Spesso, quando qualcosa ci va male o ci troviamo di fronte a un fallimento importante, è molto facile darsi addosso e trattarsi male. Infatti è più facile essere comprensivi con chi vogliamo bene piuttosto che con sé stessi. Ma davvero meritiamo di trattarci così, proprio quando più avremmo bisogno di conforto e rassicurazione?

amare se stessi

Uno degli insegnamenti più importanti della cristianità è quello di amare gli altri, proprio come si fa con sé stessi. In realtà l’indicazione non fa riferimento è chi è già vicino (prossimo) a noi, ma riguarda soprattutto chi è più lontano da noi. Il nostro vicino che non ci fa dormire alle due del pomeriggio, il collega antipatico che proprio non ci va giù. Insomma i nostri nemici, piccoli o grandi che siano.

Di questi tempi non è facile. Anzi, direi che sta diventando sempre più difficile riuscire a mettere da parte pregiudizi e differenze per amare chi è così lontano dal nostro cuore. Ma quantomeno quando si tratta delle persone che ci sono vicine, per fortuna, siamo sempre pronti e disponibili a mostrare tutto il nostro affetto e la nostra comprensione.

Nella versione ribaltata del titolo («Amerai te stesso come il prossimo tuo»), il riferimento quindi è a chi davvero è più prossimo a noi: i nostri familiari, i nostri amici, le persone che ci sono più care.  Insomma, le persone per le quali ci siamo sempre, nonostante tutto. Coloro i quali, quando sono nei guai o qualcosa va loro male, riceveranno sempre il nostro appoggio. Incondizionatamente.

Ma non era il contrario?

Già, perché ribaltare l’insegnamento originale? Semplicemente, perché tendiamo ad amare più chi c’è vicino che noi stessi. Niente di male ad amare gli altri, ma voler bene anche a sé stessi non è poi una cattiva idea.

Di cosa parlo? Pensaci bene: quando un amico commette un errore, anche importante, cosa gli dici? Generalmente, si tende a consolarlo, a dirgli che può capitare di sbagliare, che le cose andranno meglio e via discorrendo.

Ora immagina che l’errore l’abbia commesso tu. Il tuo amico, da parte sua, probabilmente ti esprimerà la sua vicinanza e la sua solidarietà. Proprio come avresti fatto tu a parti invertite. Ma cosa diresti a te stesso in una situazione del genere?

A meno che tu non sia un narcisista ortodosso, con l’idea di essere perfetto e infallibile, non è insolito che vengano fuori giudizi di questo tipo: “Sei il solito buono a nulla! Sei una frana, un disastro! Hai fallito anche questa volta! Sei un perdente!”

Prova a chiederti: «sono più gentile con gli altri o con me stesso»?

Non c’è peggior giudice di chi giudica se stesso

La tendenza, insomma, è quella di giudicarsi aspramente quando ci troviamo di fronte a un fallimento o a qualcosa che non va. Ci si può sentire inadeguati, sbagliati, non meritevoli di altro destino diverso dalla sofferenza, proprio a causa del modo in cui ci si percepisce.

In realtà, la cosa che più colpisce, più che l’eccesso di autocritica, è la disparità di trattamento che ci riserviamo in situazioni del genere. Perché se lo stesso errore o fallimento l’avesse fatto chi più c’è caro, mai penseremmo di vomitargli addosso tutte le cattiverie e le parolacce che riserviamo a noi stessi.

Eppure, quando si tratta di noi stessi, non ce ne facciamo passare liscia una.

Oltre al danno, la beffa

Insomma, quando ci troviamo davanti a qualcosa che non è andata, che sia un “grande fallimento” o un banale errore di valutazione, invece che consolarci e farci forza, preferiamo prenderci a bastonate. E pensare che sarebbero proprio questi i momenti in cui più avremmo bisogno di starci vicini. Esattamente come faremmo col nostro prossimo.

Quindi non solo soffriamo perché qualcosa c’è andata male, stiamo anche peggio per quello che ci diciamo e per la brutalità con la quale ci diamo addosso. In questo modo, un piccolo errore potrà sembrarci ancora più grande, fino a riempire interamente la nostra visuale.

Rischiando così di non cogliere le opportunità di cercare una soluzione, di analizzare cosa non è andato e cosa si poteva fare meglio. Occupando cioè qualunque spazio per il miglioramento.

amare se stessi

Sbagliando si …è umani

Una cosa molto banale ma che spesso tendiamo a dimenticare, soprattutto quando ha a che fare con noi stessi, è che tutti fanno errori. Tutti, nessuno escluso.

Se è dunque una condizione umana ed essendo noi umani (giusto?), perché mai dovremmo ritenerci infallibili e non soggetti a errore? E nel momento in cui riconosciamo di poter sbagliare, perché darci addosso quando ci capita di farlo?

Quanto ci è utile massacrarci e insultarci quando stiamo già soffrendo per un errore, un fallimento, un qualcosa che è andato storto?

A tutti capita di avere momenti difficili e di grande sofferenza, momenti in cui dubitiamo di noi stessi, delle nostre scelte, dei nostri modi di fare e di non-fare. Ben venga una messa in discussione di noi stessi, ma solo se è improntata al migliorarsi e non al fustigarsi inutilmente. E che sia fatta con gentilezza e con rispetto: lo stesso trattamento che riserviamo agli altri e che, troppo spesso, tendiamo a non applicare quando si tratta di noi stessi.

Amarsi: più facile a dirsi che a farsi

Non è facile, purtroppo, riuscire ad essere gentili e rispettosi verso sé stessi. Forse, presi dai sensi di colpa e dall’autobiasimo, non riusciamo ad andare oltre il nostro errore, trascurando una questione fondamentale: noi stiamo soffrendo. Come possiamo ignorare questo fatto?

Nonostante la nostra prontezza nel rivolgere la nostra compassione verso chi ci è più vicino, non riusciamo a volgere quella stessa compassione verso il nostro interno. Quello di cui avremmo bisogno, quando le cose si mettono male, è soltanto fermarci, ascoltarci, capirci, abbracciarci, consolarci.  Perché stiamo male, e di questo si ha bisogno quando si sta male.

Per farlo, occorre andare oltre il solito modo di vedere noi stessi e riconoscere che anche noi, come tutti, possiamo fallire. E magari non limitarci a vedere soltanto il tremendo errore commesso, il bruciante fallimento a cui siamo andati incontro, la stoltezza dietro alcune nostre decisioni. Vediamo anche noi stessi, il dolore che proviamo.

E troviamo il coraggio di perdonarci, di sostenerci, di incoraggiarci. Di aiutarci.

Di amarci, così come siamo. Perché tutti –proprio tutti- sono degni di amore. Noi per primi.

 

Allora, sei più gentile con gli altri o con te stesso? Cosa ti dici quando sbagli o quando ti trovi di fronte a un fallimento? Ti comporti allo stesso modo se l’errore è di qualcuno che ti è vicino? Riesci a perdonarti in queste situazioni o preferisci fustigarti senza pietà? Lascia un commento, se ti va!

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Dopo aver visto cosa succede durante gli attacchi di panico, questa volta esploriamo i meccanismi che non consentono alla persona di uscire dalla trappola del panico, i cosiddetti “fattori di mantenimento”

In un precedente articolo abbiamo visto cosa succede durante gli attacchi di panico, in particolare abbiamo esaminato il fenomeno del circolo vizioso del panico: una serie di eventi e manifestazioni fisiche e cognitive che si potenziano a vicenda e che comportano elevati livelli di ansia, fino ad arrivare all’attacco di panico vero e proprio.

Secondo il modello del circolo vizioso, gli attacchi di panico sono dunque il risultato di interpretazioni catastrofiche di eventi fisici o mentali che la persona valuta come segnali di pericolo. Una lettura di questo tipo innesca una serie di valutazioni concatenate che tendono a interpretare sensazioni più o meno insolite come segni evidenti di una catastrofe in atto. Sostanzialmente, un falso allarme con implicazioni molto reali: livelli di ansia alle stelle e notevole disagio.

Nella “puntata precedente” abbiamo osservato cosa succede nel corso di un attacco di panico concentrandoci in particolare sugli effetti dell’interpretazione errata dei segni fisici e cognitivi all’inizio e durante un attacco di panico, lasciando però alcune domande aperte. Con questo post cercheremo di rispondere ad almeno due di queste, in particolare:

  • Perché la persona ha continuato a manifestare attacchi di panico anche dopo? O meglio: perché ogni volta si attiva il circolo vizioso?
  • C’è qualcosa che la persona fa o non fa che la rende più vulnerabile agli attacchi di panico?

Fattori di mantenimento del panico

Il circolo vizioso è solo una parte di ciò che accade durante un attacco di panico. A dirla tutta, quello che nell’articolo precedente è stato presentato come “il circolo vizioso del panico” è solo la punta dell’iceberg dell’intero processo alla base degli attacchi di panico. Gli elementi che abbiamo considerato – i sintomi fisici e cognitivi, le emozioni e le interpretazioni, forniscono una spiegazione di come si arriva ad una manifestazione molto elevata di ansia, cioè al panico. Ma non è l’unico meccanismo che può spiegare la complessità del fenomeno.

Altri elementi importanti da considerare sono i cosiddetti fattori di mantenimento, così chiamati perché sono responsabili del mantenimento del problema. In questo caso stiamo parlando del panico, ma in realtà questi fattori sono essenziali nella comprensione di qualunque tipologia di problematica psicologica. In sostanza, i fattori di mantenimento sono la risposta alla domanda: “perché continuo a fare così?”.

Sulla scia del modello di Clark del circolo vizioso, ecco i principali meccanismi psicologici responsabili del mantenimento della sindrome da panico:

  • Attenzione selettiva
  • Comportamenti protettivi
  • Evitamento

È bene ricordare che esistono ovviamente altri fattori, assolutamente personali e unici, che non consentono alla persona di uscire dalla “trappola” del panico. Questi tre meccanismi, tuttavia, sono rintracciabili in tutti coloro che soffrono di attacchi di panico e fungono da base per la comprensione del ciclo di mantenimento di questo particolare problema.

L’attenzione selettiva

In generale, nei disturbi d’ansia c’è sempre qualcosa che temiamo fortemente e che, in seguito a processi di tipo interpretativo, comporta un’attivazione psicofisiologica che viene poi da noi etichettata come “ansia”. Ora, ipotizzando di avere forte paura di una cosa, come ci comporteremmo nel momento in cui il nostro ambiente – esterno o interno – cambia? Molto semplicemente, ci mettiamo in guardia rispetto al pericolo e cerchiamo attivamente di individuarlo nel nuovo contesto. Perché se lo vediamo possiamo prendere provvedimenti efficaci per evitare le conseguenze temute.

L’attenzione selettiva, dunque, consiste nel prestare attenzione in maniera specifica (“selettiva”) ai segnali che tendiamo ad associare a un presunto pericolo. Nel caso del panico, l’attenzione selettiva è rivolta in gran parte ai fenomeni fisici che avvengono nel nostro corpo. Quando la nostra amica Chiara sa di dover uscire, automaticamente comincia a portare la sua attenzione in maniera selettiva sulle sensazioni corporee, focalizzandosi quasi esclusivamente sul proprio corpo (ma non solo: i pensieri catastrofici relativi a cosa potrà accadere nella situazione temuta sono sempre dietro l’angolo).

Cosa succede nel momento in cui l’attenzione è posta esclusivamente su un oggetto? Oltre a non riuscire a vedere nient’altro, accade anche un’altra cosa: si abbassa la soglia di percezione di ciò che si sta osservando. In altre parole, diventa molto più facile individuare le sensazioni che si stanno ricercando. E non solo, tende anche ad aumentare l’intensità di queste sensazioni. In sostanza: le notiamo prima e ci sembrano anche più forti, proprio perché le si stanno attivamente cercando. Il paradosso è che si tratta delle stesse sensazioni che tendiamo a interpretare come segni di una catastrofe in atto.

Questo meccanismo, dunque, comporta automaticamente una predisposizione al verificarsi del circolo vizioso del panico. Ecco perché è così facile “ricascarci” ogni volta. Insomma, come si suol dire: “chi cerca …trova!”

I comportamenti protettivi

Cosa fa Chiara quando ha un attacco di panico? O meglio, cosa fa per proteggersi dal pericolo imminente? In una situazione di panico, Chiara teme che possa avere un attacco cardiaco, e poiché non vuole assolutamente che ciò accada (e come darle torto?), mette in atto delle strategie che ritiene possano aiutarla a tornare a un battito cardiaco “normale”.

Innanzitutto smette di fare qualunque cosa stia facendo, cerca di sedersi e di respirare profondamente per cercare di rilassarsi. Apparentemente sembrano comportamenti innocui e non si andrebbe mai a pensare che possano in realtà contribuire a mantenere il suo problema. Ma in realtà è proprio questo che fanno: non permettono a Chiara di uscire dal circolo vizioso.

Infatti, i cosiddetti comportamenti protettivi, ovvero quei comportamenti che la persona mette in atto per evitare le conseguenze temute del panico, sono in realtà controproducenti, e questo per due ragioni in particolare. La prima è che impediscono alla persona di “disconfermare” le interpretazioni errate, la seconda è che possono addirittura intensificare la sintomatologia fisica.

Impediscono la disconferma per un motivo molto semplice: quando funzionano, diventano la (falsa) prova che l’effetto negativo temuto non c’è stato solo perché si sono messi in atto dei comportamenti per evitarlo. Vale a dire: “l’attacco cardiaco non è avvenuto perché sono riuscita a calmare il cuore”. Così, però, Chiara non saprà mai che in realtà l’attacco cardiaco comunque non si sarebbe verificato (perché nel suo caso non c’è alcun rischio concreto in tal senso), col risultato che ogni volta dovrà ripetere lo stesso “rituale” comportamentale per scongiurare il pericolo. E non è detto che le andrà sempre bene.

L’altro inconveniente dei comportamenti protettivi, infatti, è che in alcuni casi possono persino peggiorare la situazione. Prendiamo, ad esempio, il respirare profondamente per “calmarsi”: cercare di controllare il proprio respiro può portare all’emersione di sintomi fisici legati all’iperventilazione che possono costituire la base per ulteriori interpretazioni catastrofiche relative al manifestarsi o all’intensificarsi di sensazioni sgradevoli. Dalla padella alla brace: i sintomi si intensificano, il circolo riacquisisce vigore e l’ansia urla ancora più forte.

L’evitamento

Come abbiamo visto, la messa in atto di comportamenti protettivi può impedire la disconferma diretta della pericolosità di un certo evento. In altre parole, ciò che ci aiuta in quella situazione ci nasconde una verità fondamentale: ciò che temiamo in realtà non può avvenire.

La manovra più evidente di disconferma delle conseguenze temute è l’evitamento, cioè l’evitare di infilarsi in quelle situazioni che noi associamo al panico. Nel caso di Chiara, evitare i luoghi in cui ha sperimentato gli attacchi di panico. Il funzionamento è tanto semplice quanto letale: se ho paura di una cosa, la evito.

A prima vista sembra una buona soluzione, e per di più perfettamente logica: perché mai dovrei espormi a una situazione che temo? La evito e non sperimento più quella brutta cosa chiamata ansia! All’inizio è una modalità che sembra funzionare molto bene, perché ci consente di stare alla larga dal panico, ma l’ansia è subdola, e non si accontenta di una sola situazione…

Se siamo rimasti scottati da un episodio ne avremo comunque paura. Dentro di noi, l’esperienza drammatica del panico resta viva, anche se, come nel caso di Chiara, non dovessimo più andare al centro commerciale. Col tempo, però, potremmo iniziare ad avvertire quegli stessi sintomi fisici o mentali anche in situazioni differenti, e questo ci porta pian piano ad evitare anche queste nuove situazioni. A lungo andare, sempre più contesti risulteranno “contaminati” dall’ansia, e sempre di più saranno i luoghi da evitare. Fin quando non si arriva al punto, drammatico, di non poter più uscire di casa. Perché nessun luogo è sicuro.

L’evitamento, così come la fuga, cioè la controparte comportamentale che si manifesta durante un attacco di panico, a breve termine ci preservano dal provare ansia, ma a medio-lungo termine ci intrappolano sempre di più. Evitare una situazione (interna o esterna) o scappare da essa, non ci consente, in sostanza, di comprendere che l’ansia è solo un’emozione, che non comporta alcuna catastrofe. Così facendo, contribuiamo a tenere in vita lo spauracchio del panico, sviluppando una sempre più forte “paura della paura”.

attacchi di panico

Uscire dal labirinto

Gli attacchi di panico non dipendono soltanto dal meccanismo del circolo vizioso, che comunque resta fondamentale per capire perché si arriva a sperimentare livelli così elevati di ansia. I fattori di mantenimento sono un altro tassello indispensabile per comprendere gli attacchi di panico, e in questo articolo abbiamo visto come questi elementi contribuiscono a strutturare questo problema.

Come sempre, ritengo necessario specificare che lo scopo di questo post non è presentare una ricetta che funzioni per tutti, semplicemente perché questo non è possibile. Ciascuno di noi è diverso, e non esiste un disturbo di panico uguale all’altro, anche se degli elementi in comune si possono sempre individuare. È preferibile dunque parlare di “modello” del panico, inteso come modalità generale di funzionamento.

A partire da questo modello, però, c’è sempre la possibilità di comprendere in dettaglio le proprie personali manifestazioni del panico. E una volta comprese, è possibile poterle poi affrontare in maniera efficace, smontando, uno ad uno, tutti i meccanismi che ci tengono intrappolati all’incubo del panico.

Farlo da soli però non è facile, e per riuscire davvero a sconfiggere il panico spesso c’è bisogno dell’aiuto di un professionista. Perché, come successe a Dedalo, il più famoso progettista di labirinti, non è detto che chi si è costruito una prigione sappia poi come evaderne.

Per questo, se hai voglia di parlare con me rispetto a questo o a un altro problema, ricorda che io ci sono. E ricorda che l’ansia, in tutte le sue forme, si può sempre superare.

 

Cosa ne pensi dei fattori che “tengono in vita” gli attacchi di panico? Avevi mai pensato a come dei comportamenti che in apparenza sembrano aiutarci in realtà finiscono per intrappolarci sempre di più? Se hai domande, dubbi o curiosità lascia pure un commento, non vedo l’ora di parlarne con te!

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Riconoscere e capire cosa proviamo e come reagiamo alle situazioni è la base per poter cambiare. Per farlo, bisogna imparare a guardarsi dentro e osservare cosa ci accade quando siamo in contatto con noi stessi o con gli altri. Vediamo insieme alcune strategie per cominciare a osservare i propri pensieri, il primo passo per conoscersi davvero.

pensieri

Qualche giorno fa, una mia amica e collega mi stava raccontando di come avesse conosciuto una persona molto interessante che le aveva fatto sentire, dopo tanto tempo, le famose “farfalle nello stomaco”. Mi ha anche raccontato di come si fosse trovata spesso a fantasticare di un possibile futuro con lui, e di come, inevitabilmente, queste fantasie finissero sempre male!

Solitamente cominciavano con belle scene di loro che passeggiano sul lungomare, cene a lume di candela, pargoli che scorrazzano di qua e di là… e alla fine inevitabilmente si rivedeva triste e sola, di nuovo single dopo anni felici trascorsi con lui, che l’aveva lasciata perché ormai diventata brutta e noiosa.

Da bravi psicologi, ovviamente, ci siamo confrontati sul perché di questi finali drammatici a seguito di immagini ricche di amore e felicità (ma di che parlano ‘sti psicologi??), e la risposta è arrivata immediatamente: sono il riflesso delle sue paure. In particolare, la paura di essere abbandonata perché non meritevole di amore.

La mia amica era già ben consapevole di questa sua paura sotterranea, infatti una volta emersa non c’è rimasta male più di tanto. Sa benissimo che quello è un suo punto debole ed è in grado sia di vedere i fenomeni mentali che derivano da questa sua paura sia di contrastarli non facendosi coinvolgere emotivamente da queste fantasie. Un’altra stranezza da psicologi!

Pensieri fuori luogo

In letteratura esistono diversi modi per definire quei pensieri che hanno un effetto particolarmente disturbante rispetto alle emozioni che proviamo e ai nostri comportamenti: pensieri irrazionali, pensieri disfunzionali, pensieri inadeguati… In questo caso mi è venuto spontaneo chiamarli “pensieri fuori luogo” perché, in effetti, in quel momento davvero non avevano nulla a che fare con le fantasie di amore e felicità della mia amica.

E anche la reazione che hanno immediatamente scatenato era fuori luogo: un’ombra di tristezza su un dipinto gioioso e luminoso. Fortuna che, essendo consapevole del processo, la mia collega non s’è lasciata “agganciare all’amo” da questi pensieri e la tristezza è stata solo una nuvola passeggera.

La fortuna è che lei è ben consapevole di questi fenomeni e di come gestirli. Ma la maggior parte delle persone non lo è e spesso se ne lascia coinvolgere. E non sto parlando soltanto di quei pensieri “fuori luogo” che sembrano completamente estranei alle fantasie del momento, lo stesso discorso vale per tutti quegli eventi della mente che, in un modo o nell’altro, hanno un effetto sul nostro umore e sul nostro modo di comportarci. Siano essi pensieri, immagini, fantasie, stimoli interni o esterni.

La mente scimmia

La nostra mente saltella di qua e di là, è un incessante flusso di parole, immagini, sensazioni che non si ferma mai. In alcune tradizioni buddhiste viene definita la “mente scimmia”, proprio perché si lancia senza sosta da un ramo all’altro, un’immagine che secondo me rende benissimo l’idea. Pertanto, è difficile riuscire a “fermare” la nostra scimmia interiore e guardarla bene in faccia.

Spesso non ci accorgiamo nemmeno di tutto questo girovagare della nostra mente, perché la maggior parte del tempo siamo troppo occupati a “vivere” la nostra vita e non ci riesce quasi mai di fermarci un attimo per osservare cosa accade dentro di noi. Di passare cioè dal ruolo di attore a quello di spettatore.

Cioè che succede, quindi, è che ci troviamo a “subire” quello che la nostra mente ci propone, senza nemmeno essere consapevoli di qual è stata la molla che ci ha fatto scattare una certa emozione o un qualunque altro tipo di reazione. Senza alcuna capacità di osservazione, restiamo in balìa di ciò che i nostri bisogni più profondi, i nostri abituali modi di fare e di vedere la realtà ci impongono automaticamente. A-criticamente.

Osservare i pensieri

Di per sé, osservare la propria mente al lavoro non è una cosa complicata. In realtà è davvero un’attività molto semplice, anche se alle prime può sembrare un compito arduo. Questo perché, come dicevo prima, non siamo abituati a farlo e non abbiamo alcune idea di come si fa.

Ci sono diversi modi per imparare l’arte dell’autosservazione, ciascuno con le sue metodologie e le sue finalità. In particolare, secondo me, risultano molto utili le tecniche proprie della mindfulness (o meditazione di consapevolezza) e della psicoterapia cognitiva. Entrambe ovviamente richiederebbero una trattazione molto ampia e particolareggiata, perciò qui mi limiterò a fare una brevissima sintesi di ognuna di queste “strategie” per imparare a osservare i propri pensieri.

  • Nella pratica della mindfulness, per osservare davvero i pensieri abbiamo bisogno di due componenti: la concentrazione e la consapevolezza. Semplificando, possiamo dire che la concentrazione serve a predisporci all’osservazione, mentre con la consapevolezza possiamo osservare i pensieri (le immagini, le fantasie, eccetera) per quello che realmente sono: eventi mentali con un inizio, uno sviluppo e una fine. Con la giusta dose di concentrazione e consapevolezza, diventa sempre più facile riuscire a vedere questi fenomeni e osservarli da una prospettiva diversa, così da riuscire a notare anche gli effetti che questi eventi mentali hanno sul nostro modo di emozionarci e di agire.
  • Con le tecniche di automonitoraggio e autosservazione proprie della psicoterapia cognitivo comportamentale, spesso può essere utile iniziare la propria osservazione a partire dalle emozioni che proviamo, per poi andare a ritroso e scoprire i pensieri che le hanno determinate. Ad esempio, quando ci sentiamo tristi, possiamo fermarci un attimo e cercare di andare con la mente a quali pensieri hanno preceduto questa emozione. Se lo facciamo ogni volta che sentiamo un’emozione negativa, poco alla volta impariamo ad essere maggiormente consapevoli dei pensieri che ci sono dietro, così da riconoscerli per tempo ed eventualmente affrontarli con le giuste tecniche. Così da non restare invischiati in reazioni emotive e comportamentali che possono farci del male.

pensieri

La punta dell’iceberg

Quella appena presentata è ovviamente una sintesi estrema di due strategie di autosservazione molto potenti che richiedono pratica, tempo, pazienza e costanza per essere applicate al meglio. In ogni caso non si tratta di un’impresa titanica, ed entrambi i percorsi possono essere intrapresi da chiunque; non è richiesto alcun prerequisito specifico, se non un’adeguata motivazione e un approccio equilibrato al fenomeno.

È anche vero, però, che i pensieri che possiamo più facilmente osservare sono spesso “superficiali” e non necessariamente rendono conto di tutto ciò che c’è in profondità. Inizialmente, quindi, saremo in grado di vedere solo la cosiddetta “punta dell’iceberg”. Per andare più in profondità è più utile rivolgersi a un esperto per imparare “come osservare” ciò che davvero ci passa per la testa.

Non è così semplice fare ciò che la mia amica ha fatto: partire da un’immagine e riconoscere i paesaggi del proprio mondo interiore. Ma la buona notizia è che se c’è riuscita lei, possono riuscirci tutti. Basta solo sapere cosa e dove guardare.

Gestire i pensieri

Osservare i pensieri è semplice ma allo stesso tempo difficile, ma solo perché la nostra mente scimmia non è addestrata a farlo. Gestire i pensieri, quello è un altro paio di maniche.

Con questo non voglio dire che non si possa fare, perché in realtà è più che possibile (anzi, direi che anche è consigliato farlo!) ma si tratta di un livello superiore che richiede certamente un’attenzione diversa e, spesso, l’aiuto di un professionista che possa guidarci alla scoperta del nostro mondo interiore.

Nel momento in cui ci fermiamo a osservare davvero, infatti, potremmo accorgerci di alcune cose che potrebbero anche farci provare emozioni particolarmente spiacevoli. Prendendo l’esempio della mia amica, arrivare a vedere chiaramente le nostre paure, come quella di essere soli e abbandonati a sé stessi, può essere un’esperienza disarmante e mortificante. Ma se si impara a farlo nel modo giusto, vedendo ciò che temiamo come una semplice manifestazione dei nostri bisogni, possiamo alla fine capire cosa possiamo realmente fare per soddisfarli, nella maniera migliore possibile e nel rispetto della propria natura.

Guardare in faccia le proprie paure non è per nulla facile. Soprattutto se abbiamo paura di ciò che possiamo trovare. Ma non è il guardare in faccia le proprie paure che fa più male, è ignorarle che ci fa davvero danno. Perché se non siamo consapevoli di ciò che ci accade, di ciò che proviamo, di ciò che facciamo, saremo sempre in balìa degli eventi.

Lasciandoci trascinare dalle onde non andremo mai dove vorremmo davvero andare. Solo imparando a governare la nave possiamo giungere alla serenità e al benessere. E imparare a osservarci è il primo passo verso la felicità.

 

Esercizio! Prova a osservarti, appena te la senti: appena noti un’emozione, fermati un attimo e porta la tua attenzione ai pensieri. Cosa hai pensato un istante prima di sentirti così? A quel pensiero ne sono seguiti altri? Cosa dicevano? Oppure non c’erano pensieri, ma solo immagini? Cosa hai visto?
Se ti va, fammi sapere come è andata lasciando un commento. Sono curioso di sapere cosa ti passa per la testa!

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Dell’ansia se ne parla sempre di più, e questo è certamente un bene. A volte però capita di sentire o leggere alcune affermazioni che non sono esattamente corrette o che possono addirittura rivelarsi palesemente false se non addirittura pericolose. In questo post andremo ad analizzarne alcune, con la speranza di svelare qualche pregiudizio relativo all’ansia e a chi ne soffre.

ansia

Nonostante negli ultimi anni sia aumentata la sensibilità rispetto ad alcune problematiche psicologiche come l’ansia, nel nostro abituale modo di pensare a questa condizione restano ancora dei pregiudizi sull’argomento, in particolare rispetto a cosa significhi essere ansiosi, sul come gestire questa emozione e sul come relazionarsi verso chi ne soffre.

In questo post ne ho elencati 5, ma se avete voglia di contribuire alla discussione con altre “opinioni” sull’ansia sarò lieto di parlarne assieme voi! Per il momento non resta che augurarvi una buona lettura!

1) Le persone con ansia sono deboli

Molte persone pensano che soffrire d’ansia significa essere deboli o paurosi. Certo, l’origine di alcune manifestazioni ansiose potrebbe risiedere in un qualche tipo di paura, ma questo non è un buon motivo per etichettare una persona nella sua globalità come “paurosa”. Questo pregiudizio è vivo specialmente nelle persone che soffrono di ansia, che tendono a giudicarsi negativamente per il solo fatto di avere un problema legato all’ansia.

Ma avere una (o più) paure non ci rende paurosi. Non riuscire a reagire con vigore in una (o più) situazioni non ci rende deboli. Allo stesso modo, una persona non può essere “cattiva” perché si è comportata male in una certa situazione, così come non può essere interamente buona. In generale, quindi, bisognerebbe andarci piano con gli aggettivi (inadeguato, stupido, diverso, strano…) quando li si associa ad una persona: si corre il rischio di etichettare se stessi (e gli altri), piuttosto che un comportamento specifico.

Di questo passo, oltre che l’ansia, potresti trovarti ad affrontare un’altra brutta bestia.

2) “Sono ansioso, non posso farci niente”

Stesso discorso di sopra. Tu non sei ansioso. Come puoi essere un’emozione? Basta pensare a questo: c’è mai stata una situazione in cui non ti sei sentito in ansia? Penso proprio di sì, e già questo ci dice che non puoi essere ansioso.

Quello che è sicuro è che sei un essere umano, con i tuoi presunti pregi e difetti. La verità è che in alcune situazioni provi ansia, in altre no. Non ti è utile (oltre che non è corretto) identificarti con l’ansia, soprattutto se pensi di volerla affrontare: come potresti sconfiggere qualcosa che pensi sia parte di te?

Mi spiace infrangere queste illusioni, ma la verità è che dall’ansia si può uscire. La psicoterapia cognitivo comportamentale è il trattamento di elezione per l’ansia, e decenni di studi e ricerche confermano che l’ansia si può sconfiggere, e ritrovarsi, così a non essere più ansiosi.

3) L’ansia non è una condizione molto comune

C’è chi pensa che i disturbi ansiosi siano poco comuni, che solo pochi “poveretti” soffrano d’ansia. Beh, non è così. In un importante studio a livello europeo, si è scoperto come poco più dell’11% degli italiani soffre o ha sofferto nella propria vita di un disturbo di tipo ansioso. E stiamo parlando solo di chi viene “diagnosticato” con un disturbo d’ansia, ovvero solo chi rispetta alcuni criteri per poter definire la sua problematica come un “disturbo”.

L’ansia è un’emozione, e già di per sè questo basterebbe a definirla come una condizione comunissima, direi assolutamente naturale! Ciò che forse può alimentare il pregiudizio circa una scarsa diffusione delle problematiche ansiose sono tutte quelle manifestazioni più o meno eclatanti che associamo all’ansia e che ci sembrano molto lontane dalla nostra esperienza quotidiana. Basta guardare la prima serata di Real Time: strane ossessioni, disposofobia (cioè l’accumulo compulsivo) e chi più ne ha, più ne metta.

Ma in realtà, se ci pensi bene, anche tu che stai leggendo provi ansia in certi momenti della tua vita: che sia l’imbarazzo di chiedere al cameriere di cambiarti la forchetta sporca, la tua ostinazione nel controllare e riscrivere di continuo un testo perché non ti sembra mai sufficientemente buono o altre piccole grandi situazioni di ogni giorno, anche tu provi ansia (o forse la “blocchi” in anticipo semplicemente evitando le situazioni per fonte di ansia). La differenza è che per te potrebbe non essere un problema, per altri si.

4) Bere aiuta a calmare l’ansia

Tipico dell’amico che vuole aiutarti ma che lo sta facendo male. «Perché anch’io prima non riuscivo a parlare con le ragazze, ma poi ho scoperto che se mi faccio qualche cicchetto passa la paura!»

L’alcol può certamente renderci più “disinibiti” e “spigliati”, il che potrebbe sembrare utile soprattutto per chi soffre di ansia sociale, ma a quale prezzo? Il rischio è di aggiungere un problema (dipendenza) a un altro (ansia), e sicuramente a lungo termine non è una scelta saggia. Senza considerare che un punto fondamentale per una corretta strategia di risoluzione dell’ansia è quello di affrontare la situazione che temiamo (possibilmente in maniera graduale), non di alterarsi la coscienza per poter fare qualcosa che ci mette a disagio. Altrimenti che facciamo, dobbiamo andare in giro con la fiaschetta? E poi sei davvero sicuro di riuscire a parlare con gli altri, oppure ti stai limitando a biascicare?

5) Non si può fare nulla per calmare una persona in ansia

Vedere una persona in preda al panico, specialmente qualcuno che ci è caro, può farci sentire impotenti o insicuri su cosa sia bene dire o fare. Alcuni, animati dalle migliori intenzioni o spinti dalla loro stessa ansia rispetto alla situazione, provano a calmare chi è in ansia con frasi come «non preoccuparti, andrà tutto bene» oppure «dai, calmati!», che è sicuramente la peggiore di tutte! Come se uno dei problema nell’ansia non fosse proprio la difficoltà di calmarsi!

In realtà non c’è una cosa giusta da dire che possa adattarsi ad ogni persona o situazione, ma sicuramente un atteggiamento comprensivo può essere d’aiuto. Provare a pensare a quanto possa essere difficile quella situazione per quella persona può essere una buona strategia per entrare in contatto con l’ansia di quel momento, magari ricordandoci di come ci siamo sentiti noi in una situazione di ansia vissuta in passato (perché tutti ne abbiamo avute). Già questo può aiutarci ad approcciare quella persona con maggiore gentilezza e comprensione, ed è già tanto.

Alla fine, comunque, vale un’indicazione che può essere estesa anche ad altre situazioni di vita, più o meno dolorose: chiedi alla persona cosa puoi fare per esserle d’aiuto in quel momento. Non partire da quello che tu pensi possa esserle d’aiuto, ma invece ascoltala.

 

E tu cosa ne pensi dell’ansia? Che idea hai di questo fenomeno? Se ti va, condividi i tuoi pensieri e le tue domande con un commento, parliamone insieme!

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A tutti è capitato di passare una o più notti in bianco, o quantomeno di avere difficoltà nell’addormentarsi. Si tratta certamente di un’esperienza spiacevole anche se, tutto sommato, tollerabile. Se però non si tratta solo di poche notti e la mancanza di sonno tende a protrarsi nel tempo, l’insonnia può diventare una condizione di forte sofferenza.

insonnia

Con il termine «insonnia» si intende la presenza più o meno costante di difficoltà legate all’addormentamento, alla durata o alla qualità del sonno. È una condizione più diffusa di quanto sembri, con circa il 30% degli adulti coinvolti, e spesso determina diverse conseguenze negative nella vita di chi ne soffre, come irritabilità, difficoltà di attenzione, concentrazione e di memoria e, chiaramente, sonnolenza nel corso della giornata.

Non tutte le «insonnie» sono uguali, però. Generalmente si distingue tra quella primaria, la cui origine è slegata da altre condizioni mediche o psicologiche, e quella secondaria, ovvero che dipende dalla presenza di altre problematiche, come ad esempio le apnee notturne, la sindrome delle gambe senza riposo, l’utilizzo di sostanze o problemi psicologici come depressione e ansia.

Mettendo da parte l’insonnia secondaria, che può avere un’origine variegata e potrebbe richiedere trattamenti specifici su più livelli, andiamo a vedere in cosa consiste l’insonnia primaria e soprattutto cosa possiamo fare per contrastarla.

Di cosa è fatta l’insonnia

La ricerca clinica ha individuato alcune forme di insonnia primaria, ma la più comune resta la cosiddetta «insonnia psicofisiologica», che presenta alcune caratteristiche principali tra loro concatenate:

  • presenza di processi cognitivi e pensieri che influenzano negativamente la possibilità di addormentarsi (tra i tanti troviamo anche il classico e paradossale atteggiamento di “sforzarsi di dormire”, visto che il sonno è forse l’unica attività che non richiede alcuno sforzo!);
  • presenza di «tensione somatizzata», ovvero tensione muscolare e incremento dello stato di vigilanza durante la fase di addormentamento;
  • messa in atto di comportamenti (abitudini, rituali) e presenza di condizioni ambientali che non favoriscono il sonno.

Il nocciolo della questione è questo: chi soffre di insonnia mette in atto tutta una serie di comportamenti che contrastano profondamente con l’addormentamento. Sia chiaro, non è una cosa che viene fatta di proposito, si tratta per lo più di atteggiamenti e abitudini apprese nel corso del tempo e che diventano parte integrante del nostro rituale di (fallito) addormentamento.

Cosa succede in realtà

Consideriamo l’atteggiamento tipico di chi è insonne: comprensibilmente avrà tutto il desiderio di dormire, temendo anche le conseguenze dell’ennesima notte insonne, ma spesso è proprio questa aspettativa di “doversi addormentare” che lo pone in una condizione di “ansia di prestazione” che certamente non renderà facile farlo. La persona non sarà per nulla rilassata, il suo corpo sarà anzi particolarmente sveglio proprio perché è così che tendenzialmente reagisce in una situazione di “ansia” (o forse è meglio un più neutro “nervosismo”). A questo punto appare chiaro il paradosso di chi è in cerca di uno stato di quiete (il sonno) a partire da uno stato di agitazione.

Si innesca così un meccanismo particolarmente perverso composto da pensieri e rimuginii legati al non riuscire al dormire che porteranno a emozioni spiacevoli e a conseguente tensione corporea, e che comporteranno l’impossibilità di entrare in uno stato di calma fondamentale per addormentarsi. Non riuscendo ad addormentarsi, i pensieri prendono ancora più vigore, eccetera. Insomma: non se ne esce più, se non per sfinimento.

Ovviamente non ci sono solo i pensieri, anche diversi comportamenti entrano a far parte di questa spirale di frustrazione. Prendiamo ad esempio il controllare sistematicamente l’ora nel corso della nottata in bianco. Come dovremmo sentirci una volta che notiamo che è già passata un’ora da quando ci siamo messi a letto e ancora non ci siamo addormentati? Sicuramente non calmi e rilassati!

Cosa si può fare?

Visti i presupposti dell’insonnia (pensieri, tensione e comportamenti errati), la cosa migliore sarebbe lavorare su tutti questi aspetti. È chiaro che per alcuni di questi potrebbe rendersi necessario un intervento mirato rispetto alle esperienze e alle difficoltà della singola persona, ma tuttavia è possibile raggiungere comunque dei buoni risultati cambiando il nostro modo di approcciarci al sonno. Cioè seguendo alcuni accorgimenti rivolti a migliorare la cosiddetta “igiene del sonno”, ovvero mettendo in pratica quei comportamenti che possono favorire una buona qualità del sonno ed eliminando quelli che invece la ostacolano.

Prima di passare a delle indicazioni più precise, ti consiglio in generale di adottare un approccio diverso all’addormentamento, ovvero cercare di:

  • Staccare. Dal lavoro, dalle preoccupazioni, da cosa devi fare domani mattina. Lo so, è più facile a dirsi che a farsi, ma a volte basta anche solo fermarsi un attimo e chiedersi: “Se continuo così potrò davvero addormentarmi?”.
  • Rilassarti. Porta la tua attenzione al tuo corpo, lontano dai pensieri. Fai esercizi di rilassamento o pratica un po’ di mindfulness, se sai come si fa. Altrimenti fai semplicemente dei bei respiri e quando emetti l’aria lascia che il tuo corpo si rilassi… Ma fai attenzione all’ansia da prestazione! Se ti accorgi che sei immerso in pensieri “poco rilassanti”, lasciali andare e torna al respiro.

insonnia

Qualche consiglio “più pratico”

  • Prepara la camera da letto. Per quanto possibile, la “stanza del sonno” deve essere buia, silenziosa e l’ambiente deve avere la giusta temperatura (né troppo caldo né troppo freddo, diciamo intorno ai 15°). Non è male nemmeno l’idea di un buon bagno caldo prima di dormire: quel bel tepore aiuta a distendere i muscoli e quindi facilita l’addormentamento. Evita di tenere a portata di mano sveglie o dispositivi che ti mostrano l’orario: guardare l’ora quando non riesci a dormire non può che “metterti ansia”.
  • Orari fissi e niente pisolini! I primi tempi cerca di andare a dormire solo se hai davvero sonno, ma, per quanto possibile, cerca di andare a letto e di svegliarti sempre alla stessa ora. Il corpo ha bisogno di regolarità, è tuo compito fornirgliela. Non dormire il pomeriggio per “recuperare”, altrimenti la sera non sarai “abbastanza stanco”.
  • Niente smartphone, tablet o tv. Non pensarci nemmeno. E non provare a dire che ti rilassa scorrere la homepage di Facebook. Quando siamo connessi siamo più attivi che mai, e non è quello che ci serve per preparaci ad una notte di riposo. Pensa poi che la luce proiettata dagli schermi dei dispositivi elettronici viene addirittura associata dal nostro cervello alla luce solare. E da che mondo è mondo si dorme di notte, quando il sole non c’è!
  • Il letto è fatto per dormire. Il tuo corpo e la tua mente dovranno associare il letto esclusivamente a una condizione di riposo. Evita di fare qualsiasi attività a letto al di fuori del dormire. Fare l’amore è la dolce eccezione alla regola… soprattutto visto che dopo potrebbe anche portare sonnolenza!
  • Niente attività fisica. A parte il fare l’amore, non è una buona idea quella di praticare sforzi fisici più o meno intensi prima di andare a dormire, anche se pensiamo che se arriviamo a letto esausti ci addormenteremo prima. Non funziona, principalmente perché queste attività tendono ad attivare il corpo, il che è l’ultima cosa che vogliamo se cerchiamo di addormentarci. L’alternativa adeguata è praticare esercizi di rilassamento (vedi sopra).
  • Niente spuntini notturni. Evita di mangiare nelle ore precedenti alla messa a letto. Se proprio hai tanta fame, cerca di mangiare alimenti leggeri e facilmente digeribili, in modo da non affaticare la digestione. Immagino non serva che ti spiego che la peperonata non è amica del sonno…
  • Niente bevande eccitanti o zuccherate. Messe da parte le sostanze eccitanti (caffè, thé, sigarette), occhio anche a quelle ritenute “rilassanti”, come la camomilla o le tisane, soprattutto se zuccherate. Lo zucchero agisce da stimolante, e non ci serve per dormire. Bere molti liquidi, inoltre, espone al rischio di doversi svegliare durante la notte per fare pipì. E interrompere il sonno potrebbe esporci al rischio di non riuscire a riaddormentarci.
  • No alle “gocce per dormire”. A meno di specifiche indicazioni terapeutiche, non servono a molto, soprattutto a lungo andare. Oltre a dare assuefazione, si corre il rischio di diventarne dipendenti (quantomeno da un punto di vista psicologico) e non riuscire più a dormire senza. E poi, se le usi già e soffri d’insonnia, non puoi certo dire che hanno funzionato…

Cosa fare se proprio non riesci a dormire o ti svegli durante la notte?

Come regola generale, se non ti sei addormentato entro 15 minuti (circa! E poi non hai più la sveglia sul comodino…), alzati e fai altro fin quando non ti sentirai assonnato, quindi torna a letto. Magari le prime notte le passerai in bianco, ma se già soffri d’insonnia non fai un gran danno. Anzi, poco alla volta abituerai il tuo corpo ad andare a dormire al momento giusto ritrovando i tuoi naturali ritmi di sonno-veglia. Provare per credere.

Ovviamente per alcune cose non sarà facile, soprattutto all’inizio. Ma tu non mollare, non abbatterti e sii paziente: non avere fretta di risolvere un problema che magari ti affligge già da un po’. Sii costante e abbia fiducia nel tuo corpo: vedrai che le cose andranno per il meglio.

Buone notti!

 

Pensi di avere problemi di insonnia? Che ne dici di provare questi consigli e farmi sapere com’è andata? Mi farebbe molto piacere sentire della tua esperienza, e magari potresti anche aiutare qualcuno con le tue stesse difficoltà!

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Il nostro modo di vedere e valutare la realtà che ci circonda è condizionato fortemente dai nostri bisogni più profondi, quindi anche ciò che la mente ci racconta dipende da questi. Non sempre, però, quello che ci passa per la testa corrisponde alla verità…

mente

Quando ci si ferma a pensare alla complessità del corpo umano non si può non provare meraviglia. Proprio mentre stai leggendo queste parole nel tuo corpo stanno accadendo tante piccole cose che ti consentono di fare quest’esperienza: il tuo cuore spinge il sangue ricco di ossigeno lungo il sistema cardiocircolatorio, l’ossigeno nutre i muscoli che consentono ai tuoi occhi di muoversi tra una parola e l’altra, mentre una parte del tuo cervello è in grado di attribuire un significato alla serie di segni impressi sulla pagina per darne un senso compiuto.

Senza dimenticare che nel frattempo il sistema nervoso centrale e quello periferico ti consentono di respirare (l’ossigeno da qualche parte dovrà pure arrivare), di dirigere la tua attenzione sullo stimolo visivo e di fare un mucchio di altre cose che nel complesso consentono all’incredibile macchina umana di continuare a vivere (regolare i livelli ormonali, silenziare alcuni muscoli e attivarne altri, controllare il livello di fame, restare all’erta nei confronti di stimoli improvvisi e tanto, tanto altro!).

Un’orchestra di milioni di strumenti che suona perfettamente ogni singola nota, diretta da un organo, il cervello, che lavora silenziosamente ed efficacemente per garantire al tuo corpo di continuare a cantare la melodia della vita.

L’uomo: l’animale dal cervello più complesso

Il cervello è un organo presente in tutti gli organismi più complessi e ha il ruolo, appunto, di dirigere le diverse funzioni vitali necessarie a un organismo per continuare a vivere.

Con il passare del tempo (molto, molto tempo!), l’essere umano ha sviluppato alcune capacità uniche rispetto ad altre forme di vita animale che gli hanno consentito di raggiungere livelli di complessità incredibili, andando oltre la semplice soddisfazione dei principali bisogni biologici o l’istintiva risposta a stimoli ambientali. Questo ovviamente non significa che gli altri esseri viventi siano “semplici” o “inferiori”: in natura ogni cosa è fonte di meraviglia, se ci ferma a guardarla con la giusta prospettiva.

Con lo sviluppo delle funzioni cerebrali, l’uomo è diventato sempre più in grado di modificare il proprio ambiente, di acquisire nuove abilità e di trasmetterle ai suoi simili. Ha sviluppato complesse capacità di comunicazione e di ragionamento che gli hanno consentito di dare un nome a qualunque cosa, anche a quelle che non si possono “toccare” e che esistono solo dentro di noi, come i sentimenti, o le idee.

Questo ha fatto sì che l’essere umano potesse andare oltre la “semplice” sopravvivenza, sviluppando sistemi di ragionamento complessi basati sulla capacità di “pensare su se stesso” che hanno portato alla nascita di culture e società che rendono l’uomo, nel bene e nel male, un organismo unico e inimitabile.

Cogito ergo sum

Senza le nostre uniche ed eccezionali capacità di pensiero non ci sarebbero mai state la filosofia, la matematica, la poesia, l’arte. Certo, le scuole sarebbero state meno noiose… ma a pensarci bene non ci sarebbe stata nemmeno la scuola! Il che per qualcuno potrebbe sembrare una buona notizia, ma non ci sarebbero stati nemmeno internet e gli smartphone, la musica o i videogiochi. Ma neanche bollette da pagare, scadenze, impegni, traffico!

Tutti noi però avremmo vagato per la Terra senza nulla da fare che annusarci a vicenda cercando l’ennesima bacca che ci avrebbe consentito di vivere un giorno di più. Bello, eh?

E poi non ci sarebbe stata l’amicizia, la solidarietà, l’amore («Magari!», dirà qualcuno che adesso ha il cuore infranto). Insomma: non ci sarebbe stato l’essere umano così come lo conosciamo, con i suoi pregi e i suoi difetti.

È il cervello che ci fa pensare

Nonostante qualcuno pensi che nel genere maschile le capacità di pensiero risiedano in altri organi, la banale verità è che pensiamo col cervello. Può sembrare una cosa scontata (infatti lo è), ma spesso tendiamo a mettere da parte le cose scontate e a non considerarle quando si analizzano alcuni fenomeni.

Facciamo un passo indietro: per quale motivo il cervello è così fondamentale? È il cervello a dirigere i complessi meccanismi che ci consentono di continuare a vivere (come respirare, nutrirsi, muoversi), quindi la funzione principale del cervello è far sì che tutto funzioni alla perfezione per continuare a sopravvivere.

Lo sviluppo delle capacità cognitive ha svolto un ruolo importantissimo ai fini della preservazione degli esseri umani: nuove capacità significano nuove possibilità, nuove possibilità significano maggiori probabilità di sopravvivere e di trasmettere i propri geni. Ed è sostanzialmente per questo che l’evoluzione ha mantenuto (e migliorato nel tempo) queste caratteristiche della mente umana.

Attenzione! Non sto dicendo che le facoltà di pensiero si riducono a questo, ma è indubbiamente questo il punto di partenza. È questa la base dalla quale partire per poterci poi meravigliare di tutto il bello che il cervello umano è stato in grado di creare.

Il nocciolo della questione

Spogliando di ogni poesia la nostra capacità di pensare, scopriamo appunto che essenzialmente la sua funzione è legata alla sopravvivenza. Ma la sopravvivenza, per l’essere umano, non si può ridurre al semplice “mangiare-respirare-scappare-riprodursi”. Per quanto alla base di tutto ci sia questo, sarebbe paradossalmente contronatura limitarsi a considerare solo questi aspetti. Contronatura perché contro la natura umana. Perché è proprio grazie alle nostre umane capacità cognitive che la vita per noi è diventata più di questo.

Noi siamo più di questo. Siamo così complessi che non possono che essere complessi anche i meccanismi che ci rendono umani e che rendono la vita degna di essere vissuta.

Per “vivere” c’è bisogno anche di sentirsi soddisfatti, amati, protetti, parte di un gruppo. Per noi è diventata questa la “vera” sopravvivenza. E il nostro cervello, il cui ruolo è quello di consentirci di sopravvivere, ci spinge a considerare questi aspetti come fondamentali (e lo sono). Il problema, però, è che come per la maggior parte delle funzioni che ci consentono di sopravvivere, anche questi aspetti vengono gestiti in maniera automatica dal nostro cervello. Cioè senza pensare.

Automatica-mente

Intendiamoci: il fatto che una cosa sia automatica non significa anche che sia dannosa!

Prendiamo ad esempio il respirare: è un meccanismo che funziona bene proprio perché è automatico. Proviamo a pensare a come sarebbe la nostra vita se dovessimo stare ogni momento concentrati sull’immettere ed espellere aria. Non avremmo sicuramente la possibilità di fare altre cose con la nostra mente, e guai a distrarsi anche solo per un attimo! Un discorso simile è quello del guidare: chi guida abitualmente lo fa in maniera automatica, senza pensare ogni volta a sollevare un piede, schiacciare un pedale, girare lo sterzo, spostare la leva del cambio… tutto questo mentre guardi la strada e valuti il percorso, cerchi possibili pericoli ecc. Insomma, sarebbe un incubo (ed è molto probabile che non riusciremmo nemmeno a guidare).

Però c’è da considerare che alcuni comportamenti (nota: anche il pensare è un comportamento), se automatizzati, potrebbero non essere adatti per ogni situazione. Con l’automatismo si risparmia, ma si perde in efficienza. A una persona che reagisce automaticamente di fronte a un evento potrebbe andare bene una volta, ma in una situazione leggermente diversa la reazione automatica potrebbe addirittura essere dannosa! Un esempio è quello degli attacchi di panico, quando la reazione automatica di allarme risulta ingiustificata e può portare a conseguenze molto significative.

mente

Ciò che vediamo è ciò di cui abbiamo bisogno

Il nostro modo di vedere e valutare la realtà che ci circonda è condizionato fortemente dai nostri bisogni più profondi. Ad esempio, se per una persona è estremamente importante che gli altri abbiano un’opinione positiva di lei, sarà sicuramente molto attenta alle valutazioni degli altri e queste giocheranno un ruolo fondamentale nel determinare la visione di sé e, di conseguenza, il proprio livello di benessere psicologico.

Questi bisogni sono così radicati in noi che il più delle volte non sono consapevoli, o quantomeno non vi è una consapevolezza tale da farci ammettere “ciò che pensano gli altri di me è fondamentale per definire il mio valore”. Consapevoli o no, se sono presenti dei bisogni così importanti da determinare il modo in cui ci valutiamo (o valutiamo gli altri, o la realtà esterna), è chiaro che possono condizionare in maniera importante il modo in cui funziona la nostra mente.

Con tante cose da fare, la nostra mente (senza addentrarci in discorsi infiniti su cos’è: io qui la intendo come l’insieme delle facoltà cognitive) non è che può mettersi a ragionare su ogni piccolo aspetto di ciò che ci capita nelle nostre vite: sarebbe antieconomico, come abbiamo visto sopra. Allora, nel normale funzionamento quotidiano, spesso funziona col pilota automatico.

Ma in che senso la mente “mente”?

Se valutiamo la realtà in funzione dei nostri particolari bisogni ma in maniera automatica, cioè senza valutare attentamente cosa ci circonda e cosa ci accade, rischiamo di basarci su una valutazione assolutamente frettolosa e parziale della realtà, il che potrebbe condizionare fortemente il nostro modo di pensare, le emozioni che proviamo e i comportamenti che mettiamo in atto.

La mente quindi “mente” quando ci dice cose (e facendoci pensare cose, provare cose e fare cose) che in realtà non sono necessariamente vere, soltanto perché è guidata da processi automatici.

La mente, poverina, non lo fa apposta! È che è fatta così: parla senza pensare! In realtà vorrebbe solo aiutare… Sa che a noi alcune cose vanno bene e alcune male, e si basa soltanto sui segnali che sembrano confermare queste cose, senza fermarsi a valutare con precisione la realtà che è spesso più complessa di quanto sembra!

Così, ad esempio, se dopo aver completato un compito non ci viene data una bella pacca sulla spalla e qualche bella parola di apprezzamento, potremmo concludere che il lavoro svolto non è poi ‘sto granché, che un frettoloso «Hai fatto un buon lavoro» è in realtà soltanto una frase di circostanza. Da qui al valutarci come non in grado di fare quella cosa è un passo molto breve (per chi ha bisogno di sentirsi apprezzato dagli altri per poter apprezzare sé stesso). Non ci fermiamo a valutare che magari la persona aveva semplicemente fretta, anche se l’abbiamo vista allontanarsi a tutta velocità dopo aver dato una rapida occhiata a quanto abbiamo fatto.

Ragionevol-mente

Al di là del concetto errato che sta sullo sfondo (“valgo solo se valgo per gli altri”), valutando la realtà unicamente rispetto ai nostri bisogni e alle nostre aspettative, rischiamo di farci pesantemente condizionare dagli elementi che automaticamente la nostra mente ricerca, arrivando poi a conclusioni che non necessariamente sono vere soltanto perché ci passano per la testa.

Mettendo per il momento da parte il pesante fardello delle nostre più profonde credenze errate (basate su bisogni così importanti per noi da poter essere considerati fondamentali per la nostra “sopravvivenza” o comunque per il nostro senso di benessere), una cosa che si può fare concretamente quando sentiamo che da una certa situazione abbiamo sperimentato significative emozioni negative è fermarsi un attimo e disattivare il pilota automatico.

Le stesse facoltà che hanno consentito agli esseri umani di progredire, di immaginare, di creare, possono essere messe al nostro personale servizio se consapevolmente mettiamo in discussione quello che in automatico la nostra mente ha partorito.

A nessuno piace vedersi come un “credulone”. Allora perché tante volte ci facciamo abbindolare da una nostra prima, rapida valutazione? Solo perché sentiamo che viene da dentro di noi? E solo per questo dovrebbe necessariamente essere “vera”?

La verità è che quando si tratta di valutare la realtà, la mente mente (automaticamente). La prossima volta teniamolo “a mente”!

Non lasciamoci usare dalla mente, piuttosto usiamola! ?

 

P.S. Ringrazio una mia paziente, C., per avermi fornito l’ispirazione per il titolo!

 

E a te è mai capitato di mettere in discussione ciò che la mente ti suggeriva? Hai mai pensato che forse non tutto quello che ti passa per la testa corrisponde a verità? Cosa ne pensi del concetto che i nostri bisogni più importanti possono incidere su come valutiamo la realtà? Se hai voglia di condividere i tuoi pensieri lascia pure un commento!

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Avere un attacco di panico è un’esperienza estremamente spiacevole, che spesso lascia spaventati e confusi. Ma in realtà cosa sono gli attacchi di panico? Cosa succede realmente durante un attacco?

attacchi di panico

Chiara ha 26 anni e una vita praticamente normale: un lavoro, un fidanzato, un cane, cose così. Un giorno era al centro commerciale, stava passeggiando con un’amica, quando a un certo punto si è sentita un po’ “strana”. Si è accorta di avere il battito cardiaco molto accelerato, ha iniziato a sentire che le mancava l’aria, di colpo si è sentita inerme e senza forze e si è aggrappata con forza alla sua amica: «Aiutami! Sto per avere un infarto!». Spaventata, l’amica la fa sedere su una panchina e chiede aiuto a dei passanti. Dopo circa una mezz’ora, arriva un’ambulanza e il medico di turno procede con i suoi accertamenti. Fortunatamente, Chiara non ha nulla.

Ancora scossa ed esausta, la ragazza si fa accompagnare a casa. Si è presa un bello spavento, per fortuna non è stato niente di grave. Ma allora cosa è stato? «Probabilmente lo stress», la rassicurano tutti.

Da quel giorno, Chiara ha iniziato ad avere paura di andare al centro commerciale da sola. Se proprio non poteva evitare di andare, si faceva accompagnare da qualcuno. Col tempo, però, la paura di avere un altro “attacco di cuore” si è ingigantita, complici altri episodi simili che si sono verificati in altre situazioni. Così, adesso, Chiara preferisce uscire il meno possibile. È terrorizzata dall’idea di ritrovarsi in quello stato di puro terrore, dove sembra non ci sia più nulla da fare, ma che alla fine si rivela essere niente di serio.

Se sta a casa si sente più sicura, a patto che ci sia sempre qualcuno con lei. Lavorare è diventato molto difficile: al solo pensiero di fare il tragitto da casa all’ufficio comincia ad agitarsi e più di una volta le è capitato di darsi malata. Quando va, lo fa solo se accompagnata dal fidanzato, che nel frattempo vive con molto disagio l’intera situazione, anche perché non riesce proprio a capire di cosa diavolo abbia paura la sua Chiara.

A dire la verità, non riesce a capirlo neanche lei. Gli esami medici dicono che il cuore è perfetto. Allora perché queste sensazioni improvvise? Perché questa paura di avere un infarto? «Perché non può essere tutto com’era prima?»

Cos’è un attacco di panico?

Senza entrare in tecnicismi, analisi etimologiche o nello specifico dei criteri diagnostici, possiamo dire che un attacco di panico è semplicemente una manifestazione estrema e improvvisa di ansia.

La caratteristica forse più peculiare di questa problematica ansiosa è la presenza di sintomi fisici e cognitivi di vario tipo che si manifestano durante un attacco: palpitazioni, sudorazione, sensazione di soffocamento, mancanza d’aria, tremori, capogiri, paura di morire, di perdere il contatto con la realtà, di perdere il controllo…

Un attacco di panico può essere un evento isolato o rappresentare il peggioramento di un episodio di ansia già in atto. Può inoltre verificarsi in situazioni specifiche o in maniera più “spontanea”, e può associarsi o meno con l’agorafobia, cioè con l’evitamento di certi luoghi o situazioni dalle quali sarebbe difficile o imbarazzante scappare o in cui non ci sarebbe nessuno disponibile ad aiutare nel caso di un altro attacco.

Conseguenze del panico

Per metterla in termini semplici, avere un attacco di panico è semplicemente orrendo. È un’esperienza davvero angosciante, che lascia spaventati, distrutti e con una fortissima sensazione di impotenza. Per quanto sia un evento indubbiamente molto brutto, non tutti però sviluppano un “disturbo di panico” vero e proprio. Qualcuno è in grado di registrare il singolo episodio come una specie di “anomalia” e andare avanti per la propria vita senza dargli peso più del necessario.

Per altri, però, non è così. Il primo episodio di panico può rappresentare l’inizio di un percorso di angoscia e disperazione. Si inizia a provare molta paura di averne un altro, e prima o poi potrebbe davvero arrivarne un secondo. La paura aumenta, si iniziano ad associare le sensazioni provate alle situazioni nelle quali si sono verificati gli attacchi e, poco alla volta, si inizia ad evitare quelle stesse circostanze per paura di avere un altro episodio. Ma il problema non è la situazione, è la paura. Nei casi peggiori, infatti, anche evitando totalmente un particolare luogo o evento, non è detto che un attacco non possa verificarsi in altre situazioni fino a quel momento considerate “neutre”. Provate a immaginare cosa questo possa significare per una persona che soffre di attacchi di panico: nessun luogo è sicuro.

Anche se non si dovesse arrivare a un livello di evitamento così importante, la paura di avere un attacco di panico può comunque avere costi altissimi: perenne tensione, bassa autostima, umore depresso, imbarazzo, difficoltà nella vita sociale e nelle relazioni in generale, sensazioni di impotenza, perdita della speranza e così via.

Sullo sfondo, alla persona che soffre di attacchi di panico, restano sempre degli interrogativi: «perché queste sensazioni? Cosa succede al mio corpo? Se non è vero che soffro di cuore, perché queste improvvise accelerazioni del battito? Perché i dottori continuano a dirmi che non ho nulla, se quello che provo è più che reale?»

Prendiamo Chiara, ad esempio. Dopo la visita del medico dell’ambulanza, che ha dato esito negativo, si è sentita rassicurata dalla mancanza di un problema cardiaco. Dopo gli altri episodi, però, il dubbio le è tornato: «forse c’è qualcosa che non va e che il medico non è riuscito a vedere». Così, decide di farsi visitare da uno specialista, ma il risultato (per fortuna) è sempre lo stesso: il cuore di Chiara non ha nulla che non va. Se il problema non è il cuore, di cosa si tratta allora?

Il circolo vizioso del panico

Molto semplicemente (si fa per dire), il problema è nell’interpretazione del sintomo fisico.

Per fare un esempio decisamente banale, ti è mai capito di alzarti all’improvviso dopo essere stato disteso per un po’ di tempo e di sentire la testa “girare”, come se stessi per perdere i sensi? In questo caso la spiegazione è semplice: ti sei alzato di fretta e i cambiamenti conseguenti a livello di pressione sanguigna hanno causato la sensazione della testa che “gira”. Già, ma che c’entra questo con Chiara e il presunto attacco di cuore? Stava semplicemente camminando con un’amica, come può questo causare un aumento del battito cardiaco?

Uno dei modelli maggiormente studiati per la comprensione degli attacchi di panico è il cosiddetto “modello del circolo vizioso” di David M. Clark, un esperto studioso dell’Università di Oxford. Il presupposto principale del modello di Clark è che gli attacchi di panico sono il risultato di interpretazioni di carattere catastrofico di eventi fisici o mentali, che vengono erroneamente considerati come dei segni di un pericolo imminente, come un attacco di cuore, un collasso o un soffocamento improvviso.

Secondo tale modello, le sensazioni che vengono “malinterpretate” sono soprattutto quelle associate ad ansia, anche se, in alcuni casi, potrebbero dipendere anche da fattori fisiologici (come nell’esempio di sopra sull’alzarsi all’improvviso). Ad ogni modo, molte normali sensazioni fisiche o cambiamenti fisiologici possono essere oggetto di un’errata interpretazione.

Perché si parla di circolo vizioso? Perché l’attacco di panico è solo il culmine di una sequenza di sensazioni, pensieri ed emozioni che si rinforzano a vicenda provocando un’ansia sempre più forte fino ad arrivare al panico vero e proprio.

Il circolo vizioso del panico è quindi composto da tre elementi di base: le reazioni emotive, le sensazioni corporee e i pensieri relativi alle sensazioni (cioè, l’interpretazione negative di quest’ultime). Questi fattori sono collegati tra loro e il circolo può iniziare da qualunque di questi, ciò che non cambia è come questi elementi si influenzano a vicenda.

Prendiamo l’esempio di Chiara. All’improvviso, mentre camminava, per qualche ragione la sua attenzione si è soffermata sul battito cardiaco. Chiara ha registrato questo fenomeno come anomalo e lo ha “interpretato” come segnale di qualcosa che non andava. Questo, comprensibilmente, l’ha spaventata. Quando una persona si spaventa, va in ansia. Quando una persona è in ansia succedono diverse cose a livello corporeo, tra le quali troviamo l’aumento del battito cardiaco. Quindi, in quella situazione, il cuore, che già sembrava mostrare qualche battito in più del solito, ha iniziato ad aumentare la frequenza dei battiti. Più i battiti aumentavano, più Chiara si convinceva di avere un problema al cuore. E questo come la faceva sentire? In ansia, ovviamente. E cosa succede quando si va in ansia?

Si prosegue per il circolo, fino a quando l’ansia raggiunge livelli così elevati da diventare qualcosa di più: panico puro.

circolo vizioso del panico

Modello del circolo vizioso del panico

 

Oltre il circolo

Ovviamente, il circolo vizioso del panico è solo un singolo elemento che può contribuire alla comprensione del “disturbo di panico”. Molti altri fattori vanno tenuti in considerazione per comprendere a pieno perché una certa persona arriva a sviluppare una problematica di questo tipo. Ad esempio:

  • è possibile che Chiara fosse già in uno stato d’ansia in quella situazione? Se si, perché?
  • perché Chiara ha continuato ad avere attacchi di panico anche dopo?
  • c’era qualcosa che Chiara faceva (o non faceva) che l’ha resa più vulnerabile ad altri attacchi?

Il modello del circolo vizioso del panico è una rappresentazione generale di cosa succede durante un episodio di panico, ma, ovviamente, la cosa non è così semplice. Non basta dare un senso a un certo avvenimento per comprendere a pieno una determinata problematica e risolverla, anche se certamente una spiegazione a questi fenomeni fa di solito un gran bene a chi ne soffre.

Bisogna considerare, infatti, che se si è verificato un episodio di panico (e soprattutto se non si è riusciti a “superarlo”), è perché alla base c’è qualcosa che l’ha “provocato”. E questo qualcosa è assolutamente personale, non è possibile applicare una ricetta unica per tutti né esaurire l’argomento con un singolo post. È proprio per questo motivo che se si soffre di attacchi di panico è importante rivolgersi a qualcuno che possa far luce sui motivi che hanno portato a soffrirne (ed evitare di soffrirne in futuro!).

La buona notizia, però, è che il disturbo di panico si può superare. Tornare a una vita piena, senza limitazioni o paure paralizzanti, non è utopia: è il risultato che molte persone hanno raggiunto con il supporto della psicoterapia e grazie al loro impegno e alla loro determinazione.

«Perché non può essere tutto com’era prima?»

 

Cosa ne pensi degli attacchi di panico? Hai delle domande da fare, vuoi saperne di più? Ne hai mai avuto uno, com’è stato? Se ti va di raccontare la tua esperienza lascia pure un commento, sarei felice di sentire la tua storia!

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Ogni nuovo anno ci ripromettiamo qualcosa: perdere peso, studiare di più, fare attività fisica, dedicare più tempo a noi stessi e tanto altro. Come ogni anno, però, spesso ci ritroviamo con tante belle promesse ma con niente che cambia davvero.

nuovo anno

Puntualmente, nei giorni precedenti allo scoccare di un nuovo anno, realizziamo che proprio adesso, con l’anno nuovo, è finalmente giunto il tempo di impegnarci per apportare quei cambiamenti nella nostra vita che da tanto sognavamo.

Così, ad esempio, se abbiamo notato di avere un po’ di pancetta, ci ripromettiamo che con l’anno nuovo le cose saranno diverse: ci immaginiamo più belli e magri, a sudare in palestra ma con i muscoli scolpiti, contenti e soddisfatti dell’impegno e dei risultati. È tutto così facile, immediato… “perché non c’ho pensato prima?”

Scatta la mezzanotte. Come ogni anno, è un nuovo anno. Un anno ricco di promesse, di novità, forse anche di riscatti. “Quest’anno cambio!”: così decidiamo quando saltano i primi tappi di spumante.

“Certo, non domani però: è il primo dell’anno. Sicuramente stanotte si farà tardi, domattina sarà difficile svegliarsi presto. E poi c’è il pranzo con i parenti. Magari nel pomeriggio sonnecchio un po’. Sai che c’è? Comincio dopodomani! Ho deciso: il 2 mi iscrivo in palestra!”

Anno nuovo, vita nuova

Ed eccoci qui, agli inizi di Febbraio. C’è chi in palestra ci si è iscritto davvero. C’è anche chi l’ha frequentata con costanza, e magari continuerà ancora ad andare. Ma tu? Alla fine ti ci sei iscritto in palestra?

Che sia il perdere peso, lo studiare di più, il fare attività fisica, il prendersi del tempo per se stessi e per ciò che sia ama, cioè per qualunque tipo di cambiamento che vogliamo apportare nelle nostre vite, spesso si aspetta solo il momento giusto per cominciare. E spesso, quel momento viene fatto coincidere con l’inizio di un nuovo anno.

È un fenomeno strano, quasi magico, l’idea che da un giorno all’altro possa davvero cambiare qualcosa. Diciamoci la verità: se il Capodanno fosse stato il primo di Agosto, avremmo immaginato comunque una sorta di passaggio, di cambiamento. Fa parte della nostra natura attribuire certi significati a degli eventi speciali, come l’inizio di un nuovo anno. E come ogni inizio, è spesso ricco di tante cose: speranze, ansie, fantasie… Un momento perfetto per cambiare ciò che non ci va.

A questo punto, però, mi chiedo: se c’è qualcosa che non ci va, perché aspettare l’inizio di un nuovo anno?

Cambiare è difficile

Proprio così: cambiare non è per nulla facile. E non parliamo del cambiare in senso generico, cioè diventare una persona diversa. Parliamo di quei piccoli grandi cambiamenti che desideriamo profondamente e che, siamo sicuri, possono modificare la nostra vita in meglio.

Sembra sempre così facile inserire nelle nostre giornate delle nuove attività o modificare alcune delle nostre abitudini. Eppure, per quanto intensamente ci sforziamo, a volte capita di cominciare con il piede giusto ma di perdersi, dopo pochi giorni, per un motivo o per un altro. All’improvviso, ci accorgiamo di non avere più il tempo per quella cosa, o magari un giorno non ne abbiamo molta voglia, così rimandiamo al giorno dopo. Se ci va bene magari riprendiamo! Altrimenti… “Beh! Per quest’anno è andata così… Ma l’anno prossimo, lo giuro, cambio davvero!”.

Il problema, ovviamente, non è nel fatto di avere intrapreso un cambiamento in questo periodo nell’anno. Il problema, semmai, è relativo al come si è avviato questo tentativo di cambiamento. Spesso si parte in quarta, allo sbaraglio, senza un piano preciso. Per qualcuno funziona (beati loro!), ma per altri non è così semplice.

Non basta decidere di iscriversi in palestra per frequentarla con costanza. Allora cosa ci serve per andare fino in fondo?

nuovo anno

Alcuni consigli per cambiare (davvero)

Intendiamoci: non è possibile fornire una semplice ricetta da seguire per arrivare al cambiamento che si desidera, grande o piccolo che sia. Innanzitutto perché non tutte le attività o intenzioni sono uguali, ma anche perché noi tutti non siamo uguali. Ci sono però dei principi che possono generalmente risultare utili.

Quello che segue è un piccolo elenco di consigli su come impostare un percorso che ci conduca agli obiettivi che desideriamo. È importante comunque considerare che per alcuni cambiamenti può rivelarsi necessario l’aiuto di un esperto (ad esempio, un personal trainer per l’attività fisica) per raggiungere dei risultati.

  • Motivazione. Inutile girarci intorno: per qualunque attività, dalla più semplice alla più complessa, per fare le cose (e per farle bene!) bisogna essere motivati. Quando si tratta di cambiare, la motivazione è ancora più importante. Scegli obiettivi per i quali sei realmente motivato.
  • Sii realistico. Se lavori tutto il giorno e la sera non ce la fai nemmeno a pensare di fare degli addominali, non porti come obiettivo quello di frequentare una palestra tutti i giorni. Meglio fare dei semplici esercizi a casa con regolarità: non è lo stesso che frequentare una palestra, ma chi l’ha detto che non si possano comunque raggiungere degli ottimi risultati?
  • Sii specifico. Quando progetti un cambiamento, cerca di essere specifico: è meglio un obiettivo semplice ma misurabile come “perdere 6 chili in 6 mesi” piuttosto che un generico “perdere peso”. Ovviamente ricorda di essere realistico: puoi anche pensare di perderne 30 di chili, ma in 6 mesi è possibile?
  • Impara dagli errori. Hai già provato a raggiungere questo cambiamento in passato? Che cos’è che non ha funzionato? Cosa, invece, sembrava esserti di aiuto? Il fatto che una cosa non sia andata bene in passato comporta comunque qualcosa di positivo: possiamo fare tesoro di ciò che non è andato e ripartire da questo.
  • Programma e spezzetta. Non buttarti a capofitto verso l’obiettivo, fermati e programma al meglio il tuo percorso. Prendi carta e penna: butta giù i tuoi obiettivi, definisci i tempi, cerca di capire quanto tempo puoi dedicare all’attività e in quali momenti della giornata. Non cercare di fare tutto e subito: insegui il cambiamento poco alla volta, procedi per gradi. Non partire con l’idea di fare 50 flessioni il primo giorno: quello può essere un obiettivo, non un punto di inizio.
  • Prevedi cosa può andare storto (e cosa fare in alternativa). Anche se programmi tutto a puntino, è possibile che le cose non vadano esattamente come avevi previsto. Per quanto possibile, cerca di prevedere le difficoltà che puoi incontrare e stabilisci in anticipo come aggirarle.
  • Dichiara agli altri le tue intenzioni. Rendi partecipi i tuoi familiari e i tuoi amici delle tue intenzioni. Prendendoti un impegno pubblicamente sarà più difficile abbandonare. Inoltre, potrai contare sul loro supporto nel momento in cui ne sentirai il bisogno.
  • Se fallisci, riprova. Come per ogni cosa nella vita, non sempre tutto va come previsto. Può capitare di saltare una sessione o di non raggiungere alcuni obiettivi, non è però un buon motivo per smettere di provarci. Se c’è qualcosa che non è andato, correggi. In ogni caso, persevera e i risultati arriveranno.
  • Sii regolare. Il segreto per eccellere in un ambito o per raggiungere un obiettivo è la regolarità. Non basta programmare al meglio, serve agire con costanza. Cerca di essere il più regolare possibile e tutto andrà bene. E se qualche volta non riesci, non farne un dramma. Come sopra: se fallisci, riprova.
  • Premiati per ogni successo. Una cosa che spesso si dimentica quando si cerca di raggiungere un obiettivo è quanto sia importante premiarsi per i risultati raggiunti, anche se piccoli. Siamo sempre pronti a trattarci male quando falliamo o rinunciamo al cambiamento desiderato, perché non trattarci bene quando ce lo meritiamo? Un piccolo premio, anche solo una caramella, è il simbolo di un risultato raggiunto. Non dimentichiamo di celebrare i nostri successi (visto che per le sconfitte siamo sempre pronti!).
  • Credi in te stesso. Forse questo è l’elemento più importante. Credi in te e nelle tue capacità, perché cambiare è difficile ma è comunque possibile. Non fermarti ai primi ostacoli e vai oltre l’idea che non riuscirai, che è troppo difficile o che non sei in grado: impegnati con tutto te stesso e datti fiducia. Non dare per scontato che non puoi farcela, l’unico modo per scoprirlo è andare fino in fondo. E chissà cosa ci aspetta davvero alla fine del percorso…

In sintesi

Ogni giorno può essere un nuovo anno. Dopo solo un mese i buoni propositi sono andati a farsi friggere? Non c’è problema, oggi stesso può essere il tuo Capodanno. Stavolta, però, credici fortemente e impegnati con tutto te stesso. Non importa quale sia il tuo obiettivo: se è realistico, lo puoi fare.

 

E tu? La tua voglia di cambiamento è riuscita a sopravvivere alle prime difficoltà dell’anno o stai già aspettando il prossimo? Cosa ti eri ripromesso di fare? Quali ostacoli hai incontrato? Se hai voglia di contribuire alla discussione lascia pure un commento all’articolo, non vedo l’ora di sentire la tua esperienza!

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