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Le emozioni vanno e vengono, ma quando sono negative proprio non ci vanno giù! Ci sono diversi modi con i quali affrontiamo le emozioni, ma non tutti alla fine si rivelano utili o ci proteggono da queste. Vediamo insieme come fare per gestire al meglio le nostre emozioni piuttosto che lasciarci gestire da loro!

gestione delle emozioni

Mettiamola così: a nessuno piace provare emozioni negative. Questo è talmente tanto scontato che tendiamo a dimenticarci completamente di questo aspetto. Ma perché è così importante sottolineare questa ovvietà?

Tutti noi vogliamo provare emozioni positive, come la gioia o la serenità, e facciamo di tutto per ottenerle. Dall’altra parte, tutti noi non vogliamo provare emozioni negative, come la tristezza o la paura, e facciamo di tutto per evitarle. Tutto questo si traduce nel fatto che, quando inevitabilmente ci ritroviamo con delle emozioni negative a bussare alla nostra porta, facciamo di tutto per mandarle via.

Ognuno di noi ha le sue strategie per farlo, ma l’obiettivo di fondo rimane quello: liberarsi delle emozioni sconvenienti. Queste strategie non sono però dei semplici dettagli: il modo in cui proviamo a gestire queste emozioni determina molti dei nostri comportamenti, ma ha anche un’influenza sulle idee che abbiamo su noi stessi, sugli altri e sul mondo che ci circonda, e persino sulle emozioni che proveremo in seguito.

Quando le emozioni bussano alla porta

Esistono ovviamente strategie più o meno evolute, più o meno funzionali, più o meno utili. Ci sono infatti strategie di gestione decisamente “grezze”, come il reagire agli eventi in maniera pressoché automatica e inconsapevole, e altre più raffinate, come ad esempio il rivalutare gli eventi negativi e rispondere ad essi in maniera più consapevole e funzionale.

A me piace pensare che le diverse strategie con le quali cerchiamo di gestire le emozioni indesiderate possano in realtà essere viste come una serie di tappe che possono rivelarci a che punto ci troviamo lungo un percorso di maturità emotiva e psicologica. In parole povere, i modi in cui regoliamo le emozioni possono riflettere il nostro livello di “salute” psicologica.

Uno degli obiettivi più importanti in psicoterapia è di solito proprio quello di promuovere un modo diverso e più maturo – cioè il più possibile adeguato e utile per noi stessi – di rapportarci alle emozioni che vengono a bussare alla nostra porta. Possiamo quindi pensare che esista una specie di “classifica” dei modi in cui vengono gestite le emozioni, e come la psicoterapia possa aiutare a passare da una modalità all’altra, in un percorso che, a partire da strategie non particolarmente utili e funzionali, consenta di sviluppare modi diversi e più psicologicamente maturi di affrontare gli eventi emotivi.

Semplificando, possiamo dire che ci sono 3 modi di approcciarci alle emozioni, descritti nei prossimi paragrafi:

  1. Reazione
  2. Soppressione
  3. Rivalutazione

Ma attenzione, perché potrebbe esserci dell’altro…

1. Reazione

È la modalità più semplice e istintiva, e per questo anche la meno matura. In pratica, tendiamo ad agire come reazione a quello che abbiamo provato. A volte non siamo nemmeno in grado di riconoscerla, l’emozione. La viviamo totalmente ma inconsapevolmente, quasi fossimo in trance.

Così, quando ci arrabbiamo per qualcosa che ci è successo, tendiamo a far un gran casino e a prendercela con tutto e con tutti, urlando, sbraitando e aggredendo ogni cosa sul nostro cammino. Oppure, quando proviamo ansia e sentiamo di essere in pericolo, cerchiamo in tutti i modi di scappare dalla situazione in cui ci troviamo e iniziamo a stare sempre di più all’erta, evitando di ritrovarci nuovamente ad affrontare gli eventi che ci fanno provare quest’emozione.

È chiaro che in questi casi non stiamo assolutamente gestendo le emozioni che proviamo, ma piuttosto sono loro che gestiscono noi. Non ci prendiamo neanche il tempo necessario per capire cosa ci sta succedendo, agiamo e basta. L’obiettivo è liberarsi dall’emozione negativa, costi quel che costi.

2. Soppressione

Questa strategie può essere considerata leggermente più funzionale della reazione, ma solo perché solitamente non prevede conseguenze a breve termine. Sostanzialmente, riconosciamo l’emozione ma cerchiamo in tutti i modi di inibirla. Invece che viverla, la spingiamo dentro.

Se c’è qualcosa che ci fa arrabbiare, proviamo a fare buon viso a cattivo gioco, a ingoiare il rospo mentre magari, dentro di noi, meditiamo vendetta.  Quando invece è l’ansia a bussare alla porta, anche se non scappiamo (subito) dalla situazione, cominciamo a portare attenzione a cosa ci sta succedendo, con l’obiettivo di tenere a freno le nostre possibili reazioni, mentre intanto una gocciolina di sudore scende lungo la fronte…

Di solito, dietro questa modalità si cela una paura delle possibili reazioni alle quali potremmo andare incontro nel caso manifestassimo apertamente cosa proviamo. Reazioni nostre, ma anche quelle degli altri. Il problema è che, tenendo tutto dentro, prima o poi qualcosa dovrà pur uscire… e arriverà il giorno in cui si esplode, in cui si faranno più danni di quanto si era temuto. Mentre, nel frattempo, magari si è già cominciato a farne mettendo in atto comportamenti di tipo passivo-aggressivo (“Ah, non vuoi darmi un passaggio? Bene, vorrà dire che “dimenticherò” di inviarti quel documento…”).

Inoltre, se siamo convinti che soffocando le nostre emozioni gli altri non si accorgeranno di nulla, sbagliamo in partenza. Puoi anche silenziare l’espressione delle emozioni ma, fidati, la maggior parte delle persone “sentiranno” che c’è qualcosa che non va. Tu continuerai a negare, ovviamente, e ovviamente gli altri non ti crederanno. E questo porterà a ulteriore ambiguità, che, in chiave relazionale, non è nient’altro che un invito alle emozioni negative a ricomparire

3. Rivalutazione

Invece che reagire acriticamente o sopprimere preventivamente, c’è un’altra strada, ma che non tutti riescono a praticare da soli: rivalutare quello che ci sta succedendo e solo dopo decidere come rispondere. È decisamente una strategia migliore e più matura rispetto alle precedenti, perché ci consente di essere flessibili e di assumere una prospettiva più equilibrata rispetto alle emozioni che stiamo vivendo.

Quando proviamo rabbia, allora, invece che sbottare o reprimere, ci prendiamo il tempo per capire perché stiamo provando questa emozione, mettiamo in discussione le idee dietro questi perché e l’idea che abbiamo di noi e degli altri, e solo allora, con mente più lucida e una visione delle cose più equilibrata, decidiamo cosa dire e cosa fare. Per l’ansia, come del resto per tutte le altre emozioni, è la stessa cosa: osservare, valutare, mettere in discussione e agire.

Non solo imparare a rivalutare una situazione emotiva ci permette di rispondere in maniera più adeguata, funzionale e più utile per noi stessi, ma anche già soltanto fermarsi a osservare cosa ci succede e perché proviamo questo o quello può di per sé ridurre l’intensità stessa dell’emozione. Insomma, decisamente una buona strategia per riuscire a gestire gli eventi emotivi che inevitabilmente incontreremo per tutto l’arco della nostra vita!

In psicoterapia, imparare a gestire al meglio le emozioni è fondamentale per il proprio benessere psicologico. La psicoterapia a orientamento cognitivo-comportamentale, in particolare, è diretta a sviluppare il più possibile una modalità di gestione delle proprie emozioni che ci consenta di rivalutare cosa ci sta accadendo, così da poter rispondere al meglio e in maniera più funzionale a quanto si presenta nel nostro panorama emotivo.

gestione delle emozioni

Bonus: Accettazione

Ma c’è ancora un’altra modalità di gestione delle emozioni, a prima vista la più assurda e paradossale di tutte… ma, forse, anche la più efficace. Stiamo parlando dell’accettazione, ovvero di un atteggiamento di volontario accoglimento dell’esperienza emotiva, riconoscendo e vivendo pienamente l’emozione, per quanto sgradevole possa essere.

È decisamente un qualcosa di controintuitivo, se consideriamo, come scritto sopra, che la naturale tendenza degli esseri umani è di inseguire le emozioni positive ed evitare ad ogni costo quelle negative! Infatti, non è una strategia che si può “spiegare” o insegnare direttamente (provate a dire a chi è in ansia: “accetta la tua emozione così com’è”), ma piuttosto un traguardo al quale ci si può arrivare o durante un percorso di rivalutazione oppure …per “intuizione”!

Accettare le proprie emozioni, cioè esserne consapevoli senza necessariamente cercare di fare qualcosa per cambiarle, infatti, è una forma di conoscenza che si può acquisire man mano che si pratica con costanza la rivalutazione delle emozioni. È una sorta di effetto collaterale che si manifesta quando, dopo essere riusciti molte volte a gestire le nostre emozioni reinquadrandole e non lasciandole libera di combinare guai, ci rendiamo conto principalmente di due cose:

  1. Le emozioni, come tutti i fenomeni, hanno un inizio e una fine naturale;
  2. Noi non siamo le nostre emozioni né i nostri pensieri.

Ma anche e soprattutto le pratiche di mindfulness, non necessariamente all’interno di una psicoterapia, portano, nel corso del tempo, a sviluppare queste e altre forme di saggezza (come la concentrazione, il non giudizio, la compassione) che hanno come risultato una migliore gestione delle emozioni. Con l’effetto assolutamente paradossale di sperimentare meno e meno intense emozioni negative man mano che si impara ad accettarne la presenza senza reagire. In pratica, il non cercare di regolare le proprie emozioni è forse la migliore strategia di regolazione delle emozioni!

Alla fine del percorso

È chiaro che non è necessario arrivare ad accettare consapevolmente ogni emozione per poterle gestire al meglio. Così come non è detto che una singola strategia sia superiore a tutte le altre e adatta per ogni momento (ogni tanto ci sta pure il reagire impulsivamente o l’ingoiare un rospo bello grosso, l’importante è che non diventi un’abitudine!).

Realisticamente, penso che la migliore capacità di gestione emotiva sia nell’atteggiamento di chi riesce ad accettare come evento naturale la presenza delle proprie emozioni senza spaventarsene più di tanto, nella convinzione che, volendo, ci si può sempre lavorare sopra per rivalutarle e inquadrarle così da poter rispondere nella maniera che ci è più utile.

Essere aperti all’accettare le così come sono, nel bene e nel male, tenendo saldamente nella mente e nel cuore l’idea di poter comunque scegliere come rispondere, è un chiaro segno di una spiccata maturità psicologica.

Sia chiaro, imparare a gestire in questo modo le emozioni rappresenta un punto di arrivo, non un punto di partenza: non è un qualcosa che si “impara” dalla sera alla mattina, che si può leggere in un libro o che può essere imposto da qualche guru-santone. È nient’altro che il frutto di tanto lavoro su noi stessi, un lavoro paziente di intensa e fiduciosa osservazione di chi siamo, di come funzioniamo, di cosa temiamo, di cosa vogliamo. Perché, in fondo, la durata e gli effetti delle emozioni che proviamo non dipende altro che dal modo in cui le accettiamo e da cosa riusciamo a vedere dietro quelle emozioni.

Si, è un viaggio lungo e difficile… ma se accettiamo di provarci, grande sarà la ricompensa.

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Triste o depresso? Al giorno d’oggi i due termini sono usati come sinonimi, ma si tratta di due condizioni profondamente diverse. Conoscere la differenza tra le due e capire quando è necessario chiedere aiuto è il primo passo per riuscire a superare una grave malattia come la depressione.

tristezza

Ciascuno di noi, nel corso della nostro travagliata vita, sperimenta prima o poi dei sentimenti di forte tristezza. Che sia a causa di un lutto, di un periodo di intensa difficoltà, di una delusione o anche solo una percezione di solitudine, è assolutamente normale sperimentare tristezza. Come le altre emozioni, fa parte del nostro essere umani.

Per qualcuno però non si parla di semplice tristezza: quando il tempo non sembra aiutare, quando il dolore sembra essere assolutamente insopportabile, quando tutto è stancante, difficile e confuso, quando diventa faticoso anche solo alzarsi dal letto la mattina, potremmo essere di fronte a qualcosa di molto più serio e pericoloso della “tipica” tristezza. Potremmo ritrovarci a soffrire di depressione.

Ma come distinguere quando siamo di fronte a una normale tristezza da quando ci troviamo ad annaspare nello scuro oceano della depressione? Qui di seguito una lista di 7 importanti differenze tra tristezza e depressione, nella speranza di fare un po’ di luce tra ciò che si nasconde dietro questi due termini.

1. Perdita di interesse ed energia nelle attività

Quando si è tristi, generalmente non si perde interesse per le attività che di solito ci piace fare. Quando ci dedichiamo a queste attività, come il guardare una serie tv o leggere un libro, riusciamo in qualche modo a “distrarci”uando uan

e il nostro umore tende a migliorare, anche solo temporaneamente. Anche una chiamata da un amico, un aperitivo al bar o una passeggiata in compagnia spesso possono essere di aiuto per superare la tristezza del periodo, e col tempo si riuscirà a tornare nella condizione di trarre nuovamente piacere dalle cose che ci piacciono.

Con la depressione le cose non stanno così. In questi casi si parla di anedonia, ovvero la completa perdita di interesse verso attività che una volta venivano considerate piacevoli e l’apparente impossibilità a provare sentimenti piacevoli da queste. Si tratta di un segnale molto importante, da non sottovalutare: se provi difficoltà a dedicarti e a trarre piacere da attività che per te sono sempre state “piacevoli” è importante che cerchi un aiuto professionale.

Un’altra caratteristica simile della depressione è la cosiddetta abulia, ovvero la sensazione di non avere né energie né volontà di svolgere una qualsiasi attività, anche i normali impegni quotidiani. Invece quando una persona sta vivendo un periodo di “normale” tristezza, solitamente riesce, anche se a volta con più fatica del solito e con minor entusiasmo, a svolgere le proprie attività e ad andare incontro alle proprie responsabilità. Insomma, continua a “funzionare”.

2. Assenza di cause definite

Un’altra importante ma più sfumata differenza tra la tristezza e la depressione è rappresentata dalle cause di un umore basso. Solitamente, la tristezza è conseguenza più o meno diretta di qualcosa (o di più cose) che ci sono successe: può essere la fine di una storia d’amore, la perdita di una persona cara, un importante cambio di vita, una serie di frustrazioni a lavoro, e così via.

Per chi soffre di depressione, invece, tutto appare meno chiaro e diventa difficile individuare una o più cause specifiche che possano giustificare un così forte abbassamento dell’umore. Nella depressione ogni evento viene sperimentato e interpretato secondo una complessa interazione di pensieri, emozioni e comportamenti che potrebbe potenzialmente renderlo “causa” di una forte tristezza, quindi spesso non è facile individuare uno specifico trigger che ha innescato un abbassamento dell’umore.

In parole povere: tutto e niente possono essere causa di depressione, e se si fatica a trovare una causa specifica può essere un indizio di una condizione di vera e propria depressione. Quando una persona è semplicemente triste, sa perché lo è. Chi è depresso, invece, sa solo di stare male.

3. Difficoltà di concentrazione, di attenzione e di pensiero

Quando si prova una forte tristezza diventa difficile riuscire a concentrarsi e a portare la propria attenzione dove vorremmo dirigerla. Spesso questo succede perché si ha la mente “ingombrata” da preoccupazioni e pensieri relativi a cosa ci è successo che ci ha portato a sperimentare questa tristezza (cioè alle “cause” di cui abbiamo parlato sopra). Si tratta comunque di un effetto temporaneo: con il passare delle ore e dei giorni, la nostra mente tende a “sgomberare” questi pensieri e le nostre energie mentali possono nuovamente dirigersi verso le altre funzioni cognitive come l’attenzione, la memoria e la concentrazione.

Nella depressione, invece, l’effetto dell’intricata rete di pensieri, emozioni e comportamenti che la caratterizzano ha un’influenza decisamente più significativa. Ogni cosa diventa più difficile, e persino un compito relativamente semplicemente come leggere poche frasi o svolgere una semplice addizione può diventare praticamente impossibile. Diventa difficile dirigere la propria attenzione, ragionare con fluidità o anche prendere decisioni che normalmente non comportano alcuna difficoltà.

I pensieri di una persona che soffre di depressione risultano spesso impoveriti, ripetitivi, confusi. Tutto diventa faticoso, ogni cosa sembra rallentata, e questo si riflette anche a livello fisico, con la presenza di un forte senso di stanchezza, perdita di energie e rallentamento nei movimenti.

4. Sentimenti di scarso valore, autocritica e perdita di speranza

A seconda del perché ci sentiamo tristi possiamo provare sentimenti di colpa, di inadeguatezza, una percezione di scarso valore o anche una temporanea perdita di speranza per il nostro futuro. Questi pensieri e sentimenti, tuttavia, possono venire facilmente mitigati dal supporto e dalle parole positive di chi ci sta intorno: familiari e amici spesso ci consentono di guardare alle cose da una prospettiva più benevola e rassicurante, e questo infatti ci aiuta a spazzar via i pensieri negativi che si accompagnano a una “normale” tristezza.

Purtroppo questo non vale per chi soffre di depressione. La percezione di non avere uno scopo nella vita, il mancato riconoscimento del proprio valore, la presenza di forti sensi di colpa e di pensieri autopunitivi, la costante e feroce critica verso sé stessi, insieme a una significativa perdita di speranza nella possibilità di essere aiutati e nei confronti di un futuro a tinte fosche: questi elementi sono talmente intensi e pervasivi che difficilmente possono venire intaccati dalle parole di chi ci vuole bene.

Anche qui, dunque, la differenza più evidente tra la depressione e una “semplice” tristezza sembra risiedere nel carattere transitorio e meno intenso dei pensieri negativi di quest’ultima condizione.

5. Pensieri suicidari

Quando una persona sperimenta pensieri legati al suicidio, soprattutto se ricorrenti, e prova un forte desiderio di non voler più vivere, siamo già oltre la tristezza. Questi pensieri spesso sono il risultato finale di una spirale negativa che parte proprio dai sentimenti di scarso valore e perdita di speranza di cui abbiamo parlato sopra.

Chi sperimenta normalmente una condizione di tristezza semplicemente non arriva ad avere intenti suicidari. La presenza di questi pensieri sono quindi un chiarissimo segnale che siamo di fronte a una depressione. Ed è un segnale che non va assolutamente sottovalutato.

Quindi se vi trovate a sperimentare questo tipo di pensieri, o vi accorgete che qualcuno a voi vicino manifesta questo tipo di intenzioni, vi prego di parlarne con qualcuno di fidato e di cercare immediatamente aiuto. Riconoscere di avere bisogno di aiuto non è segno di debolezza, ma un atto di grande forza e coraggio.

tristezza

6. Disturbi del sonno

Quando siamo tristi è normale aspettarsi qualche difficoltà legata al sonno. I pensieri che ci frullano per la testa possono tenerci svegli la notte e rendere difficile l’addormentarsi. Ci sta perdere qualche notte di sonno ogni tanto, non è nulla di grave. Quando finirà la perturbazione emotiva, così come l’infelicità e la tristezza diminuiranno e la mente tenderà a sgombrare i pensieri negativi, anche le nostre routine legate al sonno si ristabiliranno normalmente.

Con la depressione il sonno risulta altamente disturbato: si osservano spesso lunghi periodi di insonnia, difficoltà di addormentamento e risvegli precoci. Quando queste difficoltà persistono per molto tempo, l’effetto sul fisico può essere molto intenso: stanchezza persistente, dolori muscolari, mal di testa sono conseguenze piuttosto tipiche. Quando poi la persona che soffre di depressione ha già forti difficoltà nell’intraprendere anche le attività più semplici o sembra mancare di energia anche solo alzarsi dal letto, si attiva un circolo vizioso di stanchezza, inattività e mancanza di riposo che rende tutto ancora più complicato. E ancora più difficile uscirne.

Insomma: se sperimentiamo importanti problematiche legate al sonno e per lunghi periodi di tempo, potremmo trovarci davanti a qualcosa di più di una “semplice” tristezza.

7. Perdita di appetito e cambiamenti del peso corporeo

A diverse persona capita di sentirsi “lo stomaco chiuso” quando si attraversa un periodo di tristezza, mentre altri ancora si attaccano al cosiddetto “comfort food”. Insomma, l’abbassamento di umore può avere degli effetti significativi anche sui livelli di appetito e sulle routine alimentari, e nelle persone maggiormente predisposte può tradursi anche in un cambiamento del peso. Ad ogni modo, il tipico decorso transitorio di un singolo episodio di tristezza porta solitamente a un ritorno del normale regime alimentare e di attività fisica.

Nella depressione questo periodo di sregolatezza alimentare può persistere per molto più tempo e, come per il sonno, gli effetti sul corpo possono essere più evidenti e addirittura potenziare gli altri sintomi della depressione, ad esempio per quanto riguarda i livelli di energia e l’alterazione di importanti funzioni corporee.

Sperimentare importanti cambiamenti di peso, la forte diminuzione o la completa perdita dell’appetito sono campanelli d’allarme molto importanti che suggeriscono la possibile presenza di una depressione.

In conclusione

Tristezza e depressione sono termini che nel linguaggio comune sono utilizzati in maniera intercambiabile. Fin quando ci si sofferma sulle parole non c’è alcun problema, ma quando si sperimentano sentimenti di infelicità, disperazione e solitudine è invece molto importante capire la differenza che passa da una normale, transitoria (e a volte salutare) esperienza di tristezza e una condizione grave, persistente e decisamente pericolosa come quella della depressione.

Se ti rivedi tra i sintomi elencati sopra, il mio consiglio è di cercare immediatamente un supporto. Parlane con chi ti sta vicino e rivolgiti a un professionista. Dalla depressione si può uscire, ma il primo passo è chiedere aiuto.

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Come mai alcune persone reagiscono sempre nello stesso modo in alcune situazioni? E come mai non riescono a smettere di farlo, anche quando le conseguenze sono sempre decisamente negative? Scopriamo insieme come cambiare le nostre reazioni emotive e come gestirle in maniera più consapevole.

reazioni emotive

Martina è una donna forte, con un lavoro importante e una vita piena e soddisfacente. È sposata da qualche anno con un uomo che la ama follemente. Eppure, negli ultimi tempi, sente che suo marito si sta allontanando sempre più da lei.

«Non ce la faccio più» le ha confessato, «non riesco più a sopportare le tue ripicche, le tue urla, le tue accuse». Martina sa di cosa sta parlando, comprende le sue motivazioni ed è molto dispiaciuta per il dolore che lui sta provando. Ma non sa come controllarsi.

Basta poco per innescare una reazione in Martina. Un’osservazione innocente come “forse la pasta manca un po’ di sale” è in grado di trasformare questa donna, solitamente ironica e gentile, in una furia assetata di sangue. Per farla breve: qualunque comunicazione che comprenda anche solo una piccola critica verso Martina finisce per innescare una sua violenta reazione, con urla, insulti, accuse, dispetti e piatti lanciati.

Di solito, dopo questo simpatico siparietto, finisce che suo marito, che da persona comprensiva qual è si è sorbito ogni cosa senza fiatare, alza i tacchi e si allontana, ferito ma anche risentito per il trattamento subito.

Scenari di guerra

A questo punto Martina, rimasta sola, inizia a sentirsi in colpa. E inizia a cercare del cibo. Biscotti, merendine, la pasta con poco sale rimasta nei piatti ormai freddi. Quando sente quel dolore, in automatico cerca conforto mangiando.

Non si tratta di un episodio isolato, ormai è una sequenza che entrambi conoscono a memoria. E che, purtroppo, li sta inevitabilmente allontanando. Nonostante l’amore che provano l’uno per l’altra.

Insomma, ogniqualvolta Martina riceve una critica è come se si accendesse un interruttore in lei. Allora comincia a urlare e a offendere, a volte alza pure le mani. Non solo, dopo l’arrabbiatura cerca conforto nel cibo.

Ma anche Maurizio, il marito, reagisce a modo suo a questa situazione: davanti all’aggressività della moglie tende a chiudersi, a farsi piccolo piccolo, e – appena può – se la dà a gambe. E questo fa arrabbiare ancora di più Martina.

Le conseguenze di queste loro reazioni sono ben chiare ad entrambi. Eppure, non riescono in alcun modo ad evitarle. È come se fosse più forte di loro: le loro sono reazioni automatiche che sembrano lontane da qualsiasi possibilità di controllo.

Meccanismi di innesco

Ma come mai alcune persone tendono a reagire sempre allo stesso modo in certe situazioni? Ma soprattutto, perché continuano a mettere in atto determinati comportamenti anche se alla fine portano sempre agli stessi risultati negativi?

Ciascuno di noi ha imparato, nel tempo, a rispondere ad alcuni stimoli con delle reazioni automatiche. Solitamente si tratta di stimoli che attivano in noi un qualche stato emotivo spiacevole: ansia, tristezza, rabbia. La reazione che ne consegue, quindi, è un tentativo di gestire le emozioni negative che si provano in determinate circostanze.

Non siamo quasi mai consapevoli del perché reagiamo proprio con quella modalità, eppure tendiamo a riproporla in maniera automatica ogniqualvolta ci troviamo di fronte a uno stimolo scatenante. Si tratta, per l’appunto, di automatismi appresi nel corso del tempo, soluzioni adottate in passato e che in qualche modo hanno “funzionato”. Si sono cioè rivelate efficaci nello smorzare o nell’eliminare la sofferenza di quella situazione.

Se poi la “soluzione” comporta altre conseguenze, a volte persino peggiori della sofferenza che mirano a estinguere, pazienza. Non è che i nostri meccanismi automatici di gestione vadano troppo per il sottile: stiamo parlando di reazioni che potremmo definire “istintive”, non di risposte ponderate dove si distinguono conseguenze a breve e a lungo termine.

Polveri da sparo

Ma al di là degli automatismi appresi, cioè delle reazioni che inconsapevolmente si scatenano di fronte ad alcune situazioni-stimolo, perché alcuni eventi hanno questo “potere” su di noi?

Ritorniamo a Martina: cosa significa per lei ricevere una critica? Perché se la prende così tanto? Nel suo caso, ogni volta che si trova di fronte a una comunicazione che sottintende un suo errore o un suo difetto, è come se si trovasse a rivivere alcune scene del suo passato. Ricorda molto bene suo padre, un uomo distante e severo, che non perdeva occasione per rimarcare ogni errore della figlia con aspre critiche.

Quando nell’aria c’è odore di critica, Martina rivive quel trauma. Sente di nuovo tutto quel dolore, quella sensazione di non essere all’altezza, di non essere abbastanza. Ovviamente di tutto questo lei non ne è consapevole. Riferisce soltanto di sentire un “fuoco dentro”, e ha imparato che l’unico modo per spegnerlo è difendersi. Ad ogni costo.

Per molto tempo l’è andata piuttosto bene. Reagire con decisione quando il suo valore veniva messo in discussione ha fatto sì che gli altri la vedessero come una donna molto forte e determinata, ma anche decisamente “permalosa”. Nessuno osava muovergli critiche, così Martina si sentiva al sicuro.

A un bivio

Eppure, adesso, questo suo modo di reagire di fronte al proprio dolore sta iniziando a costarle caro. Lei lo sa bene, ed è sinceramente dispiaciuta per la sofferenza che causa in Maurizio quando sbotta a quel modo.

Non vuole ferirlo, non vuole fargli del male. Eppure sente di non poter fare a meno di comportarsi così, di non essere in grado di reagire in maniera diversa. Altra ferita, altro dolore.

Capisce però che il suo matrimonio è ormai a un bivio: o fa qualcosa, o inevitabilmente la relazione imploderà. Non sa perché si comporta a quel modo, ma sa bene cos’è che la fa infuriare. Sa bene cos’è che innesca la miccia che la porterà poi ad esplodere.

Reagire o rispondere?

Il primo passo è comprendere quali sono le situazioni che ci fanno reagire in un certo modo. Che la reazione sia quella di raggomitolarsi in posizione fetale, di aggredire l’altro, di scolarsi una bottiglia o di svuotare il frigo non importa. Il fattore in comune di tutte queste reazioni è che, anche se apparentemente ci aiutano a gestire una qualche sofferenza, comportano conseguenze che, alla lunga, ci fanno pagare un prezzo altissimo.

Anche se automatiche, queste reazioni non sono inevitabili. Portando un po’ di attenzione a quel momento, possiamo decidere di rispondere in modi diversi, che siano più utili o salutari per noi e chi ci sta attorno. Insomma, dobbiamo riuscire a spezzare quei meccanismi automatici che ci fanno reagire con modalità disfunzionali.

Come? Creandone di nuovi! Stavolta, però, saremo noi a decidere come rispondere.

Riprogrammarsi

Iniziamo prendendo carta e penna. Sul foglio bianco creiamo tre colonne. Sulla prima scriviamo Stimolo, sulla seconda Reazione e sulla terza Nuova risposta.

Nella prima colonna scriveremo quali sono le situazioni (gli stimoli) che ci fanno reagire in un certo modo; questa reazione la scriveremo nella seconda colonna. Nella terza colonna, quella della Nuova risposta, scriviamo come vorremmo invece rispondere a quegli stimoli.

reazioni emotive

Martina ha compilato così la sua tabella (e già che c’era, ha aggiunto anche altre reazioni che vorrebbe modificare)

 

Ora viene la parte difficile: mettere in atto le nuove risposte quando si presentano gli stimoli. Nessuno può pretendere a sé stesso di non reagire più nel “vecchio modo” d’ora in avanti, ma ciò che puoi fare è, con pazienza e perseveranza, impegnarti a rispondere nel “nuovo modo”. C’è voluto molto tempo per imparare a reagire in un certo modo, molto tempo ci vorrà per “riprogrammarsi” a rispondere diversamente.

Non si cambia dall’oggi al domani, quindi non scoraggiarti se ogni tanto ricadi nelle vecchie abitudini. Piuttosto, sii felice quando riesci rispondere in maniera diversa. Premiati se vuoi, ma i benefici vedrai che non tarderanno ad arrivare.

Porta con te questo foglio, rileggilo, usalo come guida. Sperimenta, cambia risposta, aggiungine di nuove. Mettiti alla prova. E se hai bisogno, contattami.

Com’è andata a finire?

Martina può dire di esserci riuscita. Si è impegnata, ci ha messo tutta sé stessa. All’inizio ha avuto molte difficoltà, era difficile per lei ricordarsi di rispondere in maniera diversa. E quando le veniva in mente, non sempre è riuscita a mettere in atto i buoni propositi.

Ne ha parlato con Maurizio, che l’ha aiutata molto. Le ricordava del foglio, la incoraggiava e cercava di “prendersela di meno”. Martina si è sentita ancora più motivata. Poco alla volta, giorno dopo giorno, è riuscita a esprimere il proprio dolore e la propria rabbia in modi diversi in sempre più occasioni.

Ogni tanto si arrabbia ancora, ma non c’è paragone con prima. Gli episodi sono meno intensi e meno frequenti. Tra loro le cose vanno meglio, il pericolo di separarsi sembrerebbe scongiurato. Ora però tocca a lui, perché le cose si fanno in due.

reazioni emotive

Finalmente scegliere

Capire le cause dietro alcuni nostri comportamenti può aiutarci a fare luce sui motivi che sostengono alcune nostre reazioni. Può aiutarci anche a fare pace con noi stessi, a dare un senso a ciò che sembra non averne. Ma capire il perché non necessariamente si traduce in un cambiamento vero e proprio.

L’aspetto più importante, forse, è comprendere che non siamo destinati a reagire sempre allo stesso modo. Possiamo cambiare. Possiamo scegliere come rispondere. Una volta imparato questo, dopo aver tastato con mano le possibilità che un nuovo modo di rispondere può regalarci, diventa difficile tornare indietro.

Vivere è inevitabilmente essere costantemente sottoposti a stimoli, alcuni positivi e altri negativi. Ciò che non è inevitabile è come decidiamo di rispondere. È tutto nelle nostre mani.

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L’ansia, come qualunque altra emozione negativa, è un’esperienza decisamente spiacevole, al punto che certe volte sembra impossibile da tollerare. E se invece non fosse così? Cosa potremmo scoprire se solo provassimo a stare semplicemente con questa emozione?

Tollerare

In breve, un’emozione rappresenta la risposta del nostro corpo a un dato evento. Accade qualcosa, il nostro cervello lo registra, lo interpreta e il nostro organismo risponde con delle modificazioni fisiologiche che ci preparano a una reazione congruente.

Il tutto avviene in pochi millisecondi, non è possibile interrompere il percorso già avviato e prevenire il “sentire” dell’emozione. Quindi mettiamoci l’anima in pace: le emozioni ci sono e si fanno sentire in tutta la loro prepotenza.

Questo però non significa che non sia possibile fare qualcosa al riguardo. Preso atto dell’inevitabilità delle emozioni, non resta che chiederci: è possibile vivere le emozioni senza farci sopraffare da queste?

Ma partiamo dall’inizio, da dove tutto in qualche modo si origina: il nostro cervello.

Emozioni e cervello

La sequenza descritta in precedenza è di una complessità e di una magnificenza uniche, come del resto lo sono tutte le espressioni del nostro organismo, che è una “macchina” meravigliosa e ineguagliabile nella sua efficienza e rapidità.

I meccanismi legati all’espressione delle emozioni hanno un’origine antica, tant’è che i circuiti cerebrali responsabili risiedono nelle parti del cervello più primitive. Sempre per semplificare: quelle che ci accomunano agli animali. Proprio per questo carattere “istintivo”, rapidissimo e automatico, non è per nulla facile riuscire a controllare questi processi. Anzi, a dirla tutta è praticamente impossibile.

Ma l’essere umano, nel corso di moltissimo tempo, ha sviluppato nuove e uniche aree cerebrali che vanno oltre i circuiti più antichi e che ci consentono di vivere le emozioni in maniera più complessa, potendo noi riconoscere, etichettare e, in qualche misura, persino inibire le reazioni emotive.

In ultima analisi, quindi, non siamo completamente schiavi delle nostre emozioni, anche se i meccanismi arcaici che ne sono alla base sfuggono da qualsiasi nostro tentativo di controllo. Ma se non possiamo controllare l’emergere delle emozioni, cosa possiamo fare per gestirle?

Attacco e fuga

Riepilogando, il primo meccanismo che si innesca è una sequenza automatica che è al di fuori del nostro raggio di azione: il cervello interpreta degli eventi e prepara l’organismo a reagire.

Prendiamo ad esempio una delle emozioni più basilari: la paura. Quando proviamo paura è perché c’è qualcosa che sta accadendo (o pensiamo stia per accadere) e che rappresenta una minaccia per la nostra persona. Le risposte possibili, a dar retta al nostro istinto, sono due: o attacchiamo o fuggiamo.

Se davanti a noi c’è un mastino sbavante, chiaramente arrabbiato e minaccioso, sicuramente proveremo paura, ma ancora prima di rendercene conto è probabile che siamo già scappati a gambe levate (di “attaccare” non se ne parla proprio). Qui si vede la potenza del nostro sistema automatico di interpretazione degli eventi e reazione emotiva: non abbiamo bisogno di pensare per sapere cosa fare. Un attimo in più a ragionare sulla situazione e il cagnaccio potrebbe facilmente farci a pezzettini.

In questi casi, gestire l’emozione non avrebbe molto senso. Ma se il cane non c’è? Cioè: se il pericolo non fosse reale, ma solo immaginato?

Pericolo in anteprima

Possiamo dire che, per eccesso di sicurezza, a volte il nostro cervello tende a sovrastimare il pericolo. È, ad esempio, quello che accade quando proviamo ansia. L’ansia, sempre semplificando, è frutto di un’esagerazione della probabilità che possa verificarsi un pericolo, o comunque un evento a noi avverso.

Paura è avere un cane minaccioso davanti, ansia è prefigurarsi la possibilità di trovarselo avanti. E qui le cose si complicano. Se pensiamo di trovarci davanti il temuto Cerbero nel tragitto da percorrere, chiaramente proveremo ansia nel fare quella strada. Come reagiamo allora? Molto semplicemente, evitiamo quel percorso.

Fin qui nulla di male. Impostiamo il navigatore mentale per percorre una strada alternativa e tutto andrà bene. Magari allunghiamo un po’, ma almeno saremo salvi. Non sempre però è possibile percorrere un’altra strada. E se quello che temiamo non fosse un animale (cioè, un qualcosa di tangibile, di concreto), ma qualcosa di più astratto, come ad esempio la paura di sentirsi male? Come si fa a scappare da ciò?

Effetti collaterali

Il nostro cervello, anche se vincolato ad alcuni meccanismi rigidi, è in realtà molto, molto creativo. Che sia un pericolo “fisico” o “mentale”, troverà sempre il modo di evitarlo. Può scoprire e imparare, ad esempio, che se si ha paura di sentirsi male, avere al fianco una persona che può aiutarci in caso di bisogno può farci sentire più sicuri.

Soluzioni come questa, però, anche se geniali e utili nell’immediato, possono avere degli importanti effetti collaterali. Spesso, persino peggiori del pericolo inizialmente temuto. Chi ricerca aiuto psicologico per problematiche legate all’ansia, spesso lo fa perché le soluzioni attuate fino a quel momento sono andate fuori controllo.

Certo, la persona è consapevole che la base di tutto è la paura che c’è dietro certi comportamenti, ma non chiederebbe aiuto se la soluzione individuata funzionasse davvero. Il problema, quindi, è che le strategie attuate non sono più funzionali.

Leggere, rileggere, verificare

Poiché i meccanismi cerebrali inducono una risposta emotiva in seguito a una determinata interpretazione degli eventi, il problema quindi potrebbe essere nella lettura delle situazioni e dei possibili pericoli associati.

Questa è una prima e importantissima chiave di lettura (perdonate il gioco di parole!). Se è l’interpretazione dell’evento a essere sbagliata, è chiaro che è fondamentale imparare a rileggere le situazioni in maniera più oggettiva ed equilibrata. Tenendo inoltre presente che non va valutato solo il presunto pericolo, ma anche le possibilità che abbiamo per poterlo affrontare, spesso fortemente sottostimate (al contrario della minaccia, che viene solitamente ingigantita).

Riuscire a valutare “le cose come stanno” in maniera più obiettiva e razionale è un punto molto importante, ma non è la soluzione definitiva né tantomeno l’unica strategia da perseguire. Un altro elemento fondamentale per riuscire a comprendere e affrontare l’ansia (ma il discorso, tenuto conto delle differenze, è valido per qualunque emozione vissuta come negativa) è affrontarla concretamente.

In sostanza, non è importante solo mettere in discussione il presupposto “ho bisogno di qualcuno che mi stia sempre vicino altrimenti se mi sento male sono spacciato”, è altrettanto importante verificarlo concretamente, in questo caso evitando di ricercare la presenza di una persona che (nella nostra testa) ci tiene al sicuro e vedere cosa succede.

Tra il dire e il fare

Ed è qui che il gioco si fa duro. Non è facile, soprattutto che chi combatte da molto tempo con presupposti e comportamenti disfunzionali, riuscire a mettersi in discussione e affrontare nel concreto l’ansia.

Pur arrivando a comprendere cosa c’è dietro quell’emozione, cioè perché leggiamo la situazione proprio in quel modo (un processo che sopra ho espresso in maniera molto sintetica ma che in realtà è decisamente più complesso), quando ci troviamo davanti all’emozione nuda e cruda ci tremano le gambe.

Del resto, è più che normale. L’ansia è un’emozione assai spiacevole, e siamo automaticamente portati a trovare modi per eliminarla, o comunque per non sentirla. Il pericolo di cadere nelle vecchie abitudini (cioè, le passate strategie disfunzionali per gestirla) è sempre dietro l’angolo.

Ma perché non sopportiamo di sentirla? Perché non tolleriamo assolutamente le possibilità di provare qualcosa di negativo? Perché le emozioni ci fanno così paura?

Tollerare la spiacevolezza

Perché, ancora una volta, entrano in gioco gli automatismi cerebrali. Quando ci troviamo faccia a faccia con l’ansia, ad esempio, noi leggiamo il nostro stato attuale come effettivamente spiacevole, se non pericoloso. Al nostro cervello non piace soffrire (e come biasimarlo?), così urla con forza che dobbiamo scappare da quella situazione, e più cerchiamo di resistere, più le sue grida d’aiuto si intensificano. A un certo punto, quasi inevitabilmente, cediamo. E torniamo al punto di partenza.

Ma se il cervello si sbagliasse? Se l’emozione che proviamo fosse sì spiacevole (inutile negarlo!), ma essenzialmente tollerabile? Cosa succederebbe se, in qualche modo, riuscissimo a stare con la nostra emozione negativa?

Semplicemente, accadrebbe qualcosa di impensabile: se riusciamo a stare abbastanza tempo con le nostre emozioni, ignorando i pianti disperati frutto di un sistema di allarme ricco di pregiudizi sugli effetti delle emozioni, ecco che, a un certo punto, il cervello capìtola.

In sostanza, lo prendiamo per sfinimento. Dopo che si sarà sfogato per bene, capirà che non non gli servirà più urlare, che non c’è niente che possa fare. Allora si zittisce. E l’emozione, pian piano, scemerà. Fino a scomparire.

Tollerare

Stare con l’emozione

Questi miei discorsi, ovviamente, possono solo solleticare la parte razionale del cervello. Per quanto ragionevoli, c’è un solo modo per scoprire se le emozioni sono davvero tollerabili: provare a stare con loro.

Quando ci sentiamo un po’ preoccupati, in ansia o agitati, proviamo semplicemente a stare con queste emozioni. Non c’è bisogno di fare molto altro. Prendiamoci un po’ di tempo, anche solo qualche minuto, e vediamo cosa succede.

Anche se sicuramente sentiremo l’impulso di fare qualcosa (di solito mettere in atto i soliti meccanismi che nel corso del tempo abbiamo escogitato pur di non sentire il dolore, oppure metterci a pensare intensamente alle nostre preoccupazioni), proviamo, solo per questi pochi minuti, a non fare nulla. Volendo, possiamo aiutarci portando la nostra attenzione al respiro, un modo per restare in contatto con noi stessi e non perderci nei bla bla della nostra mente, sempre pronta a farci qualche “sgambetto” per farci desistere.

L’idea di stare semplicemente con un’emozione negativa spaventa, me ne rendo conto. Di solito temiamo che possa accaderci qualcosa di spiacevole, anche se non sappiamo bene cosa. Ma provare a stare con l’emozione, senza cercare di sfuggirvi, è l’unico modo che abbiamo per scoprire cosa succede davvero.

Iniziamo a sperimentare quando le emozioni non sono troppo intense, così sarà più facile metterle alla prova. Dopo un po’ di pratica, nulla ci vieta di provare anche quando le emozioni sono più forti. Se poi hai bisogno di aiuto, io ci sono.

 

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Le emozioni sono il modo che il nostro organismo ha per segnalarci che c’è qualcosa che sta accadendo dentro o fuori di noi. Si tratta quindi di segnali molto importanti, ma quando le emozioni sono troppo intense corriamo il rischio di farci trascinare verso conseguenze che non sempre sono positive per noi.

emozioni

Le emozioni sono una parte fondamentale della nostra vita interiore. Sono il modo che il nostro organismo ha per segnalarci che sta accadendo qualcosa, positivo o negativo che sia, e che istintivamente ci consente di reagire. Vengono elaborate in maniera rapidissima dai circuiti più primitivi del nostro cervello e per questo tendono ad innescarsi in maniera automatica.

Proprio a causa di questa automaticità, a volte non è facile riconoscerle. Quello che potremmo sentire, quando proviamo un’emozione, sono dei cambiamenti a livello fisiologico e un certo “prurito” ad agire. Ad esempio, quando proviamo rabbia potremmo avvertire una generica attivazione  del nostro corpo così come altri segnali più o meno diversi per ciascuno di noi: mani serrate, spalle tese, un “fuoco” dentro. Allo stesso modo, la felicità si può comunemente associare alle classiche “farfalle nello stomaco”.

Ciò che sentiamo può essere così intenso e totalizzante che facilmente si può credere che si tratti di un qualcosa di assolutamente ingestibile o inevitabile. Quasi una forza inarrestabile che agisce contro la nostra volontà, un qualcosa che è altro da noi e che può fortemente condizionare la nostra vita. Ma è davvero così? Davvero non possiamo fare nulla per gestirle?

Quali sono le emozioni?

Non è semplicissimo riuscire a dare una forma a qualcosa di così intimo e “sfuggente” come le emozioni. Numerosi ricercatori e studiosi hanno elaborato altrettante classificazioni degli stati emotivi, ma sicuramente una delle più importanti è quella elaborata da Paul Ekman, un pioniere dello studio delle emozioni.

Lo psicologo statunitense, dal quale tra l’altro hanno preso spunto  i creatori della serie tv “Lie to me”, distingue le diverse emozioni in primarie e secondarie. Le emozioni primarie hanno la caratteristica di essere innate e comuni a tutti gli esseri umani, sono cioè universali. Le emozioni secondarie sono per di più il frutto della combinazione tra quelle primarie e le variabili legate alle diverse culture.

Le emozioni primarie, quelle che sono alla base del patrimonio emotivo di ognuno di noi, sono la gioia, la tristezza, la paura, la rabbia, il disgusto, la sorpresa e il disprezzo (a proposito di cinematografia, forse avrete notato come le prime cinque siano quelle rappresentate nel film “Inside Out”).

Quelle secondarie, che si originano nel corso dello sviluppo individuale a partire dalla cultura di riferimento, sono più numerose e complesse. Tra queste troviamo l’ansia, l’invidia, la vergogna, la nostalgia, la gelosia, la delusione, il rimorso, la speranza e la rassegnazione.

A cosa servono le emozioni?

Per dirla in parole povere, le emozioni sono il punto di incontro tra noi (l’interno) e il mondo che ci circonda (l’esterno). Sono le reazioni che si manifestano dentro di noi quando accade qualcosa di significativo nel “nostro” mondo. In particolare, nascono dalla interazione tra i nostri bisogni e desideri e le circostanze che possono avere un’influenza su questi.

Ad esempio, se sto camminando per strada e mi imbatto in un tipo sospetto con un coltellaccio in mano, proverò immediatamente paura. Questo perché la circostanza esterna (il tipo col coltellaccio) rappresenta una potenziale minaccia al bisogno fondamentale di sopravvivere.

Oppure, tra il banco carni del supermercato sento una puzza tremenda e provo un forte disgusto. Che faccio, lo compro quel filetto? No, perché istintivamente il mio corpo mi ha segnalato: “Se mangi questo puoi sentirti male, potresti addirittura morire”.

Ovviamente, in quanto reazioni, sono piuttosto rapide e automatiche. Ma va benissimo così! Immaginiamo di dover analizzare ogni singolo dettaglio per capire, ad esempio, se scappare o andare avanti ignorando l’altro umano col coltello, o se mangiare comunque quel pezzo di carne perché sempre di cibo si tratta: ci saremmo già estinti da tempo.

Insomma, le emozioni sono il segnale istintivo che il nostro organismo innesca quando si trova in determinate circostanze che possono avere un impatto significativo su noi stessi e la nostra vita (non necessariamente negativo, la gioia infatti ci segnala che c’è qualcosa di positivo per noi). Che questo segnale sia sempre accurato e ci conduca a scelte funzionali, però, non è sempre detto.

Emozioni = Azioni

La parola emozione viene fatta derivare dal latino ex-movere, letteralmente “muovere fuori”, ovvero smuovere, portare fuori. La chiave, qui, è il verbo muovere. Muoversi significa agire. E alle emozioni, di solito, seguono delle azioni.

Se ho paura, scappo. Se provo disgusto, evito. Se provo rabbia, aggredisco. Agire d’istinto, sull’onda dell’emozione, in alcune circostanze può salvarci la vita, ma altre volte può invece complicarcela.

Immaginiamo di aspettare il nostro turno per un temutissimo esame orale e di provare una forte ansia. Siamo estremamente preoccupati di fare una brutta figura davanti al professore e temiamo le conseguenze che ne potrebbero derivare. Percepiamo, cioè, un pericolo. Istintivamente si tratta di un pericolo molto reale, perché per noi è molto importante essere apprezzati dagli altri, e fare una brutta figura è una cosa che assolutamente non vogliamo.

In una situazione del genere, se l’emozione che proviamo è molto forte (alimentata da credenze e desideri rigidi e altrettanto forti) tendiamo a re-agire allontanandoci dal pericolo. Alziamo i tacchi e, quatti quatti, andiamo via dall’aula. Ben fatto! Anche oggi abbiamo evitato di fare una brutta figura! Certo, manca un esame sul libretto (e la prossima volta non è detto che ci sentiremo abbastanza preparati per affrontarlo senza perdere la faccia), ma almeno le apparenze sono salve!

In questo caso, l’emozione si è tradotta effettivamente in azione. Le conseguenze che ne deriveranno (un altro esame da dare, stress, senso di colpa, e-ora-chi-glielo-dice-ai-miei?) saranno il frutto della reazione istintiva che si è innescata in risposta a ciò che è stato provato. La domanda è: potevano andare diversamente le cose?

Emozioni disfunzionali

Le emozioni possono essere un potente strumento per guidarci tra le vicissitudini della vita. In un certo senso, rappresentano il nostro “angelo custode”. Solo che a volte questo angelo custode è un po’ troppo pedante, per non dire paranoico. Per stare sul sicuro, infatti, tende a sopravvalutare qualunque cosa possa rappresentare un pericolo per la nostra sopravvivenza (o meglio, per ciò che riteniamo essere sopravvivenza).

Capita, allora, che un’emozione sia troppo intensa o dolorosa e che possa prendere il sopravvento sulla ragione facendoci re-agire senza starci troppo a pensare, solo perché l’istinto ci dice che è così che dobbiamo fare.

A volte ci va bene, altre volte ci va decisamente male. Pensando soltanto all’emergenza, infatti, si rischia di perdere la prospettiva del quadro più generale: rispondendo solo alle circostanze immediate, rischiamo di compromettere aspetti molto più importanti della nostra vita. Pensando all’esempio di prima, evitare di sostenere un esame ci tiene al riparo dalla sofferenza di quel momento, ma è nulla rispetto alle ripercussioni che alla lunga potrebbero dipendere da quell’evitamento, soprattutto se si ripete nel tempo.

Così, un’emozione può rivelarsi disfunzionale perché, in ultima analisi, potrebbe portarci a reagire in modi che non ci sono utili e che non fanno il nostro interesse. Se l’emozione non ci consente di pensare con chiarezza e quindi di agire in maniera efficace rispetto ai nostri desideri e obiettivi più importanti, allora potrebbe non essere funzionale ai nostri scopi.

Gestire le emozioni

Per farla breve, le emozioni rappresentano nient’altro che dei segnali. Dei segnali sicuramente importanti, visto che in passato hanno salvato la vita ai nostri progenitori e hanno contributo persino a strutturare le prime società, ma che in certe occasioni, specialmente nell’età moderna dove tutto è più facile ma allo stesso tempo tremendamente più complicato, possono rivelarsi inesatti, se non addirittura dannosi.

Il problema, quindi, non sono le emozioni in sé, ma la lettura che ne facciamo. Ignorarle è quasi impossibile (e non è detto che sia utile), seguirle pedissequamente è sbagliato. Se al solo pensiero dell’esame lasciamo che l’ansia prenda il sopravvento, potremmo leggere lo stesso paragrafo per ore ma non saremo in grado di concentrarci al punto da capirne il significato.

Se però ci prendiamo del tempo per capire cosa ci sta succedendo e quali paure e credenze ci sono dietro a quell’emozione, se cioè ci concediamo la possibilità di ascoltare davvero cosa il nostro istinto ci sta comunicando, allora forse potremmo capire davvero cosa fare in quel momento.

“Ho paura di fallire, questo sì, ma se mi lascio prendere da questa paura al punto da non riuscire nemmeno a studiare, non sarebbe ancora più probabile il fallimento? Cosa posso fare per lenire questa sofferenza? Ma, in fondo, sarebbe davvero così tremendo fallire questo esame? Sarebbe davvero irrimediabile?”

emozioni

Tutto scorre

E nel frattempo, mentre cerchiamo di ascoltarci con apertura e senza giudizio, potremmo anche fare una scoperta interessante: quell’ansia non è più. Adesso, proprio ora, non si tratta più di ansia, ma semplice preoccupazione. Un lieve mormorio interno che ci esorta a fare di più se vogliamo riuscire in quell’esame, piuttosto che un tumulto assordante che, invece di aiutarci, non fa altro che spaventarci, confonderci e bloccarci.

Lottare contro il proprio istinto, contro delle emozioni così intense da sentirle nelle ossa e che sembrano essere parte di noi, è molto difficile. In un certo senso, è lottare contro sé stessi.

Le emozioni sono una grande risorsa. Sono la porta che può condurci al nostro mondo interiore, fatto di sogni, desideri, ma anche di paure. Non bisogna avere paura di quale paesaggio ci troveremo a contemplare, perché è un qualcosa che dentro di noi esiste a prescindere da se lo vediamo o no. Osservarlo, conoscerlo e capirlo può invece fare una grande differenza.

Perché è solo se riusciamo a capire cosa vogliamo e cosa non vogliamo, cosa possiamo e cosa non possiamo, che potremo davvero andare incontro alla nostra felicità.

Se vuoi, sono pronto per accompagnarti lungo la tua strada.

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