a perdonarti in queste situazioni o preferisci fustigarti senza pietà? Lascia un commento, se ti va!

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