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Le emozioni vanno e vengono, ma quando sono negative proprio non ci vanno giù! Ci sono diversi modi con i quali affrontiamo le emozioni, ma non tutti alla fine si rivelano utili o ci proteggono da queste. Vediamo insieme come fare per gestire al meglio le nostre emozioni piuttosto che lasciarci gestire da loro!

gestione delle emozioni

Mettiamola così: a nessuno piace provare emozioni negative. Questo è talmente tanto scontato che tendiamo a dimenticarci completamente di questo aspetto. Ma perché è così importante sottolineare questa ovvietà?

Tutti noi vogliamo provare emozioni positive, come la gioia o la serenità, e facciamo di tutto per ottenerle. Dall’altra parte, tutti noi non vogliamo provare emozioni negative, come la tristezza o la paura, e facciamo di tutto per evitarle. Tutto questo si traduce nel fatto che, quando inevitabilmente ci ritroviamo con delle emozioni negative a bussare alla nostra porta, facciamo di tutto per mandarle via.

Ognuno di noi ha le sue strategie per farlo, ma l’obiettivo di fondo rimane quello: liberarsi delle emozioni sconvenienti. Queste strategie non sono però dei semplici dettagli: il modo in cui proviamo a gestire queste emozioni determina molti dei nostri comportamenti, ma ha anche un’influenza sulle idee che abbiamo su noi stessi, sugli altri e sul mondo che ci circonda, e persino sulle emozioni che proveremo in seguito.

Quando le emozioni bussano alla porta

Esistono ovviamente strategie più o meno evolute, più o meno funzionali, più o meno utili. Ci sono infatti strategie di gestione decisamente “grezze”, come il reagire agli eventi in maniera pressoché automatica e inconsapevole, e altre più raffinate, come ad esempio il rivalutare gli eventi negativi e rispondere ad essi in maniera più consapevole e funzionale.

A me piace pensare che le diverse strategie con le quali cerchiamo di gestire le emozioni indesiderate possano in realtà essere viste come una serie di tappe che possono rivelarci a che punto ci troviamo lungo un percorso di maturità emotiva e psicologica. In parole povere, i modi in cui regoliamo le emozioni possono riflettere il nostro livello di “salute” psicologica.

Uno degli obiettivi più importanti in psicoterapia è di solito proprio quello di promuovere un modo diverso e più maturo – cioè il più possibile adeguato e utile per noi stessi – di rapportarci alle emozioni che vengono a bussare alla nostra porta. Possiamo quindi pensare che esista una specie di “classifica” dei modi in cui vengono gestite le emozioni, e come la psicoterapia possa aiutare a passare da una modalità all’altra, in un percorso che, a partire da strategie non particolarmente utili e funzionali, consenta di sviluppare modi diversi e più psicologicamente maturi di affrontare gli eventi emotivi.

Semplificando, possiamo dire che ci sono 3 modi di approcciarci alle emozioni, descritti nei prossimi paragrafi:

  1. Reazione
  2. Soppressione
  3. Rivalutazione

Ma attenzione, perché potrebbe esserci dell’altro…

1. Reazione

È la modalità più semplice e istintiva, e per questo anche la meno matura. In pratica, tendiamo ad agire come reazione a quello che abbiamo provato. A volte non siamo nemmeno in grado di riconoscerla, l’emozione. La viviamo totalmente ma inconsapevolmente, quasi fossimo in trance.

Così, quando ci arrabbiamo per qualcosa che ci è successo, tendiamo a far un gran casino e a prendercela con tutto e con tutti, urlando, sbraitando e aggredendo ogni cosa sul nostro cammino. Oppure, quando proviamo ansia e sentiamo di essere in pericolo, cerchiamo in tutti i modi di scappare dalla situazione in cui ci troviamo e iniziamo a stare sempre di più all’erta, evitando di ritrovarci nuovamente ad affrontare gli eventi che ci fanno provare quest’emozione.

È chiaro che in questi casi non stiamo assolutamente gestendo le emozioni che proviamo, ma piuttosto sono loro che gestiscono noi. Non ci prendiamo neanche il tempo necessario per capire cosa ci sta succedendo, agiamo e basta. L’obiettivo è liberarsi dall’emozione negativa, costi quel che costi.

2. Soppressione

Questa strategie può essere considerata leggermente più funzionale della reazione, ma solo perché solitamente non prevede conseguenze a breve termine. Sostanzialmente, riconosciamo l’emozione ma cerchiamo in tutti i modi di inibirla. Invece che viverla, la spingiamo dentro.

Se c’è qualcosa che ci fa arrabbiare, proviamo a fare buon viso a cattivo gioco, a ingoiare il rospo mentre magari, dentro di noi, meditiamo vendetta.  Quando invece è l’ansia a bussare alla porta, anche se non scappiamo (subito) dalla situazione, cominciamo a portare attenzione a cosa ci sta succedendo, con l’obiettivo di tenere a freno le nostre possibili reazioni, mentre intanto una gocciolina di sudore scende lungo la fronte…

Di solito, dietro questa modalità si cela una paura delle possibili reazioni alle quali potremmo andare incontro nel caso manifestassimo apertamente cosa proviamo. Reazioni nostre, ma anche quelle degli altri. Il problema è che, tenendo tutto dentro, prima o poi qualcosa dovrà pur uscire… e arriverà il giorno in cui si esplode, in cui si faranno più danni di quanto si era temuto. Mentre, nel frattempo, magari si è già cominciato a farne mettendo in atto comportamenti di tipo passivo-aggressivo (“Ah, non vuoi darmi un passaggio? Bene, vorrà dire che “dimenticherò” di inviarti quel documento…”).

Inoltre, se siamo convinti che soffocando le nostre emozioni gli altri non si accorgeranno di nulla, sbagliamo in partenza. Puoi anche silenziare l’espressione delle emozioni ma, fidati, la maggior parte delle persone “sentiranno” che c’è qualcosa che non va. Tu continuerai a negare, ovviamente, e ovviamente gli altri non ti crederanno. E questo porterà a ulteriore ambiguità, che, in chiave relazionale, non è nient’altro che un invito alle emozioni negative a ricomparire

3. Rivalutazione

Invece che reagire acriticamente o sopprimere preventivamente, c’è un’altra strada, ma che non tutti riescono a praticare da soli: rivalutare quello che ci sta succedendo e solo dopo decidere come rispondere. È decisamente una strategia migliore e più matura rispetto alle precedenti, perché ci consente di essere flessibili e di assumere una prospettiva più equilibrata rispetto alle emozioni che stiamo vivendo.

Quando proviamo rabbia, allora, invece che sbottare o reprimere, ci prendiamo il tempo per capire perché stiamo provando questa emozione, mettiamo in discussione le idee dietro questi perché e l’idea che abbiamo di noi e degli altri, e solo allora, con mente più lucida e una visione delle cose più equilibrata, decidiamo cosa dire e cosa fare. Per l’ansia, come del resto per tutte le altre emozioni, è la stessa cosa: osservare, valutare, mettere in discussione e agire.

Non solo imparare a rivalutare una situazione emotiva ci permette di rispondere in maniera più adeguata, funzionale e più utile per noi stessi, ma anche già soltanto fermarsi a osservare cosa ci succede e perché proviamo questo o quello può di per sé ridurre l’intensità stessa dell’emozione. Insomma, decisamente una buona strategia per riuscire a gestire gli eventi emotivi che inevitabilmente incontreremo per tutto l’arco della nostra vita!

In psicoterapia, imparare a gestire al meglio le emozioni è fondamentale per il proprio benessere psicologico. La psicoterapia a orientamento cognitivo-comportamentale, in particolare, è diretta a sviluppare il più possibile una modalità di gestione delle proprie emozioni che ci consenta di rivalutare cosa ci sta accadendo, così da poter rispondere al meglio e in maniera più funzionale a quanto si presenta nel nostro panorama emotivo.

gestione delle emozioni

Bonus: Accettazione

Ma c’è ancora un’altra modalità di gestione delle emozioni, a prima vista la più assurda e paradossale di tutte… ma, forse, anche la più efficace. Stiamo parlando dell’accettazione, ovvero di un atteggiamento di volontario accoglimento dell’esperienza emotiva, riconoscendo e vivendo pienamente l’emozione, per quanto sgradevole possa essere.

È decisamente un qualcosa di controintuitivo, se consideriamo, come scritto sopra, che la naturale tendenza degli esseri umani è di inseguire le emozioni positive ed evitare ad ogni costo quelle negative! Infatti, non è una strategia che si può “spiegare” o insegnare direttamente (provate a dire a chi è in ansia: “accetta la tua emozione così com’è”), ma piuttosto un traguardo al quale ci si può arrivare o durante un percorso di rivalutazione oppure …per “intuizione”!

Accettare le proprie emozioni, cioè esserne consapevoli senza necessariamente cercare di fare qualcosa per cambiarle, infatti, è una forma di conoscenza che si può acquisire man mano che si pratica con costanza la rivalutazione delle emozioni. È una sorta di effetto collaterale che si manifesta quando, dopo essere riusciti molte volte a gestire le nostre emozioni reinquadrandole e non lasciandole libera di combinare guai, ci rendiamo conto principalmente di due cose:

  1. Le emozioni, come tutti i fenomeni, hanno un inizio e una fine naturale;
  2. Noi non siamo le nostre emozioni né i nostri pensieri.

Ma anche e soprattutto le pratiche di mindfulness, non necessariamente all’interno di una psicoterapia, portano, nel corso del tempo, a sviluppare queste e altre forme di saggezza (come la concentrazione, il non giudizio, la compassione) che hanno come risultato una migliore gestione delle emozioni. Con l’effetto assolutamente paradossale di sperimentare meno e meno intense emozioni negative man mano che si impara ad accettarne la presenza senza reagire. In pratica, il non cercare di regolare le proprie emozioni è forse la migliore strategia di regolazione delle emozioni!

Alla fine del percorso

È chiaro che non è necessario arrivare ad accettare consapevolmente ogni emozione per poterle gestire al meglio. Così come non è detto che una singola strategia sia superiore a tutte le altre e adatta per ogni momento (ogni tanto ci sta pure il reagire impulsivamente o l’ingoiare un rospo bello grosso, l’importante è che non diventi un’abitudine!).

Realisticamente, penso che la migliore capacità di gestione emotiva sia nell’atteggiamento di chi riesce ad accettare come evento naturale la presenza delle proprie emozioni senza spaventarsene più di tanto, nella convinzione che, volendo, ci si può sempre lavorare sopra per rivalutarle e inquadrarle così da poter rispondere nella maniera che ci è più utile.

Essere aperti all’accettare le così come sono, nel bene e nel male, tenendo saldamente nella mente e nel cuore l’idea di poter comunque scegliere come rispondere, è un chiaro segno di una spiccata maturità psicologica.

Sia chiaro, imparare a gestire in questo modo le emozioni rappresenta un punto di arrivo, non un punto di partenza: non è un qualcosa che si “impara” dalla sera alla mattina, che si può leggere in un libro o che può essere imposto da qualche guru-santone. È nient’altro che il frutto di tanto lavoro su noi stessi, un lavoro paziente di intensa e fiduciosa osservazione di chi siamo, di come funzioniamo, di cosa temiamo, di cosa vogliamo. Perché, in fondo, la durata e gli effetti delle emozioni che proviamo non dipende altro che dal modo in cui le accettiamo e da cosa riusciamo a vedere dietro quelle emozioni.

Si, è un viaggio lungo e difficile… ma se accettiamo di provarci, grande sarà la ricompensa.

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Preoccuparsi è normale, a volte persino utile. Quando però la preoccupazione diviene un’attività fine a sé stessa, che non porta a nulla se non a disperarci, l’unica cosa che ci resta da fare è passare all’azione. O accettare l’incertezza.

preoccupazione

Preoccuparsi può sembrare una buona cosa. E, in effetti, in certi casi lo è. Ad esempio, quando le nostre preoccupazioni ci aiutano nel mantenere un buono stato di salute: sottoporsi a screening periodici, seguire una dieta salutare o rivolgersi ad uno psicologo(!) sono tutti esempi di comportamenti motivati da una qualche preoccupazione.

Insomma: potremmo dire che una preoccupazione è “buona” quando ci porta ad agire nel nostro interesse, ovvero a misurare i rischi potenziali di alcune situazioni e prendere provvedimenti per scongiurarli. Preoccuparsi può diventare un problema quando diventa un’attività fine a sé stessa, senza alcuna rilevanza pratica. Cioè un semplice esercizio di pensiero con contenuti ripetitivi, intrusivi, incontrollabili e, soprattutto, decisamente catastrofici.

Preoccuparsi in maniera eccessiva può essere fortemente debilitante. Le preoccupazioni attivano inevitabilmente una normale e funzionale reazione di stress nel nostro organismo, ma quando questa reazione viene sollecitata frequentemente può portare a conseguenze decisamente negative. Inoltre preoccupazioni eccessive possono facilmente portarci a sperimentare vissuti di impotenza e di mancanza di controllo, che, oltre ad essere di per sé spiacevoli, non hanno altro che generare ulteriori preoccupazioni o potenziare quelle che già abbiamo.

Viaggio nelle preoccupazioni

Anna lavora come segretaria in uno studio medico. È una ragazza precisa, puntuale e affidabile. In un giorno qualunque, però, si ritrova alla fermata dell’autobus insieme a molti altri pendolari che aspettano, ormai da molto tempo, un mezzo che non accenna ad arrivare. Già dopo i primi minuti di ritardo comincia ad affacciarsi una prima preoccupazione: “Farò sicuramente tardi… E se il dottore dovesse arrabbiarsi?”

I minuti passano, le persone in attesa aumentano, ma dell’autobus non c’è traccia. Anna cammina su e giù, persa nel filo dei suoi pensieri: “Ci saranno delle persone in attesa di entrare, sicuramente arrabbiate per averle fatte aspettare tutto questo tempo. E se se ne lamentassero con il dottore? Potrebbe arrabbiarsi ancora di più! E se decidesse di licenziarmi?”

Quando finalmente arriva il mezzo, Anna si prepara all’assalto dell’autobus. Sgomitando, riesce a salire a bordo, ma si ritrova stipata tra una moltitudine di persone arrabbiate e infreddolite, qualcuna pure maleodorante. Al suo fianco, un signore di una certa età starnutisce senza sosta. Costui purtroppo ha le mani occupate a reggerlo agli “appositi sostegni”, quindi non può disporle a conchetta per contenere i germi espulsi dal naso e dalla bocca.

Anna vede i germi atterrare dolcemente sui suoi vestiti, sui suoi capelli, sul suo viso. “Che schifo! Ci manca soltanto che mi ammali! Oddio, non voglio ammalarmi! Se dovessi prendermi dei giorni al lavoro… non voglio nemmeno pensarci! Il dottore andrà su tutte le furie! Dopo il ritardo e tutti i disagi che ho causato, sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso!”

Il tragitto verso il lavoro è, ovviamente, costellato da ulteriori ritardi: traffico, lavori in corso, resse e risse ad ogni successiva fermata. Anna ha avuto tutto il tempo di continuare a rimuginare su tutte le preoccupazioni che le sono passate per la testa, ed ormai è praticamente convinta che verrà disprezzata e umiliata dal datore di lavoro e dai pazienti, perderà quindi il lavoro e si troverà senza una lira. E per di più ammalata.

Il rimuginio

In psicologia, la preoccupazione “patologica” viene chiamata rimuginio. Il rimuginio consiste essenzialmente in una modalità di pensiero che presenta le seguenti caratteristiche:

  • Ripetitivo: il pensiero si ripresenta di continuo
  • Negativo: il contenuto del pensiero è incentrato su eventi negativi che potrebbero succedere o che sono già accaduti
  • Incontrollabile: il pensiero sembra non possa essere fermato
  • Astratto: il pensiero non è orientato all’azione, ma solo alla produzione di altri pensieri
  • Assorbente: il pensiero impedisce di concentrarsi su altri pensieri al di fuori di quelli legati alla preoccupazione

Ma a che serve un pensiero di questo tipo? Lo scopo del rimuginio, in ultima analisi, è quello di ridurre l’incertezza. Se ci sentiamo poco capaci di controllare eventi dall’esito incerto, ecco che il rimuginio ci aiuta, seppure in modo perverso, a darci un falso senso di prevedibilità e di controllo.

Questa modalità di pensiero si serve infatti della nostra immaginazione per presentarci diversi scenari possibili (di solito decisamente catastrofici) in modo da poter anticipare e indirettamente controllare un futuro evento temuto (o le conseguenze di un evento passato). E qui si scopre la trappola:

  • se l’evento temuto si verifica (può sempre capitare, ma di solito non in maniera così catastrofica come immaginato), rimuginare si rivela utile perché effettivamente ci ha fatto prevedere cosa sarebbe accaduto (“Te l’avevo detto io!”)
  • se l’evento temuto non si verifica, rimuginare può averci aiutato a prepararci al peggio o a risolvere un problema, o addirittura ha “magicamente” impedito che l’evento si verificasse

Perché è una trappola? Perché, di riffa o di raffa, il rimuginare ha funzionato. E puoi scommetterci che la prossima volta sarà più probabile adottare questa strategia. Che, come la prima volta, continuerà a funzionare. Fin quando non diventerà, inevitabilmente, una delle modalità di fronteggiamento dell’incertezza più efficaci (!?) del tuo repertorio.

Oltre al rafforzamento di questa risposta, però, c’è un altro aspetto che tenderà ad ingigantirsi: la tua percezione di essere insicuro, debole, spaventato e in balia degli eventi. Il che ti renderà ancora più preoccupato di fronte a eventi del cui esito sei incerto o che sono al di fuori del tuo totale controllo.

Insomma, il rimuginio ci illude di poterci fornire una qualche forma di controllo di fronte all’ignoto ma ci mantiene in una condizione di ansia che diventerà via via sempre più invalidante.

Tra palco e realtà

Possiamo quindi immaginare il rimuginio come una versione estremizzata della tipica preoccupazione. Un’importante differenza tra le due è che il rimuginio è una strategia che viene scelta dall’individuo come strategia per risolvere un problema, che però sfugge di mano fino ad essere percepita come incontrollabile.

Di base, però, sia il rimuginio che la “normale” preoccupazione si presentano come catene di pensieri di carattere negativo, ridondanti e orientati all’astratto. Queste catene di pensieri – composte da frasi, immagini, ricordi – finiscono per piazzarsi al centro del palco, mentre noi puntiamo un bel riflettore a illuminarli. A un certo punto, non vediamo che loro. Non sentiamo che loro, sia con la testa che con il cuore.

Noi, ignari spettatori, pendiamo dalle loro labbra e, in men che non si dica, il veleno è entrato in circolo. Ma se invece che semplici spettatori fossimo dei registi o degli sceneggiatori, cosa noteremmo in realtà? Che questi lunghi e tormentati monologhi interiori sono quasi sempre poco credibili. Insomma, suscitano un’emozione nello spettatore, ma di per sé non hanno molto senso.

I pensieri che accompagnano le preoccupazioni, insomma, risultano piuttosto artificiosi a ben guardare. Questo perché:

  • Non sono importanti: nella prospettiva generale della propria vita, quanto può essere importante il prendersi un raffreddore o fare tardi un giorno al lavoro? Quante cose ci sono successe in passato che lì per lì ci sembravano immense e che ora nemmeno ricordiamo? Si tratta davvero di eventi significativi?
  • Non sono probabili: l’immaginare scenari catastrofici – e le preoccupazioni vanno tutte in quella direzione – non li rende necessariamente probabili. Vabbè che la realta a volta supera la fantasia, ma quanto è probabile che Anna venga licenziata o trattata male perché ha fatto ritardo? Quanto è probabile che finisca a elemosinare a causa di circostanze totalmente al di fuori del suo controllo?

Occuparsi del preoccuparsi

Le argomentazioni che ci presentano le preoccupazioni sono, quindi, piuttosto deboli. Basta un po’ di attenzione ai contenuti e le immense costruzioni che abbiamo immaginato finiscono per dissolversi. Quando sei preoccupato per qualcosa, quindi, puoi provare a porti alcune domande per “tornare” alla realtà:

  • Ammesso che ciò che temo dovesse succedere davvero, qual è il peggior esito possibile? Qual è l’esito più realistico?
  • Ammesso che ciò che temo dovesse succedere davvero, quanto è probabile che fra una o due settimane lo ricordi ancora?
  • Quanto mi è utile, in questo momento, concentrarmi sull’immaginare possibili scenari negativi? Cosa posso fare in questo momento per scongiurare le conseguenze temute? E se non c’è niente che io possa fare, a cosa mi serve perdermi in questi pensieri?

Se hai difficoltà a rispondere a queste domande è possibile che tu sia più dalle parti del rimuginio che della “semplice” preoccupazione. Forse ritieni il preoccuparsi una strategia utile e funzionale, ovvero hai investito le tue preoccupazioni di una rilevanza e di un valore che semplicemente non meritano. In questo caso, il mio consiglio è di cercare una guida e un supporto professionale per uscire da questa trappola, che ha come ultimo effetto soltanto il prolungare la tua sofferenza.

Esistono però anche delle preoccupazioni “pratiche” e maggiormente orientate alla realtà. In questi casi lo scopo non sarà quello di sbugiardare i pensieri negati, ma di trovare delle soluzioni ai problemi per poi lasciar andare le preoccupazioni. Tutto quello che devi fare è agire:

  • Se puoi fare qualcosa, fallo. Considera le varie opzioni, prepara un piano di azione e mettilo in pratica.
  • Se puoi farlo adesso, fallo. Se non puoi farlo adesso aspetta il momento di poterlo fare, ma nel frattempo smetti di angustiarti rimuginando sulle tue preoccupazioni: sposta la tua attenzione verso qualcosa di piacevole o di utile.
  • Se devi necessariamente affrontare qualcosa, non evitarla. Se hai una scadenza da rispettare non ha alcun senso preoccuparsene per giorni: non ti fa bene né ti porta a risolvere il problema. La soluzione, anche qui, è solo una: agire.
  • Se non puoi far nulla, non ha senso preoccuparsi.

preoccupazione

Preoccup-azioni!

Preoccuparsi è normale, fa parte del gioco. Il problema è quando il preoccuparsi non porta a nulla di concreto, se non a una concreta sofferenza.

Spesso dimentichiamo che abbiamo più potere di quanto pensiamo. Ci facciamo schiacciare da prospettive immaginate di disastri incombenti e inevitabili, ma il più delle volte – per fortuna – si tratta sono di innocue allucinazioni.

Perdiamo di vista il fatto che ciò che immaginiamo, le fantasie catastrofiche che ci proiettiamo in testa, anche se incredibilmente coinvolgenti, non sono nulla di reale. Non esistono. Esiste solo la possibilità di prendere in mano la propria vita e affrontare, concretamente, ciò che ci fa stare male.

Invece che perderci in sceneggiati immaginari, agiamo. Perché c’è sempre qualcosa che possiamo fare. Fosse anche l’accettare di non poter fare nulla.

Che non sia questa la chiave per la liberazione?

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