La ripetitività è nella nostra natura. Ogni singolo apprendimento, sia esso positivo o negativo, è frutto di ripetizioni. Ma così come abbiamo imparato a mettere in atto alcuni comportamenti, è possibile impararne di nuovi per non essere destinati a commettere sempre gli stessi errori.

ripetitività

Chi più, chi meno, ciascuno di noi tende a ripetere sempre gli stessi errori. Che sia la scelta di un partner o il modo di intervenire durante una discussione, nella nostra quotidianità è possibile osservare una certa tendenza a ripetere alcuni comportamenti. Quasi si trattasse di un copione già scritto, in cui non sembra esserci possibilità di uscire dal ruolo che, volenti o nolenti, ci siamo assegnati.

Ma perché continuiamo a ripetere gli stessi comportamenti? Sembra essere più forte di noi: quando ci troviamo in alcune situazioni è come se andassimo in automatico a riviverle come già fatto in passato. Con la conseguenza di mettere in scena sempre le stesse sequenze con l’inevitabile rimprovero del nostro regista interiore.

Già, perché non solo tendiamo a commettere gli stessi sbagli ogni volta che possiamo, in più, quando ce ne accorgiamo, completiamo la sequenza con una buona dose di autorimproveri. Che, spesso, hanno effetti anche peggiori dell’errore appena ripetuto.

Ma come mai siamo soggetti a queste dolorose ripetizioni? Cosa ci impedisce di spezzare l’incantesimo?

Esseri ripetitivi

Che ci piaccia o no, l’essere umano è un essere altamente ripetitivo. Semplicemente, funzioniamo così. Per quanto ci piaccia considerare noi stessi delle persone “senza schemi” e mai banali, la ripetitività fa comunque parte di noi.

Pensiamo anche solo alle piccole routine che ciascuno di noi ha nella vita quotidiana. Ad esempio, ciascuno di noi (me compreso) può facilmente identificare la successione di diversi comportamenti che vengono messi in atto al risveglio. Caffè, colazione, bagno, doccia, eccetera: ad ognuno la sua combinazione, ma la costante è che mettiamo in atto questa routine in maniera sistematica ogni mattina (forse, per alcuni, con l’eccezione del weekend!).

Chiaro, c’è chi è più attaccato a questi piccoli o grandi rituali e chi lo è in misura minore, ma in sostanza siamo tutti portati automaticamente a ripetere alcuni gesti. A dirla tutta, più che di “attaccamento” a queste ripetitività, in realtà sarebbe il caso di parlare di “rigidità”. Come vedremo, infatti, spesso il problema non è nelle routine, ma nella nostra difficoltà a farne a meno.

Ripetuta…mente

Quella della routine mattutina può sembrare un’osservazione banale e poco significativa, ma è comunque un piccolo indizio di come in realtà funziona il nostro cervello.

I diversi circuiti cerebrali, ovvero le reti di neuroni (le cellule del nostro cervello), ad esempio, si sviluppano per ripetitività. Quando una certa combinazione di cellule si attiva più volte, il circuito di rinforza e si stabilizza; al contrario, se non c’è un’attivazione costante, pian piano questa struttura perde di forza fino a estinguersi.

In parole povere, quando ripetiamo un comportamento, le strutture del cervello dedicate a quella funzione diventeranno più solide e si attiveranno più facilmente. Viceversa, se non compiamo più una certa azione, quindi non sollecitando più quel particolare circuito, col tempo questo si indebolirà e scomparirà della “mappa” del nostro cervello.

Un’analogia che mi piace molto è quella con i vecchi dischi in vinile. Ripetere un’azione è come scavare un solco nel disco. Se la puntina del giradischi va a finire in quel solco, quella sarà la musica che verrà suonata. Più è profondo il solco, più è difficile uscirne.

Ripetizione = apprendimento

Detta così può sembrare una cosa negativa, ma in realtà è grazie a questi meccanismi legati alla ripetitività che impariamo a fare ciò che sappiamo fare. Pensiamo, ad esempio, ai noiosissimi esercizi di pianoforte nei quali ripetiamo sempre la stessa scala musicale. Cosa succede se ci applichiamo ogni giorno, costantemente, a questi esercizi?

Arriverà il giorno, quando si saranno sviluppati e rinforzati i circuiti cerebrali legati al movimento delle mani, all’anticipazione della nota seguente e molti altri ancora, che eseguiremo quella stessa scala con grande sicurezza e precisione, senza nemmeno doverci concentrare sui movimenti da fare o sui tasti da suonare.

Quindi, ripetere serve ad imparare una cosa fino a quando il cervello non ce la farà svolgere in automatico… ovvero, senza che ci pensiamo.

Ansia a ripetizione

Quando parliamo di ansia non parliamo soltanto di un’emozione, ma anche di specifici pattern di comportamento dal carattere ripetitivo. Già, perché le sequenze che si possono osservare nei disturbi d’ansia sono decisamente il frutto di apprendimenti causati dalla ripetizione incessante di determinate azioni.

Anche senza considerare l’estrema ripetizione sistematica di alcuni gesti per ridurre l’ansia – come nel caso delle classiche “compulsioni” – possiamo comunque notare che c’è una certa ripetitività nelle azioni compiute da una persona che soffre d’ansia. Cosa fa una persona che teme un attacco di panico? Risponde alla propria paura con un comportamento, che solitamente ha a che fare con la fuga da una certa situazione o l’evitamento della stessa.

Questo perché, a causa delle ripetizioni di questo comportamento, la risposta tipica di fronte a un evento ansiogeno si è strutturata in maniera rigida. La persona ansiosa non ha nemmeno bisogno di pensare a “cosa” fare, quando si trova in quella specifica situazione, risponde automaticamente in base a ciò che nel tempo ha appreso: “se faccio così, l’ansia va via”.

Il problema, ovviamente, è che la fuga o l’evitamento di queste situazioni ha poi degli effetti molto importanti sulla vita di chi li mette in atto. Evitare sistematicamente di uscire di casa, perché, ad esempio, si ha paura di sentirsi male o di perdere il controllo, significa ridurre la propria vita sociale o lavorativa. Significa, in sostanza, che per evitare qualcosa di spiacevole e tremendamente spaventoso, si va incontro a conseguenze altrettanto dolorose ma sicuramente più “reali”.

Tutto questo perché si agisce in maniera automatica, lasciando che il nostro cervello selezioni in maniera ripetitiva sempre la stessa risposta.

Coazione a ripetere

Se è vero che piccole e innocenti routine mattutine sono caratterizzate da ripetitività, e se è vero che tendiamo a rispondere a singoli eventi o situazioni in modo stereotipato, è possibile sostenere che addirittura grosse “fette” della nostra vita siano il frutto di sequenze che tendono a ripetersi?

C’è chi, ad esempio, finisce per ritrovarsi sempre con la stessa tipologia di partner. Non è anche questa una specie di ripetizione? Magari all’inizio è più difficile notare i segnali che ci indicano che stiamo ripercorrendo, ancora una volta, sempre la stessa strada. Anche perché non sempre ci sono! È molto più probabile che sia l’interazione continua tra i due partner a caratterizzare una relazione che si rivelerà “uguale” a quelle già vissute.

Questo perché ciascuno dei due tenderà a “mettere” nella coppia le proprie ripetitività, col risultato che, col tempo, le dinamiche di coppia si organizzeranno in modo da adattarsi alle personali routine dei partner.

ripetitività

Cose già viste

Prendiamo un individuo molto “accudente”, al punto che la sua ultima relazione è finita perché la partner si è sentita “stretta” dalle sue continue attenzioni (vissute come “apprensioni”). Ipotizzando una buona capacità di analisi, il nostro amico potrebbe rendersi conto che i suoi comportamenti potrebbero essere stati la causa della rottura della relazione. Così, si ripromette di non farlo più. All’occasione successiva, infatti, è probabile che partirà in maniera più “soft”, evitando di riproporre le stesse “attenzioni soffocanti”.

All’inizio le cose potrebbero andare bene, non senza fatica dal trattenersi dalla propria “indole”. Arriverà però il giorno in cui inevitabilmente si “rilasserà”, abbasserà la guardia e gli automatismi prenderanno il sopravvento. In pratica, tenderà a rimettere in atto quegli stessi comportamenti “accudenti” che hanno segnato la relazione precedente.

Intendiamoci: a parte il fatto che si tratta di una semplificazione e che il secondo partner potrebbe anche “incastrarsi” bene in questa dinamica, il senso qui è che, nel piccolo e nel grande, la nostra tendenza è quella di essere ripetitivi.

Buone ripetizioni

Ma l’essere ripetitivi è un problema solo quando, nella migliore delle ipotesi, continuiamo a mettere in atto gli stessi comportamenti senza in realtà trarne alcun vantaggio. Nei casi peggiori, finiamo addirittura per complicarci la vita.

Ovviamente, rispetto al “semplice” apprendimento di una singola azione, l’analisi di copioni narrativi così ampi come, ad esempio, il modo in cui viviamo le nostre relazioni, risulta molto più complessa. Ma, nella sostanza, si tratta sempre di pattern ripetitivi.

Solo che, al di là dei circuiti cerebrali, che comunque sono la “base” del nostro funzionamento, spesso entrano in atto altri aspetti, molto più profondi e non immediatamente accessibili alla nostra coscienza, che hanno a che fare con i nostri bisogni, i nostri modi di stare con l’altro, l’immagine che abbiamo della nostra persona, di chi ci è vicino e del mondo in cui viviamo.

Nel concreto, però, la costante è sempre quella: nel bene o nel male, tendiamo a ripeterci. A prima vista potrebbe sembrare quasi una condanna, ma in realtà non è così. Le nostre routine, le nostre ripetizioni, i nostri comportamenti sono tutti frutto di ciò che abbiamo appreso. E quel che è stato appreso, è possibile disimpararlo.

Non è facile, ci vuole sicuramente tempo e pazienza, ma si può imparare nuovi modi di fare e di essere, per uscire dal circolo vizioso della ripetitività. Che sia un modo diverso di organizzarsi il mattino, una modalità differente di affrontare ciò che temiamo o la messa in atto di nuovi comportamenti all’interno di una relazione, c’è sempre la possibilità di conoscersi e di reinventarsi.

Del resto, come si suol dire, nella vita non si finisce mai di imparare.

 

Condividi, se ti va :)

Ci sono giorni dove tutto è tenebra, mentre altri sembrano fatti di pura luce. Ciò che è diverso, in realtà, è la prospettiva dalla quale li osserviamo, il modo in cui guardiamo a noi stessi e alle cose. A volta basta una piccola deviazione dal percorso e il coraggio di voltare pagina per accorgersene. Per scoprire che in fondo non esistono due giorni uguali. Perché ogni cosa cambia, persino noi stessi.

rinascita

Ieri

Fuori è ancora buio. L’unica luce è lo schermo della sveglia, che segna le 4 e 29. Non ricordo di essermi addormentata, né ricordo quando può essere successo. Sicuramente era passata la mezzanotte, anche se ero a letto da molto prima.

È presto, troppo presto. Ma so già che non potrò più chiudere gli occhi, almeno per un po’. Sono settimane che va avanti così: una manciata di ore a notte prima di un’altra giornata a lavoro, desiderando nient’altro che un po’ di pace. Un po’ di silenzio, un meritato e lungo riposo.

Lui sta dormendo dall’altra parte del letto. Sembra avere un sorriso stampato in faccia anche quando dorme. Mi chiedo come faccia, cosa trovi di bello da sorridere. Per quel che mi riguarda, è molto che non rido.

L’altro giorno è venuta a trovarmi mia sorella assieme al mio nipotino. Quanto vorrei essere come lui: spensierato, entusiasta, leggero. Io di leggero ho solo il sonno. Mi viene spesso in mente cosa mi disse mia sorella quel giorno: «Vale, tesoro mio, non ce la faccio a vederti così. Cos’hai? Cosa ti è successo? Cosa c’è che non va?». Secondo lei ho tutto per essere felice, e nessun motivo per non esserlo.

Già, sulla carta sono d’accordo con lei. Ma quel senso di apatia, quella mancanza di energie anche solo per forzare un sorriso, non è un qualcosa che scelgo di avere. È così e basta. Quando poi mio nipote mi ha chiesto di giocare con lui sono riuscita appena ad annuire. Mi sono seduta sul pavimento assieme a lui, ma in realtà l’ho lasciato giocare da solo, mentre io guardavo quei pupazzetti che aveva in mano e mi sentivo esattamente come loro: fredda e inanimata.

Sono stanca, molto stanca. Non me la sento di andare a lavoro oggi. Ad essere onesti non mi va nemmeno di farmi una doccia, di mangiare, di vestirmi, di sistemare il letto. In realtà non ho voglia nemmeno di stare a letto, ma sempre meglio del pensiero di alzarmi.

Gli dirò che non mi sento bene, che resterò nel letto per riposare. Già lo vedo, con l’espressione di chi non ci crede neanche un po’. Ma che senso ha dirgli che ultimamente non riesco a fare altro che restare sotto le coperte, in posizione fetale, circondata da fazzoletti di carta per cercare di arginare le lacrime in piena? Un fiume che scende dai miei occhi gonfi ma senza provocare alcun lamento, quasi il riflesso di un corpo che soffre.

Non so nemmeno perché piango così tanto. Prima che si aprano i rubinetti sento solo un senso di oppressione al petto, che sembra così passare. Almeno per un po’.

Mi faccio schifo così. Sono sempre stata una donna attiva e solare, almeno così mi dicevano gli altri. Adesso sembro l’ombra di me stessa. L’inutile proiezione del mio corpo esposto alla luce. Basterebbe così poco per eliminare ogni dolore, ogni sensazione di inutilità. Basterebbe spegnere la luce.

Per il momento c’è solo quella della sveglia.

Oggi

Cerco dentro di me la forza per sollevarmi dal mio giaciglio, appoggiare i piedi a terra e sedermi sul bordo del letto. Non ho dormito molto, ma anche se l’avessi fatto per otto ore di fila comunque non mi sentirei riposata.

Mi sono svegliata qualche minuto prima della sveglia, ma non importa più di tanto. Ciò che conta è quel magone che anche oggi ho ritrovato poco dopo aver aperto gli occhi. E il silenzio di questa stanza, senza più il suo lieve russare. Senza più lui.

In queste ultime settimane ho capito una cosa importante. Sono io stessa a nutrire il mio dolore. Anzi, la mia depressione. Già, ho questa malattia. Me l’ha spiegato una persona importante, che mi ha aiutato a dare un nome a ciò che prima era innominabile.

È come se ogni mattina, mentre io restavo a digiuno, servivo una ricca colazione all’ombra di me stessa. Ogni volta che restavo nel letto, con gli occhi lividi a fissare il soffitto, era come servire cornetto e cappuccino alla parte di me che mi trascinava a fondo.

A proposito, mi sta venendo fame. Chi nutro oggi, me stessa o la mia ombra? È molto facile cedere alla tentazione di alzare bandiera bianca, ma ormai so bene quali sarebbero le conseguenze. Se non mi alzo dal letto, so che ci resterò tutto il giorno. E questo non posso permetterlo. So che posso alzarmi dal letto, anche se non mi sento di farlo. Basta appoggiare un piede a terra. Ecco, così.

Che fatica, però. Se penso alla giornata che mi attende quasi quasi mi rimetto giù. Ma non erano questi i patti con me stessa. Ok, prendo la mia agendina sul comodino. So bene cosa fare nei prossimi minuti, ma rileggerlo mi aiuta. Mi aiuta a ricordare che dopo “questo” c’è “quello”, ma soprattutto che a “quello” ci posso arrivare.

Sciaquarsi il viso. Bere un bicchiere d’acqua. Mettere su il caffè. Preparare la colazione (“anche se non ho fame”, ho aggiunto). Doccia. Vestirsi. Truccarsi. Uscire.

Mi è sempre piaciuto mangiare cucinare. Così abbiamo deciso che mi darò la “spinta” così. Nell’agendina c’è una piccola tabella in cui segno come è stato cucinare quel dato giorno. Cioè, quanta soddisfazione ho provato. Quando ho iniziato non pensavo nemmeno alla possibilità di poter provare un briciolo di piacere nel fare qualsiasi cosa, persino quelle che prima mi regalavano un’immensa gioia. Quei numerini che ogni giorno segno in agenda mi dimostrano il contrario. Poco alla volta, ho riscoperto quanto mi piace cucinare. Quanto bene mi fa sentire. Cucinare per me, non per l’ombra.

Dopo aver preparato la colazione di solito mi sento meglio. Giusto un po’, quel tanto che basta per avviare la giornata. Non è facile, non lo è per niente. Ma ho scoperto che alla fine basta poco, e quel poco so di poterlo fare.

Oggi pancakes. Con la Nutella. Alla faccia dell’ombra.

Domani

Uccellini. Strano, prima nemmeno li sentivo. Immagino siano sempre stati lì, ma forse non c’ho mai fatto caso. Anche se è inverno, anche se il sole sembra giocare a nascondino con le nuvole, loro cantano a prescindere.

«Buongiorno», mi dico. Un piccolo sorriso, solo per me. Mi alzo, senza fretta, sbadigliando pigramente. È abbastanza presto, ma c’è un po’ di luce. Vado in soggiorno, ma prima apro l’armadio per prendere il mio cuscino. Lo sistemo sul tappeto e mi ci siedo sopra, le gambe incrociate. Qualche momento per guardarmi attorno e sistemarmi comodamente. Un paio di bei respiri e lascio andare. Semplicemente, siedo con me stessa.

Fuori c’è silenzio, a parte lo sferragliare del camion per la raccolta dei rifiuti, mio fedele compagno di meditazione. Non mi disturba affatto. Anzi, mi aiuta a ricordare che lo scopo non è chiudersi in se stessi, ma aprirsi a ciò che c’è, così com’è.

Porto la mia attenzione al respiro. Sento l’aria che entra dalle narici, la immagino raggiungere ogni cellula del mio corpo, nutrendola di vita. L’aria esce, il corpo si rilassa. Il respiro è già finito, ma ecco che ne arriva un altro. È così che vanno le cose: tutto ha un inizio e una fine. Anche il dolore. Ho scoperto che anche quello, prima o poi, è destinato a sparire.

rinascita

Nei mesi scorsi ho passato molto tempo a osservarmi. E ho scoperto che quella tristezza, quella sofferenza che offuscava ogni momento della mia giornata non era altro che un artificio. Anche se il dolore era più che reale. Ma ero io a tenerlo in vita. Perché non ero abbastanza, perché non avevo ottenuto niente dalla vita, perché non era giusto che gli altri fossero felici e io no. Almeno così credevo.

Ho scoperto che la tristezza c’è, e che è giusto che ci sia. Perché nella vita ce ne sono molte di cose che possono rendere infelici. Ma l’indugiare nel dolore, il darsi addosso per partito preso, non fanno altro che alimentare quella tristezza. Mi sembrava che non ci fosse speranza per me, né oggi né domani, ma era l’ombra di me stessa a parlare, l’ombra lunga della mia depressione.

Poi un giorno ho deciso di fare un piccolo passo. E poi ne ho fatto un altro. E da allora ne ho fatta di strada. Ogni tanto mi sono fermata, esitando, ma anche quei momenti mi sono serviti per capire meglio la mia malattia.

Ogni tanto mi ritornano in mente alcune delle frasi che mi martellavano in testa, anche se all’epoca non riuscivo nemmeno a vederle. Anche oggi, nella pace e nel silenzio, mentre siedo assieme a me, ogni tanto riaffiorano. “Sei una stupida. Non vali niente. Nessuno può amarti. Che campi a fare?”.

Le noto, le osservo, le riconosco. Un altro respiro. Puff, non ci sono più. Anche loro, come il respiro, sono destinate a sparire.

Ancora qualche minuto, ho voglia di sentire ancora il mio corpo che respira. Oggi mi aspetta una dura giornata, ma non più del solito. E poi anche questa finirà. E poi stasera c’è Paolo.

Sento lo stomaco che borbotta. Cos’è questa sensazione? Fame?

Fortuna che ieri ho preparato in anticipo i muffin per la colazione.

Condividi, se ti va :)

Le emozioni sono il modo che il nostro organismo ha per segnalarci che c’è qualcosa che sta accadendo dentro o fuori di noi. Si tratta quindi di segnali molto importanti, ma quando le emozioni sono troppo intense corriamo il rischio di farci trascinare verso conseguenze che non sempre sono positive per noi.

emozioni

Le emozioni sono una parte fondamentale della nostra vita interiore. Sono il modo che il nostro organismo ha per segnalarci che sta accadendo qualcosa, positivo o negativo che sia, e che istintivamente ci consente di reagire. Vengono elaborate in maniera rapidissima dai circuiti più primitivi del nostro cervello e per questo tendono ad innescarsi in maniera automatica.

Proprio a causa di questa automaticità, a volte non è facile riconoscerle. Quello che potremmo sentire, quando proviamo un’emozione, sono dei cambiamenti a livello fisiologico e un certo “prurito” ad agire. Ad esempio, quando proviamo rabbia potremmo avvertire una generica attivazione  del nostro corpo così come altri segnali più o meno diversi per ciascuno di noi: mani serrate, spalle tese, un “fuoco” dentro. Allo stesso modo, la felicità si può comunemente associare alle classiche “farfalle nello stomaco”.

Ciò che sentiamo può essere così intenso e totalizzante che facilmente si può credere che si tratti di un qualcosa di assolutamente ingestibile o inevitabile. Quasi una forza inarrestabile che agisce contro la nostra volontà, un qualcosa che è altro da noi e che può fortemente condizionare la nostra vita. Ma è davvero così? Davvero non possiamo fare nulla per gestirle?

Quali sono le emozioni?

Non è semplicissimo riuscire a dare una forma a qualcosa di così intimo e “sfuggente” come le emozioni. Numerosi ricercatori e studiosi hanno elaborato altrettante classificazioni degli stati emotivi, ma sicuramente una delle più importanti è quella elaborata da Paul Ekman, un pioniere dello studio delle emozioni.

Lo psicologo statunitense, dal quale tra l’altro hanno preso spunto  i creatori della serie tv “Lie to me”, distingue le diverse emozioni in primarie e secondarie. Le emozioni primarie hanno la caratteristica di essere innate e comuni a tutti gli esseri umani, sono cioè universali. Le emozioni secondarie sono per di più il frutto della combinazione tra quelle primarie e le variabili legate alle diverse culture.

Le emozioni primarie, quelle che sono alla base del patrimonio emotivo di ognuno di noi, sono la gioia, la tristezza, la paura, la rabbia, il disgusto, la sorpresa e il disprezzo (a proposito di cinematografia, forse avrete notato come le prime cinque siano quelle rappresentate nel film “Inside Out”).

Quelle secondarie, che si originano nel corso dello sviluppo individuale a partire dalla cultura di riferimento, sono più numerose e complesse. Tra queste troviamo l’ansia, l’invidia, la vergogna, la nostalgia, la gelosia, la delusione, il rimorso, la speranza e la rassegnazione.

A cosa servono le emozioni?

Per dirla in parole povere, le emozioni sono il punto di incontro tra noi (l’interno) e il mondo che ci circonda (l’esterno). Sono le reazioni che si manifestano dentro di noi quando accade qualcosa di significativo nel “nostro” mondo. In particolare, nascono dalla interazione tra i nostri bisogni e desideri e le circostanze che possono avere un’influenza su questi.

Ad esempio, se sto camminando per strada e mi imbatto in un tipo sospetto con un coltellaccio in mano, proverò immediatamente paura. Questo perché la circostanza esterna (il tipo col coltellaccio) rappresenta una potenziale minaccia al bisogno fondamentale di sopravvivere.

Oppure, tra il banco carni del supermercato sento una puzza tremenda e provo un forte disgusto. Che faccio, lo compro quel filetto? No, perché istintivamente il mio corpo mi ha segnalato: “Se mangi questo puoi sentirti male, potresti addirittura morire”.

Ovviamente, in quanto reazioni, sono piuttosto rapide e automatiche. Ma va benissimo così! Immaginiamo di dover analizzare ogni singolo dettaglio per capire, ad esempio, se scappare o andare avanti ignorando l’altro umano col coltello, o se mangiare comunque quel pezzo di carne perché sempre di cibo si tratta: ci saremmo già estinti da tempo.

Insomma, le emozioni sono il segnale istintivo che il nostro organismo innesca quando si trova in determinate circostanze che possono avere un impatto significativo su noi stessi e la nostra vita (non necessariamente negativo, la gioia infatti ci segnala che c’è qualcosa di positivo per noi). Che questo segnale sia sempre accurato e ci conduca a scelte funzionali, però, non è sempre detto.

Emozioni = Azioni

La parola emozione viene fatta derivare dal latino ex-movere, letteralmente “muovere fuori”, ovvero smuovere, portare fuori. La chiave, qui, è il verbo muovere. Muoversi significa agire. E alle emozioni, di solito, seguono delle azioni.

Se ho paura, scappo. Se provo disgusto, evito. Se provo rabbia, aggredisco. Agire d’istinto, sull’onda dell’emozione, in alcune circostanze può salvarci la vita, ma altre volte può invece complicarcela.

Immaginiamo di aspettare il nostro turno per un temutissimo esame orale e di provare una forte ansia. Siamo estremamente preoccupati di fare una brutta figura davanti al professore e temiamo le conseguenze che ne potrebbero derivare. Percepiamo, cioè, un pericolo. Istintivamente si tratta di un pericolo molto reale, perché per noi è molto importante essere apprezzati dagli altri, e fare una brutta figura è una cosa che assolutamente non vogliamo.

In una situazione del genere, se l’emozione che proviamo è molto forte (alimentata da credenze e desideri rigidi e altrettanto forti) tendiamo a re-agire allontanandoci dal pericolo. Alziamo i tacchi e, quatti quatti, andiamo via dall’aula. Ben fatto! Anche oggi abbiamo evitato di fare una brutta figura! Certo, manca un esame sul libretto (e la prossima volta non è detto che ci sentiremo abbastanza preparati per affrontarlo senza perdere la faccia), ma almeno le apparenze sono salve!

In questo caso, l’emozione si è tradotta effettivamente in azione. Le conseguenze che ne deriveranno (un altro esame da dare, stress, senso di colpa, e-ora-chi-glielo-dice-ai-miei?) saranno il frutto della reazione istintiva che si è innescata in risposta a ciò che è stato provato. La domanda è: potevano andare diversamente le cose?

Emozioni disfunzionali

Le emozioni possono essere un potente strumento per guidarci tra le vicissitudini della vita. In un certo senso, rappresentano il nostro “angelo custode”. Solo che a volte questo angelo custode è un po’ troppo pedante, per non dire paranoico. Per stare sul sicuro, infatti, tende a sopravvalutare qualunque cosa possa rappresentare un pericolo per la nostra sopravvivenza (o meglio, per ciò che riteniamo essere sopravvivenza).

Capita, allora, che un’emozione sia troppo intensa o dolorosa e che possa prendere il sopravvento sulla ragione facendoci re-agire senza starci troppo a pensare, solo perché l’istinto ci dice che è così che dobbiamo fare.

A volte ci va bene, altre volte ci va decisamente male. Pensando soltanto all’emergenza, infatti, si rischia di perdere la prospettiva del quadro più generale: rispondendo solo alle circostanze immediate, rischiamo di compromettere aspetti molto più importanti della nostra vita. Pensando all’esempio di prima, evitare di sostenere un esame ci tiene al riparo dalla sofferenza di quel momento, ma è nulla rispetto alle ripercussioni che alla lunga potrebbero dipendere da quell’evitamento, soprattutto se si ripete nel tempo.

Così, un’emozione può rivelarsi disfunzionale perché, in ultima analisi, potrebbe portarci a reagire in modi che non ci sono utili e che non fanno il nostro interesse. Se l’emozione non ci consente di pensare con chiarezza e quindi di agire in maniera efficace rispetto ai nostri desideri e obiettivi più importanti, allora potrebbe non essere funzionale ai nostri scopi.

Gestire le emozioni

Per farla breve, le emozioni rappresentano nient’altro che dei segnali. Dei segnali sicuramente importanti, visto che in passato hanno salvato la vita ai nostri progenitori e hanno contributo persino a strutturare le prime società, ma che in certe occasioni, specialmente nell’età moderna dove tutto è più facile ma allo stesso tempo tremendamente più complicato, possono rivelarsi inesatti, se non addirittura dannosi.

Il problema, quindi, non sono le emozioni in sé, ma la lettura che ne facciamo. Ignorarle è quasi impossibile (e non è detto che sia utile), seguirle pedissequamente è sbagliato. Se al solo pensiero dell’esame lasciamo che l’ansia prenda il sopravvento, potremmo leggere lo stesso paragrafo per ore ma non saremo in grado di concentrarci al punto da capirne il significato.

Se però ci prendiamo del tempo per capire cosa ci sta succedendo e quali paure e credenze ci sono dietro a quell’emozione, se cioè ci concediamo la possibilità di ascoltare davvero cosa il nostro istinto ci sta comunicando, allora forse potremmo capire davvero cosa fare in quel momento.

“Ho paura di fallire, questo sì, ma se mi lascio prendere da questa paura al punto da non riuscire nemmeno a studiare, non sarebbe ancora più probabile il fallimento? Cosa posso fare per lenire questa sofferenza? Ma, in fondo, sarebbe davvero così tremendo fallire questo esame? Sarebbe davvero irrimediabile?”

emozioni

Tutto scorre

E nel frattempo, mentre cerchiamo di ascoltarci con apertura e senza giudizio, potremmo anche fare una scoperta interessante: quell’ansia non è più. Adesso, proprio ora, non si tratta più di ansia, ma semplice preoccupazione. Un lieve mormorio interno che ci esorta a fare di più se vogliamo riuscire in quell’esame, piuttosto che un tumulto assordante che, invece di aiutarci, non fa altro che spaventarci, confonderci e bloccarci.

Lottare contro il proprio istinto, contro delle emozioni così intense da sentirle nelle ossa e che sembrano essere parte di noi, è molto difficile. In un certo senso, è lottare contro sé stessi.

Le emozioni sono una grande risorsa. Sono la porta che può condurci al nostro mondo interiore, fatto di sogni, desideri, ma anche di paure. Non bisogna avere paura di quale paesaggio ci troveremo a contemplare, perché è un qualcosa che dentro di noi esiste a prescindere da se lo vediamo o no. Osservarlo, conoscerlo e capirlo può invece fare una grande differenza.

Perché è solo se riusciamo a capire cosa vogliamo e cosa non vogliamo, cosa possiamo e cosa non possiamo, che potremo davvero andare incontro alla nostra felicità.

Se vuoi, sono pronto per accompagnarti lungo la tua strada.

Condividi, se ti va :)

Da fuori non si vede, ma dentro è più che reale. Continuare ad andare avanti, giorno dopo giorno, ma sentirsi sempre stanchi e senza energie. È la “depressione ad alto funzionamento”: quando si è in grado di “funzionare” nella propria vita, ma non di essere felici.

depressione ad alto funzionamento

Ilaria si alza ogni mattina per andare a lavoro. Le cose da fare sono sempre tante, ma tutti sanno che Ilaria è una gran lavoratrice e non si lamenta mai. Il capo la loda sempre per l’impegno e la puntualità. Cerca sempre di mettere su un bel sorriso quando è necessario interagire con i suoi colleghi, ma spesso preferisce passare la pausa caffé alla sua scrivania. Spesso viene invitata a unirsi a loro per un aperitivo dopo il lavoro, ma ha sempre qualche scusa pronta e credibile per declinare l’invito.

Ogni giorno Ilaria torna a casa, stanchissima, mette degli abiti comodi e si toglie la maschera. Accende la TV, il canale non è importante, si raggomitola sul divano e si perde nelle vite degli altri. Ogni tanto arriva un messaggio su Whatsapp, spesso amiche che le chiedono di uscire, ma queste proposte si stanno diradando sempre più. Ilaria declina con gentilezza, e se qualcuno le chiede come va, la risposta è sempre: «Bene, grazie».

La serata passa così, con lo sguardo nel vuoto e la sensazione che le cose così proprio non vanno. Domani sarà un altro giorno, ma già pensa alla fatica che farà per alzarsi dopo l’ennesima notte passata a rigirarsi. Pensa alle mille piccole commissioni che dovrà fare al lavoro, e a quanta energia le richiedono. Energia che Ilaria sente di non avere più. Sa che dovrà indossare di nuovo la maschera, perché è importante che gli altri non si accorgano di quanto è triste e vuota la vita di Ilaria.

Depressione o non depressione?

Quando parliamo di depressione, potremmo immaginare una persona raggomitolata su sé stessa nel letto, nel buio della sua indicibile sofferenza. In effetti, è un’immagine molto appropriata per definire la “classica” depressione. Chi è depresso tende a isolarsi, a galleggiare in stati di estrema tristezza e manca di energie e di voglia per svolgere attività relativamente semplici, come alzarsi dal letto la mattina.

Ilaria però riesce ad alzarsi dal letto. E va a lavorare, ogni santo giorno. Anche se ogni piccolo compito è estenuante come scalare una montagna. Tende a evitare il contatto con gli altri, ma se è costretta a interagire riesce a farlo, anche se con gran fatica. Ma dentro di sé c’è un turbinio di pensieri che raccontano di come sia triste e scialba la sua vita, con nessuna prospettiva per il futuro, nessuna voglia di andare avanti. Fa quello che deve fare per tirare avanti giorno dopo giorno.

Gli altri non lo sanno, non lo immaginano nemmeno, ma Ilaria è la classica persona che potrebbe essere definita come “depressa ad alto funzionamento”.

Depressione ad alto funzionamento

Ufficialmente non esiste una diagnosi di questo tipo. Per i manuali diagnostici o si rispettano i criteri per un disturbo oppure non lo si ha o questo non esiste. Ma a Ilaria non le importa un granché nemmeno della sua vita, figuriamoci dei manuali diagnostici.

La differenza fondamentale tra la depressione maggiore e una depressione ad alto funzionamento, al netto dei criteri diagnostici, è che chi soffre di quest’ultima sembra vivere una vita apparentemente normale. Cioè, è in grado di funzionare.

Una persona con una depressione conclamata spesso non è nemmeno in grado di alzarsi dal letto, figuriamoci andare a lavoro o prendersi cura di sé. Quando si è alle prese con una depressione ad alto funzionamento, invece, queste attività vengono sì svolte quotidianamente, ma richiedono un’energia e uno sforzo difficili da immaginare. Insomma, la persona riesce a mantenere una vita più o meno attiva, ma ogni attività è improntata alla semplice sopravvivenza.

Quello che gli altri non vedono

Dall’esterno tutto questo non si vede e nessuno sospetta niente, perché non c’è motivo di considerare Ilaria una persona depressa. È in grado di interagire con le persone, anche se la natura dei discorsi è sempre piuttosto superficiale e ha sempre una buona scusa per declinare degli inviti, ma la realtà è ben diversa. Le interazioni sociali non sono altro che l’ennesimo compito da svolgere, non un piacere.

Ilaria sembra funzionare come chiunque altro, ma diventa ogni giorno più faticoso. Non ha più energie, spesso è stanca e la spiegazione che dà agli altri è un ritornello su come il lavoro ultimamente sia molto stressante.

Solo lei sa cosa significa tornare a casa tutti i giorni e finalmente lasciarsi andare alla tristezza. Togliere la maschera e tirare i remi in barca. E contemplare la propria stanchezza, la mancanza di forza e di stimoli per alzarsi da quel divano, l’assenza di una prospettiva. Certo, in teoria sarebbe bello uscire per strada e parlare con la gente, ma a che pro? Nulla cambia, il dado è tratto: il domani sarà soltanto l’ennesimo oggi.

Vivere, non funzionare

Ilaria fa quello che deve fare andare avanti, ma è un semplice “tirare a campare”. Non ha sogni, non ha obiettivi, non ha speranze. Il futuro è indefinito, tutt’al più è una grigia fotocopia di quello che è stato ieri e oggi. Andare avanti, senza una meta, solo per inerzia.

Ma vivere è molto, molto di più. Significa essere nel presente e apprezzare quanto di buono c’è in ogni giorno, godere dei momenti di felicità ma anche cercarli attivamente, facendo ciò che ci piace e con le persone che ci fanno stare bene. Vivere è anche guardare avanti e sperare in un domani migliore. Porsi degli obiettivi e andare dritti, con fiducia e risolutezza, in direzione del loro raggiungimento.

Questo forse è ciò che manca a Ilaria. Riscoprire le piccole gioie quotidiane che esistono già ma che non riesce più a vedere: l’aroma del caffé che risveglia i sensi quando al mattino gli occhi sono ancora mezzi chiusi, il profumo dei fiori quando passa davanti al fioraio, la soddisfazione di un lavoro fatto bene, l’abbraccio di un’amica che è contenta di vederti.

Riaprire il cassetto, da tempo chiuso con molteplici lucchetti, dove stanno a riposare i sogni: nient’altro che altri momenti belli che non sono qui, non sono ora, ma saranno, forse, un domani.

depressione ad alto funzionamento

Giù la maschera

Quante persone, nella vita di tutti i giorni, lottano per andare avanti avvertendo un angoscioso senso di vuoto dentro di sé? Sono quelle stesse persone che leggono storie sulla depressione e non si riconoscono nell’immagine della persona raggomitolata nel letto, che si dicono: “Io non sono così, ma perché non riesco a essere felice?”.

Vivere è molto più che stamparsi in faccia un sorriso forzato per affrontare l’ennesima giornata che ci è stata concessa. Quanti di noi, però, considerano ogni giorno che passa come l’ennesima prova da superare? Quanti si chiedono cosa c’è di sbagliato in loro e temono la risposta più della domanda?

Andare avanti con indosso la maschera di chi sta bene non è però l’unico modo per cercare di affrontare la tristezza e l’incertezza che assediano la nostra vita. Condividere il proprio dolore con chi ci è accanto, chiedere aiuto a chi ci vuole bene o rivolgersi a un professionista possono fare la differenza tra il restare intrappolati in un indefinito grigiore e il rivedere la luce alla fine del tunnel.

So che non è facile, ma trova il coraggio di togliere la maschera. Perché nessuno deve soffrire in silenzio e affrontare, da solo, un dolore che appare più grande persino di sé stessi.

 

Condividi, se ti va :)

Il modo in cui reagiamo di fronte a un evento dipende sostanzialmente dal modo in cui lo valutiamo. Ma se queste valutazioni fossero in realtà frettolose e imprecise? Se ci fossero degli errori nel nostro modo di pensare? Che effetto avrebbero questi errori sul nostro modo di rispondere a quello che ci succede?

distorsioni cognitive

Come rispondiamo a determinate situazioni dipende fondamentalmente dal modo in cui le vediamo, cioè da come vengono automaticamente valutate dalla nostra mente. Il meccanismo, già introdotto in un precedente articolo, è molto semplice: se il nostro sistema cognitivo valuta la situazione come pericolosa, l’intero organismo scatta sull’attenti e si predispone a reagire al presunto pericolo.

Essere in grado di valutare per tempo una situazione potenzialmente pericolosa può fare la differenza tra il vivere e il morire, o quantomeno così è stato così in epoche più remote, quando il pericolo di lasciarci le penne era all’ordine del giorno. Immaginiamo di passeggiare in un bosco e di intravedere una sagoma lunga e sottile e di avvertire un rumore sospetto tra il fogliame: a cosa pensa il nostro cervello? È un serpente o un rametto? Nel dubbio, automaticamente punta sul serpente. La conseguenza è un’attivazione fisiologica che facilita la fuga dal pericolo e l’azione relativa di allontanarsi dal posto.

A questo punto importa poco se si trattasse davvero di un serpente o se fosse invece un rametto inoffensivo: ciò che ci interessa è osservare come ciò che proviamo e ciò che facciamo dipenda da come valutiamo una data situazione, cioè da come la pensiamo.

Falsi allarmi

…alla fine era soltanto un rametto, e il rumore chissà da cosa è stato causato. Per fortuna nessun pericolo immediato. Certo, ci siamo presi un bello spavento, ma alla fine tutto è bene quel che finisce bene, giusto?

Oggigiorno è molto più difficile imbattersi in un serpente mentre si passeggia in mezzo alla natura, ma il meccanismo di valutazione resta comunque attuale ed è più vivo che mai. Tant’è che è esattamente ciò che si attiva quando ci troviamo di fronte a un qualunque evento, piccolo o grande che sia.

E così come per il serpente/rametto, è sempre possibile fare errori di valutazione, soprattutto considerata la chiave di lettura “allarmistica” di un cervello che si è evoluto nel corso di centinaia di migliaia di anni proprio per tenerci alla larga da potenziali pericoli.

Insomma, falsi allarmi possono capitare e alla fine va bene così, soprattutto se parliamo di situazione estreme. “Better safe than sorry”, direbbero gli inglesi. Ma come può tradursi questo meccanismo automatico e dal carattere allarmistico nella vita di tutti i giorni? Cosa succede se sistematicamente tendiamo a valutare delle situazioni come se fossero “pericolose” quando in realtà non lo sono?

Nuovi pericoli, vecchie abitudini

A questo punto potremmo anche chiederci: quante nostre reazioni emotive e comportamentali dipendono da una valutazione troppo frettolosa e imprecisa della realtà?

Pericolo, oggi, non è più il morso velenoso di un serpente. Pericolo, oggi, è restare soli, non avere abbastanza soldi, sentirsi inutili, non riuscire a svolgere un lavoro in tempo. Questo e molto altro è ciò che in quest’epoca si teme, e ognuno di noi teme alcune cose più di altre. Ma anche se il mondo è cambiato, i bisogni sono cambiati e le paure sono cambiate, il modo in cui funziona il nostro cervello è sempre lo stesso: rapido, automatico, prepotente.

Se ci lasciamo trascinare da meccanismi di valutazione immediati ma altamente fallibili, si corre il rischio di commettere errori importanti nel nostro modo di vedere le cose, con conseguenze spesso significative rispetto a come ci sentiamo e a cosa facciamo.

Fumo negli occhi

Già, perché il nostro cervello sbaglia molto più di quanto immaginiamo. E lo fa in maniera molto sottile, forte di un’autorità che acriticamente gli attribuiamo data la nostra tendenza a considerare “verità” qualunque cosa ci passi per la testa.

Se però ci fermiamo un attimo a valutare quei pensieri automatici, frutto di una prima valutazione rapidissima e inconsapevole, potremmo scoprire che alcune delle cose che pensiamo sono in realtà assolutamente sbagliate, se non addirittura assurde.

Siamo davanti a quelle che vengono tecnicamente definite distorsioni cognitive: errori logici del pensiero che influenzano il nostro modo di valutare le situazioni, e quindi ciò che proviamo e le azioni che compiamo. Nient’altro che fumo negli occhi, che ci impedisce di vedere con chiarezza ciò che abbiamo davanti.

Le distorsioni cognitive

Esistono diversi tipi di distorsioni cognitive, ed è importante imparare a riconoscerle in modo da individuarle tempestivamente quando si presentano, così da poter valutare se in quel momento stiamo ragionando in maniera lucida o se invece ci siamo lasciati trascinare dai nostri abituali e a volte controproducenti modi di pensare.

Quella che segue è una lista delle distorsioni cognitive più frequenti:

  • Pensiero “tutto o nulla”. Vedere le cose per categorie opposte e senza gradazioni intermedie: “Se non sono il più bravo significa che faccio schifo”.
  • Catastrofizzazione. La tendenza a considerare solo gli esiti negativi di una situazione, ignorandone possibili altri, specialmente se positivi o neutri: “Se sbaglio la presentazione sarà un disastro, verrò umiliato davanti a tutti e perderò il lavoro”.
  • Doverizzazioni. La visione rigida che alcune cose debbano essere in un determinato modo, altrimenti si andrebbe incontro a conseguenze spiacevoli: “Devo essere sempre gentile e accondiscendente, altrimenti lui si stancherà di me e mi lascerà”.
  • Ipergeneralizzazione. Dare importanza a un singolo evento al punto da considerarlo come prova di un aspetto più generale, o, in parole povere, fare di tutta l’erba un fascio: “Se non ha voluto uscire con me significa che nessuno vorrà mai farlo”.
  • Etichettamento. Attribuire un giudizio globale a sé stessi o agli altri invece che circoscriverlo ad una determinata circostanza: “Non sono in grado di compilare questo documento, quindi sono un fallimento”.
  • Squalificare/sminuire il positivo. Trascurare le prove o le esperienze positive o non dar loro peso quando si valuta una certa situazione: “Se gli altri mi fanno dei complimenti è solo perché sono gentili, in realtà non sono in grado di fare nulla”.
  • Ragionamento emotivo. Confondere ciò che si sente (si crede) con quello che è: “Sento che non ce la farò, quindi sicuramente andrà male”.
  • Astrazione selettiva. Prestare attenzione a un singolo dettaglio piuttosto che considerare il quadro generale. Ad esempio, al termine di un primo appuntamento ricco di momenti positivi: “Non mi ha dato neanche un bacio sulla guancia, si vede che non le piaccio”.
  • Lettura del pensiero. Ritenere di sapere cosa pensano gli altri e valutare la situazione in base a questo senza considerare ulteriori prove: “Ha sbadigliato, starà pensando che sono noioso”.
  • Personalizzazione. Attribuire determinati comportamenti degli altri a fattori personali senza considerare altre possibili spiegazioni: “Se mi ha salutato frettolosamente e non si è fermato a parlare con me è perché gli sto antipatico”.

distorsioni cognitive

Sbagliando si impara?

Insomma, non sempre il nostro modo di ragionare è così “ragionevole”! Anzi, molto spesso ci lasciamo condizionare dalle nostre abituali modalità di pensiero e finiamo per valutare alcune situazioni in maniera sostanzialmente errata.

Cosa può significare per una persona che soffre di depressione etichettarsi come incompetente davanti a una banale difficoltà? Come può una persona gestire la propria ansia se è convinta che ciò che accadrà sarà sicuramente un disastro e non c’è nulla da fare per rimediare? Come può una persona vivere serenamente la relazione con il proprio partner se è sottoposta a doveri, obblighi o regole senza senso?

Che effetto può avere su di noi considerare corrette conclusioni sbagliate alle quali crediamo ciecamente? Quanto di ciò che proviamo, quante delle azioni che facciamo dipendono da errori logici come quelli che abbiamo visto?

Oltre la cortina

La prima impressione conta solo se la accettiamo come vera, senza metterla in alcun modo in discussione. Ma se ci fermiamo a osservare cosa pensiamo e come pensiamo, potremmo scoprire che i nostri atteggiamenti, le nostre emozioni e le nostre azioni potrebbero nascere da semplici errori di ragionamento. Semplici, ma dalle conseguenze a volte estremamente significative.

Ma agli errori, spesso, si può rimediare. Imparare a riconoscere le distorsioni cognitive tipiche del proprio modo di pensare e non saltare immediatamente alle conclusioni può essere il primo passo per una maggiore consapevolezza delle nostre reazioni.

Per imparare a pensare, emozionarsi e agire in maniera più funzionale e adeguata. Oltre che più corretta, per noi stessi e per gli altri.

Condividi, se ti va :)

La fine di una storia d’amore può essere un evento molto doloroso, al punto da sentirci completamente sopraffatti e senza speranze di riprovare felicità. Scopriamo insieme alcuni consigli che possono aiutarci a superare questo periodo di intensa sofferenza.

relazione

Notti passate a rigirarsi nel letto, gli occhi gonfi di lacrime. Non mangi più, e quel poco che mangi non ha più sapore, non dà più piacere. Nessun sorriso, nemmeno un accenno, e pensi che non potrai farlo mai più. Ogni cosa ti ricorda quella persona che prima c’era, ma che adesso non c’è più. Senti solo un vuoto enorme, spaventoso e incolmabile, fatto di domande, rimpianti, paure.

Quando una relazione va in pezzi, tutto il resto crolla. I sogni, le speranze, perfino la normale quotidianità: ogni cosa è in frantumi. Tutto è messo in discussione: il tuo senso di sicurezza, la tua autostima, la tua sessualità, le relazioni con gli altri, il tuo ruolo nel mondo. Ci si sente confusi, isolati, impauriti per un futuro così diverso da come era stato immaginato.

“Come sarà la mia vita adesso? Cosa ne sarà di me? Ne uscirò mai? Come faccio a ricominciare?”. Mille dubbi e mille domande, ma nessuna certezza a parte il dolore per un amore che non è più.

Cosa fare quando finisce una relazione? Come fare a riprendere in mano la propria vita e superare tutto questo?

Elaborare il lutto

La fine di una storia d’amore rappresenta un vero e proprio lutto. È la perdita di una persona per noi importante e che adesso non fa più parte della nostra vita, anche se è ancora viva. Ma il lutto non è solo per la perdita di quella persona: è anche la perdita di uno stile di vita, di un supporto costante a livello emotivo, sociale, a volte anche economico. E poi c’è la perdita di speranze, sogni e piani per un futuro che adesso appare quantomai incerto e spaventoso.

Le emozioni associate a queste perdite fanno paura. Sono così intense che sembra di non poterle sopportare in alcun modo, e soprattutto sembra non possano avere mai fine. Anche volendo, non si possono mettere da parte. Certo, si può fare finta di star bene, di avere la scorza dura, ma dentro quelle emozioni restano e urlano forte. La cosa migliore è lasciarle fluire, per quanto doloroso possa essere. Lasciare cioè che il lutto faccia il suo corso.

Più facile a dirsi che a farsi, ma c’è qualcosa che possiamo fare per favorire questo processo:

  • Non soffocare le tue emozioni. Non parliamo solo di tristezza, ma anche di rabbia, risentimento, paura, confusione: è importante riconoscere cosa stiamo provando e non negare ciò che sentiamo. Ignorare queste e altre emozioni non ha altro effetto che prolungare il processo di elaborazione, e quindi prolungare la loro permanenza. Ricorda che queste emozioni non saranno per sempre: col tempo, le proverai sempre meno e diventeranno meno intense.
  • Esprimi ciò che provi. Parlare agli altri delle proprie emozioni può essere difficile a prescindere, ma in una situazione di perdita può davvero fare la differenza. Condividere il tuo dolore con chi ti vuole bene alleggerirà il tuo fardello ti farà sentire meno solo. Un’altra possibilità è mettere per iscritto cosa provi, ma attenzione a non rileggere di continuo quanto messo su carta: c’è il rischio di farsi risucchiare di nuovo nel vortice. Meglio un buon amico.
  • Non sconvolgere la tua vita. Quando si sente di aver perso tutto, la tentazione di cambiare città, lavoro, amicizie o altro è molto forte. Come se cambiando aria cambiasse anche quello che si prova. Ma il dolore c’è, forte e sconvolgente, al punto da non farti ragionare con lucidità: evita quindi di fare grossi cambiamenti nella tua vita, prenditi il tempo per capire cosa è meglio per te e il tuo futuro.
  • Ricorda che l’obiettivo è star meglio. Riconoscere ed esprimere ciò che provi va bene, ma non lasciarti trascinare da emozioni distruttive come rabbia, risentimento e colpa: non faranno altro che trattenerti nella valle di lacrime. Non rimuginare troppo su quanto è successo e non cedere all’impulso di volerlo analizzare in ogni piccolo particolare, soprattutto all’inizio. Concentrati piuttosto su cosa puoi fare per stare meglio.

Prendersi cura di sé

Bisognerebbe sempre prendersi cura di sé stessi, visto che, a prescindere dalle relazioni con gli altri, quella con noi stessi è l’unica che sicuramente durerà tutta la vita. Ma è proprio quando dobbiamo affrontare grandi cambiamenti, e più che mai ci sentiamo vulnerabili e spaventati, che abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi per poter, pian piano, ricominciare a vivere.

Nel concreto, ci sono diverse cose che si possono fare per aiutarsi attivamente a ricominciare dopo la fine di un amore:

  • Concediti un periodo di pausa. Da quando è finita ti senti devastato, senza forze e non riesci nemmeno a concentrarti su compiti banali. Non darti addosso e non disperarti se ti senti così. È normale, e passerà, ma per il momento non ha senso cercare di fare tutto come prima. Concediti il permesso di non essere al massimo, almeno per il momento.
  • Prenditi del tempo per quello che ti piace e ti fa stare bene. Invece che controllare compulsivamente il profilo Facebook dell’ex, decidi di fare qualcosa che sia davvero utile per te stesso: esci con gli amici, fatti una passeggiata, prenditi un gelato. Cose semplici, ma che ti aiuteranno a riprovare piccoli attimi di felicità che sembravi aver dimenticato. Programma la tua giornata concedendoti del tempo per ciò che ti piace fare e ti dà soddisfazione, e vedi cosa succede.
  • Cura il corpo e la mente. C’è chi si butta sul cibo, chi sull’alcol o sulle droghe: qualunque cosa pur di soffocare il dolore, anche a rischio di sostituire un problema con un altro. Ma non è questo di cui hai bisogno adesso. Hai bisogno di ritornare in forze e di riprenderti la tua vita, e per farlo è importante che tu ti senta bene con te stesso. Tieniti in forma con lo sport o l’attività fisica e cura la tua alimentazione, fai meditazione o esercizi di rilassamento. Qualunque cosa sia, l’importante è trattare bene il tuo corpo così come la tua mente: non c’è ricetta migliore.
  • Non isolarti. Come abbiamo visto prima, le persone che ci vogliono bene, come gli amici o i familiari, possono darci una grande mano per risollevarci. Non dar retta alla vocina che ti ripete che “hai bisogno di stare da solo” (e poi ormai sai bene che non tutto quello che ti passa per la testa è vero), prendersi cura di sé significa anche mantenere una ricca vita sociale. All’inizio potremmo dover lottare un po’ contro l’impulso a sotterrarci sotto le coperte, ma se vogliamo realmente stare bene abbiamo bisogno anche di stare con chi ci vuole bene.

relazione

Respirare, finalmente

All’inizio potrai sentire solo un grande vuoto e il dolore che lo delimita, ma questo non vuol dire che sarà sempre così. Arriverà il giorno in cui starai bene. È semplicemente così, perché ogni cosa ha un inizio e una fine: così come è finita la tua relazione, finirà anche la sofferenza.

Così, giorno dopo giorno, il dolore si placherà, lui o lei smetteranno di tormentare il tuo cuore e la tua vita si riempirà nuovamente di cose belle, nonostante le difficoltà che inevitabilmente incontrerai lungo il cammino.

E forse scoprirai che i tuoi sogni in realtà non si sono mai infranti, ma che semplicemente hanno cambiato forma, mantenendo però lo stesso protagonista di sempre: tu.

È nei momenti di maggiore crisi che possiamo riscoprire quanta forza abbiamo dentro, anche se all’inizio ci sembra impossibile, visto quanto ci sentiamo fragili e inermi. Non abbiamo mai voluto che la nostra relazione finisse, ma così è andata, e non possiamo farci molto. È un’altra dura lezione alla quale può sottoporci la vita, un insegnamento dal quale imparare il più possibile, senza paura. Per capire cos’è che non è andato e cosa fare affinché la prossima volta (perché c’è sempre una “prossima volta”) le cose vadano meglio, Un’opportunità per crescere e migliorarci, anche se non l’avevamo mai richiesta.

Ma all’inizio, quando attorno c’è solo buio, tutto ciò che possiamo fare è prenderci tempo per guarire e ritrovare un po’ di luce, prendendoci cura di noi stessi con pazienza e amore.

Se senti di non farcela, se pensi di aver bisogno di aiuto, io ci sono.

Condividi, se ti va :)

Riuscire a comunicare in maniera efficace non è sempre facile, e molte volte le relazioni che instauriamo sono il risultato di queste difficoltà. È possibile però riuscire a comunicare meglio e avere relazioni più soddisfacenti semplicemente imparando a comportarsi in maniera assertiva: come essere pienamente sé stessi quando si è con gli altri.

assertività

Nel bene e nel male, tutti noi siamo profondamente inseriti in un tessuto di relazioni sociali. Che sia il rapporto con il partner, quello con il capo o con il vicino di casa, in ciascuna di queste relazioni ci siamo comunque noi, con le nostre esigenze e i nostri desideri. Che non sempre coincidono con quelli dell’altro. E non sempre è facile riuscire a mediare tra i nostri bisogni e quelli dell’altro.

Ciascuno di noi presenta delle caratteristiche relazionali e comunicative assolutamente uniche che si esprimono all’interno dei rapporti che instauriamo con gli altri. Rapporti che possono essere molto diversi tra di loro, e allo stesso modo noi stessi possiamo sentirci “diversi” in relazioni differenti. Infatti, il modo con cui ci rapportiamo al “supermegadirettore” potrebbe essere completamente diverso rispetto a come siamo con la persona che amiamo. E non è detto che in quest’ultimo caso la relazione sia più facile!

Alcune persone possono avere molte difficoltà nel riuscire ad esprimere i loro sentimenti, i loro bisogni e le loro idee nel rapporto con altri. Non è necessariamente una questione di timidezza o di inibizione, ma piuttosto di comunicazione soddisfacente ed efficace. Un concetto particolarmente utile per migliorare le proprie abilità comunicative e il rapporto con sé stessi e gli altri è quello di assertività.

Assertiviche?

Il termine assertività (reso anche come affermatività) deriva dal latino asserere, che altro non significa che “asserire”. Ma asserire, cioè esprimere, cosa? Assertività significa nient’altro che esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti, le proprie opinioni in maniera efficace e produttiva.

Una descrizione dell’assertività che a me piace molto mette l’accento sul far valere i propri diritti nel rispetto di quelli dell’altro attraverso di una modalità di comunicazione chiara, diretta e coerente.

In generale, l’assertività si compone di diverse abilità comunicative e relazionali, abilità che possono essere imparate ed esercitate e che consentono di comunicare in maniera funzionale e rispettosa. Tra queste troviamo:

  • Espressione dei sentimenti. Cioè comunicare ciò che si prova, nel bene e nel male;
  • Indipendenza. La capacità di esprimere le proprie opinioni e di non conformarsi necessariamente alle pressioni degli altri;
  • Iniziativa. Essere in grado di agire e comunicare in modo da soddisfare i propri bisogni. Quindi riuscire a fare richieste, chiedere favori, ma anche essere in grado di mediare;
  • Difesa dei diritti. Ad esempio, dire di “no” a richieste che ci vengono fatte;
  • Abilità sociale. In generale, essere a proprio agio nel relazionarsi con l’altro, che sia il chiedere informazioni a uno sconosciuto o corteggiare una persona che ci piace.

Il training all’assertività nasce in ambito clinico come soluzione per chi manifesta importanti difficoltà comunicative, ma può essere applicato a chiunque voglia anche solo imparare a comunicare meglio e con maggiore consapevolezza in situazioni in cui potrebbe non riuscire bene a farlo. Magari a causa di concenzioni errate legate alla comunicazione e al rapporto con l’altro o perché, semplicemente, non si è mai imparato a relazionarsi con gli altri in maniera appropriata.

Stili di comunicazione

Nonostante l’ampia variabilità tra le persone, le differenti caratteristiche comunicative e relazionali possono essere comprese all’interno di alcune categorie. Oltre allo stile assertivo, troviamo anche altre due modalità che, idealmente, ne rappresentano gli estremi: la modalità passiva e la modalità aggressiva.

Per iniziare a comprendere le caratteristiche dei tre stili comunicativi, possiamo considerare la capacità di esprimere sé stessi nel rispetto dell’altro. Nella modalità assertiva questa capacità è pienamente presente, mentre chi si caratterizza per uno stile “passivo” tenderà a rinunciare all’espressione di sé e a sottostare al volere dell’altro. La modalità “aggressiva” è invece propria di chi è in grado di esprimere sé stesso ma senza riguardo per l’altro.

È importante chiarire come queste categorie siano più una semplificazione a beneficio dell’esposizione, che rigidi raggruppamenti  nel quale incasellare le persone. Sempre per comodità di spiegazione, tuttavia, passerò a descrivere le caratteristiche di questi stili comunicativi utilizzando alcuni noti personaggi, secondo un’analogia usata da una mia grande docente.

Fantozzi, il passivo

Come per il famoso ragioniere, la persona con un comportamento passivo tende a subire e a sottomettersi agli altri. Non è in grado di esprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni, teme il giudizio degli altri, non è in grado di dire di no, ritiene gli altri migliori di sé stessa.

Perché si comporta in questo modo? Essenzialmente, per evitare conflitti o compiacere l’altro. Certo, a breve termine sembra una buona modalità di relazionarsi (bye bye ansia!), ma alla lunga, potete scommetterci, prevarrà il senso di sconforto, di impotenza e di frustrazione. Ci sarà un calo dell’autostima e ricadute negative rispetto all’immagine che si ha di sé. Non è insolito, inoltre, che prima o poi si potrebbe anche “sbottare”, arrivando addirittura a esprimere la propria rabbia in maniera incontrollata.

E chi ha a che fare con un “passivo”? Anche qui, all’inizio può anche starci bene, ma più in là potremmo addirittura sentire un certo astio nei confronti di una persona così accondiscendente, senza considerare che possono addirittura emergere sensi di colpa per la sensazione di essersi “approfittato” dell’altro.

Sgarbi, l’aggressivo

Anche se ultimamente sembra essersi un po’ calmato, il noto critico d’arte è celebre per il suo comportamento iroso e sprezzante. La persona con comportamenti aggressivi, a differenza dello stile Fantozzi, tende a prevaricare sugli altri. Quando interagisce con l’altro, l’unica persona che ha davvero importanza è soltanto sé stessa. Non rispetta i diritti altrui, la colpa non è mai sua, pensa che gli altri siano tutti delle “capre”. Le uniche opinioni giuste e che contano sono solo le proprie.

Chi si comporta in questo modo si sente forte e potente, in grado di tenere la situazione sotto controllo grazie ai suoi modi “decisi”. A lungo termine, però, la persona “aggressiva” paga lo scotto di una tensione costante, e non è insolito che provi anche sensi di colpa o di vergogna nei confronti di chi è stato “vittima” dei propri comportamenti.

L’altro, a primo impatto, potrebbe anche rimandargli un’immagine di individuo che sa cosa vuole e come ottenerlo, che è una bella gratificazione. Ma non passerà molto che tenderà progressivamente ad allontanarsi dal “tiranno”: il rischio, per quest’ultimo, è di ritrovarsi isolato, messo da parte a causa dei suoi modi di comunicare e di relazionarsi con l’altro.

La terza via

Tra la sottomissione e l’aggressione, esiste una modalità decisamente più utile: l’assertività. Comportarsi in maniera assertiva significa, essenzialmente, rispettare i propri diritti così come quelli degli altri, avere rispetto delle opinioni e delle emozioni proprie e altrui e non giudicare gli altri. Perseguire i propri obiettivi ma prendersi anche le proprie responsabilità.

Non è facile essere “assertivi”, soprattutto se veniamo da modalità relazionali estreme, ma i vantaggi di una tale modalità di stare in relazione con l’altro sono innegabili. L’assertività porta come conseguenza naturale un sano aumento dell’autostima e del senso di efficacia personale, una maggiore comprensione dei propri bisogni e necessità e una modalità più efficace di perseguirli, oltre che rispettosa dei diritti altrui. Per non parlare del miglioramento della qualità del rapporto con gli altri, a beneficio di entrambe le parti.

In sostanza, avere uno stile assertivo significa saper essere in grado di affrontare con la giusta serenità e in maniera efficace le situazioni problematiche che possono verificarsi nella relazione con l’altro. Per far questo, occorre però uscire dalle solite modalità interattive che abbiamo appreso nel corso della nostra vita e che, per un motivo o per un altro, semplicemente non ci aiutano a raggiungere i nostri scopi. O che ci tengono incastrati in relazioni, sentimentali e non, che non ci portano altro che sofferenza.

assertività

Essere o non essere assertivi

Per delineare le differenze tra i tre stili interattivi, prima ho utilizzato come parametro la capacità di esprimere sé stessi nel rispetto dell’altro. C’è anche un altro elemento, però, che chiarisce ancora meglio cosa significa comportarsi in maniera “assertiva”: la possibilità di scegliere.

Quanto detto fin a ora rispetto alle modalità passiva e aggressiva lascia intendere che queste modalità siano assolutamente sbagliate e inappropriate. Non è così. In alcune situazioni, anzi, potrebbe addirittura essere meglio ritirarsi da un confronto verbale inconcludente o alzare la voce nei confronti di chi ci sta attaccando. Non esiste una ricetta su come ci si comporta in questa o in quella situazione, e l’assertività non è un dogma per cui ci si può relazionare solo in un determinato modo.

Il fattore fondamentale che distingue un comportamento assertivo da uno non-assertivo, è la capacità di scegliere come agire. Assertività è scegliere, consapevolmente e intenzionalmente, nel rispetto di sé stessi e degli altri, cosa fare e cosa dire. Non-assertività, invece, significa semplicemente re-agire alle situazioni, quindi essere in balìa degli eventi e delle decisioni degli altri.

Assertività significa essere pienamente sé stessi e agire di conseguenza. Se vuoi imparare a farlo, io ci sono.

Condividi, se ti va :)

Dai nostri pensieri dipende ciò che proviamo e ciò che facciamo. È possibile conoscere le ragioni per le quali alcune situazioni ci fanno pensare male e, dunque, ci fanno stare male? E cosa c’è dietro questi pensieri?

pensieri

Molte persone vivono le proprie emozioni o mettono in atto dei comportamenti senza essere consapevoli del perché siano presenti. Gli stati emotivi possono così essere vissuti come misteriosi, improvvisi, inspiegabili. Il che, in molti casi, tende a renderli anche peggiori di quello che già sono. Quando una persona prova una forte ansia all’improvviso, oltre al dover fare i conti con la spiacevolezza di quell’emozione, si trova infatti a fronteggiare un evento emotivo che sembra sbucato dal nulla, e questo aumenta la sensazione di paura e di incertezza.

Anche alcune delle azioni che compiamo vengono spesso agite in maniera pressocché automatica. Pensiamo all’accendersi una sigaretta: cosa c’è dietro? Perché lo facciamo? Spesso non ne siamo per nulla consapevoli, al massimo ci limitiamo a dire che stiamo rispondendo a una “sensazione” interna.

Nei disturbi d’ansia è molto frequente il ricorso ai meccanismi dell’evitamento e della fuga: se c’è qualcosa che temo, la evito; se ci sono già in mezzo, fuggo. Perché lo facciamo? Se ci riflettiamo su, scopriamo molto facilmente che mettiamo in atto questi comportamenti semplicemente perché temiamo quello che potrebbe accadere se affrontassimo la situazione. Quello che temiamo, quindi, ha un ruolo fondamentale nel dettare questo genere di azioni. Di conseguenza, ciò che facciamo (e ciò che proviamo) dipende dal modo in cui valutiamo la situazione come più o meno pericolosa o neutra.

Cogito ergo patior

Detto in parole povere: ciò che pensiamo in una data circostanza è direttamente responsabile di come ci sentiamo e di quello che facciamo.  Con il termine “pensiero” si intende, in questo caso, tutto ciò che ci passa per la testa in merito alla valutazione di una situazione. Da questa lettura dipende in larga parte ciò che proveremo in quella circostanza e come potremmo (re)agire in quel contesto.

Quando si è felici, perché si è felici? Proviamo felicità quando constatiamo che è accaduto qualcosa di bello per noi. E anche i comportamenti che potremmo agire rifletteranno questa valutazione. Potrebbe essere lo stesso anche per emozioni che giudichiamo negative, come l’ansia, la tristezza, la rabbia?

Certo che sì. Inevitabilmente, il modo in cui vediamo e giudichiamo la realtà e cosa ci accade conduce a sperimentare delle reazioni emotive congruenti. Semplificando: se ci sentiamo in ansia, è perché valutiamo che c’è qualcosa che ci mette in allarme; se ci sentiamo tristi, è perché valutiamo in maniera estremamente negativa la situazione nella quale ci troviamo.

Pensieri in superficie

Il modo in cui valutiamo le situazioni è in buona parte “inconsapevole”, quindi non è un qualcosa che si fa di proposito. Si tratta dunque di un meccanismo prevalentemente automatico, con i contenuti della valutazione che rifletteranno alcune delle nostre credenze su chi siamo, su chi sono gli altri e sul mondo che ci circonda. Non è facile riuscire a cogliere l’essenza alla base dei nostri modi di valutare la nostra realtà interna ed esterna, ma alcuni pensieri più superficiali (e quindi più facili da osservare) possono darci indizi importanti sul perché pensiamo in determinati modi.

Spesso basta un minimo di sforzo e di attenzione per cogliere quelle brevi frasi (o immagini, il pensiero può anche esprimersi sotto forma di rappresentazioni visive) che ci passano per la testa un momento prima di sperimentare una determinata emozione. Alcune persone hanno più facilità nel riuscire a cogliere questi pensieri automatici, altre hanno bisogno di maggiore allenamento per poter “fotografare” le rapidissime impressioni che determinano le reazioni emotive, ma in ogni caso è possibile riuscire ad afferrare questi veloci indizi.

Dai pensieri superficiali, poi, è possibile andare via via a ritroso fino a giungere a quelle che vengono definite “credenze di base”, cioè quelle concettualizzazioni su noi stessi, sugli altri e sul mondo che ci portiamo dietro da tutta una vita (ad esempio, “sono un perdente, non valgo niente, sono sbagliato”), e che per tutta la vita hanno avuto un certo grado influenza sul nostro modo di pensare, di sentire e di agire.

Grattando la superficie

Scendendo più in basso, al di sotto della superficie dei pensieri automatici, troviamo inoltre un altro livello, quello delle “credenze intermedie”. Si tratta grossomodo di una serie di assunzioni, regole e atteggiamenti più o meno esplicite che derivano direttamente dalle credenze di base e che dettano la “linea editoriale” dei pensieri più superficiali. Che a loro volta determinano ciò che proviamo e come agiamo.

Le credenze intermedie, semplificando, possono essere viste come una serie di condizioni del tipo “se… allora…”, che connettono le nostre paure più profonde con la lettura della situazione in cui ci troviamo in quel momento. Se quella ragazza mi rifiuta, allora vuol dire che faccio schifo (e nessuno mi può amare). Se non riesco a fare bene questa cosa, allora vuol dire che non sono in grado di fare niente (e sono un fallito). Se non reagisco a questo sopruso, allora vuol dire che gli altri possono approfittare di me (e sono vulnerabile).

Queste condizioni si declinano poi in atteggiamenti, modalità di condotta, regole di comportamento (proprio e altrui) che guidano in maniera molto concreta la vita delle persone. E così come i pensieri automatici si “appoggiano” alle credenze intermedie, queste ultime si declinano a partire dalle credenze di base che ciascuno di noi ha e che spesso si rivelano eccessivamente rigide, ipergeneralizzate e globali, ma soprattutto fondamentalmente sbagliate. Idee sballate che possono purtroppo avere conseguenze molto reali.

L’esame dello studente

Un ipotetico studente universitario potrebbe provare un grado considerevole di ansia nel momento in cui è chiamato a sostenere un esame, mentre un suo collega potrebbe avvicinarsi al professore fischiettando con nonchalance. Qual è la differenza tra i due? Il primo, molto probabilmente, ha valutato la situazione come in qualche modo “pericolosa”, mentre il secondo no. Ma perché la situazione viene valutata come “pericolosa”?

Provando a immaginare quello che può essere successo nella mente del primo studente, potremmo individuare un pensiero [automatico] del tipo: “Non sono abbastanza preparato, non riuscirò a rispondere e farò una figuraccia” (di solito questi pensieri sono molto più coloriti), forse c’è stata anche la visualizzazione di un’immagine degli altri esaminandi che ridono di lui. Questo però non ci dice un granché sul perché gli siano venuti in mente proprio queste cognizioni.

Andando ad esaminare un po’ più in dettaglio questi pensieri, magari si va a scoprire che per il nostro amico “fare una figuraccia” sarebbe semplicemente terribile perché per lui significherebbe che, a differenza degli altri, non è in grado di sostenere una situazione di esame [credenza intermedia]. E cosa implicherebbe il non essere in grado di sostenere una situazione di esame? Sarebbe la prova dell’idea che lo studente ha di non essere in grado di fare nulla, di essere un fallimento, di essere un perdente [credenze di base].

Il ragazzo è all’oscuro di tutto ciò, a malapena può avvertire qualche fuggevole pensiero superficiale (se vi presta abbastanza attenzione) e quello che sente in quella situazione è solo la “strizza”. Cosa fa, allora, il nostro amico? È quasi arrivato il suo turno, l’ansia continua a crescere, e continua a ripetersi “non ce la posso fare!”. Allora, zitto zitto, ripone i libri nello zainetto, si alza e, mestamente, se ne va a casa.

L’esame non l’ha dato (e starà male per questo), ma vuoi mettere questo con il rischio di trovarsi faccia a faccia con un fallimento e con tutto quelle che ne conseguirebbe?

pensieri

Sconfiggere i cattivi pensieri

Come abbiamo visto, i pensieri sono strettamente legati a cosa si prova e a cosa si fa. Cioè alle conseguenze più concrete che possiamo sperimentare nelle nostre vite, che potrebbero diventare i motivi che ci spingono, in determinati momenti, a cercare un aiuto per le nostre sofferenze psicologiche.

A ogni emozione e a ogni comportamento corrispondono dei pensieri che li hanno originati. Vedere questi eventi mentali, comprenderne il significato e imparare a gestirli, a dibatterli, a verificarli (cioè a non darli per scontati) comporta un cambiamento in quello che si prova e in quello che si fa. Cosa sarebbe successo se il nostro amico studente avesse pensato: “Sì, l’esame potrebbe anche andarmi male… ma sarebbe davvero così terribile? Cosa potrebbe davvero accadermi? Rinunciare e andare a casa non sarebbe stato comunque un fallimento?”. Avrebbe provato lo stesso grado di ansia?

L’obiettivo è passare dalla sofferenza automatica e passiva a una maggiore consapevolezza di ciò che viviamo e di come agiamo. Arrivando a mettere in discussione anche le credenze su noi stessi, sugli altri e sul mondo che si trovano più nascoste, in profondità, ma che riecheggiano costantemente nella nostra quotidianità.

Non è facile compiere da soli questo viaggio all’interno di noi stessi, ma è un’esplorazione che vale la pena di tentare, così da raggiungere il centro delle nostre paure e da lì ripartire con maggiore serenità e consapevolezza. Per riprendersi la vita, un passo dopo l’altro.

Se vuoi, possiamo farlo insieme.

Condividi, se ti va :)

Si parla di ansia sociale quando una persona teme il rifiuto e il giudizio degli altri e prova estremo disagio quando si espone in situazioni sociali. Iniziamo a scoprire insieme di cosa si tratta e cosa accade nella mente di chi ne soffre.

ansia sociale

In quest’epoca altamente social, forse più che in passato, è sempre più importante il sentirsi accettati dagli altri. A dirla tutta, il sentirsi parte di un gruppo sociale è un bisogno fondamentale fin dall’alba dei tempi: se un individuo veniva escluso dalla “tribù” poteva tranquillamente dirsi spacciato, visto che avrebbe dovuto sopravvivere in condizioni difficilissime senza il supporto e la collaborazione con gli altri.

Al giorno d’oggi, in teoria, si può sopravvivere benissimo senza far parte di un gruppo sociale, ma qualitativamente non è il massimo. L’uomo è un animale sociale, lo è sempre stato e – probabilmente – sempre lo sarà. Ciascuno di noi ha bisogno degli altri, se non per la loro funzione di supporto quando stiamo male o abbiamo un qualche tipo di problema, quantomeno per l’importanza che gli altri rivestono nel rimandarci un’immagine di chi siamo. Semplicemente, senza la “bussola” dell’opinione altrui non avremmo modo di poterci definire (o almeno così siamo portati a pensare).

Nelle situazioni sociali, cioè quando abbiamo a che fare con altre persone, ciascuno di noi, più o meno consapevolmente, si adopera per far sì che venga ben visto e accettato dagli altri. Solitamente non è un processo forzato, ma ci viene naturale cercare di risultare simpatici, divertenti, affidabili. Non c’è niente di male né di artificioso nel cercare di “conquistare” gli altri o di fare in modo di essere accettati socialmente, poiché tali atteggiamenti rispondono al nostro bisogno di sentirci integrati agli altri.

Il rifiuto è dietro l’angolo

Nonostante i nostri “sforzi”, a volte però può capitare di non riuscire a conquistare i favori dell’altro. Non è che possiamo stare simpatici a tutti, e non è detto che la persona in quel momento si trovi bendisposta verso gli altri. Succede, eccome se succede! Infatti a tutti sarà capitato di non sentirsi pienamente accettati, se non addirittura di essere rifiutati apertamente o giudicati con severità.

Non stiamo parlando del classico “due di picche” da parte della persona che volevamo “conquistare”, ma anche del semplice sentirsi messi da parte e ignorati quando si interagisce con un gruppo di persone che abbiamo appena conosciuto. Nel gioco dell’approvazione sociale si vince e si perde, sarebbe bello se tutti noi riuscissimo a “connetterci” l’un l’altro con uno spirito di accettazione, di curiosità e di sincero interesse, ma purtroppo non è così.

Solitamente, davanti a situazioni di questo tipo ci si resta male per un po’, magari fino a fine serata, ma il più delle volte finisce lì. La maggior parte delle volte tali eventi di “rifiuto” non hanno grossi contraccolpi sul nostro modo di valutarci o di riprovare nuove esperienze di socializzazione. In sostanza, ce ne freghiamo. Ma purtroppo non per tutti è così.

Ansiosi sociali

Alcune persone (molte più di quanto si immagina!), spesso a seguito di eventi in cui si sono sentite rifiutate dagli altri o giudicati in maniera negativa, non riescono ad andare oltre quanto è successo e “se la legano al dito”. Il giusto timore di ricevere un rifiuto in ambito sociale diventa una fobia vera e propria, con conseguenze particolarmente negative sull’immagine di sé e sull’esposizione alle situazioni sociali.

Quello che le persone con ansia sociale temono, sostanzialmente, è l’essere giudicati negativamente dagli altri, magari proprio a causa del proprio modo di comportarsi quando si è in situazioni sociali (“la prestazione”). Per alcune persone le situazioni temute sono relativamente circoscritte (ad es. parlare in pubblico, mangiare davanti agli altri), per altri ancora la paura è più generalizzata e può associarsi a molti eventi sociali.

Paradossalmente, il rischio è la chiusura totale della persona con ansia sociale nei confronti degli altri. Sostanzialmente, dalla paura di essere rifiutati ed esclusi dagli altri, si arriva all’autoesclusione dalla compagine sociale.

Socialmente inadatti?

Come si è visto e come ben sappiamo tutti, a nessuno piace sentirsi rifiutati. Ed è perfettamente normale temere di essere giudicati negativamente dagli altri o di sentirsi esclusi, perché è qualcosa che effettivamente può capitare. Chi soffre di ansia sociale, però, tende a esagerare, e di molto, la probabilità che queste conseguenze possano accadere e i possibili effetti negativi che ne potrebbero derivare.

Questo perché spesso si tende a sottovalutare, e di molto, la propria capacità di agire “normalmente” in ambito sociale (di non sapere cosa dire, di non saper parlare “bene”, di avere una voce poco attraente, di essere goffo).

Ecco dunque che quando a un forte desiderio di dare un’impressione positiva di sé si unisce l’insicurezza e l’incertezza sul riuscirci, le situazioni legate alla socialità diventano fonte di estrema ansia. Gli eventi sociali diventano estremamente pericolosi perché si teme di agire in modo imbarazzante o inadeguato al punto di essere esplicitamente rifiutati e umiliati.

Guardare in direzione sbagliata

Quando si trova in una situazione temuta, la persona che soffre di ansia sociale è, giustamente, molto attenta a individuare segnali di disapprovazione da parte degli altri. Al primo cenno di possibile rifiuto o giudizio negativo, il fobico sociale ottiene la conferma che in lui c’è qualcosa che non va. Ma ciò che vede è davvero ciò che accade?

In realtà, molto spesso capita che la valutazione dei segnali altrui non sia particolarmente oggettiva. Questo perché chi soffre d’ansia sociale, in realtà, tende a fare inferenze su ciò che gli altri possono pensare di lui sulla base di come la persona pensa di apparire agli altri in quel momento. In poche parole: sento di essere goffo, quindi gli altri mi vedranno goffo e perciò verrò giudicato goffo.

Superficialmente, l’attenzione sembra rivolta agli altri, ma in realtà è tutta rivolta verso l’interno, su ciò che si sta provando (e giudicando di sé stessi) in quel particolare frangente. Perciò, se sto facendo un discorso davanti a molte persone e inizio a sentirmi accaldato, immagino che sto arrossendo e mi convinco che quello che sento e vedo io di me stesso è ciò che sicuramente anche gli altri staranno notando. “Guardalo, è tutto rosso! È imbarazzato! Ma cos’è, un bambino che si spaventa di parlare davanti agli altri? Che ridicolo!”. Mentre magari gli altri in realtà sono assolutamente ignari dell’imbarazzo dell’oratore!

E tutto questo che effetto avrebbe sull’effettiva “prestazione”? Com’è parlare in pubblico quando si percepiscono gli altri come ostili? Come andrebbe a finire? Intravedete anche voi un bel circolo vizioso?

ansia sociale

(Non) finisce qui, ma ho un messaggio importante!

A prima vista, l’ansia sociale così delineata potrebbe sembrare una problematica piuttosto banale, ma in realtà quelle che ho descritto sono solo alcune delle componenti che spiegano cosa c’è dietro questa paura delle situazioni sociali.

Molti altri elementi vanno considerati per comprendere a pieno cosa succede nelle mente (e nel corpo) di chi soffre di ansia sociale. Per non dilungarmi troppo e non tediarvi (sempre che non l’avessi già fatto! Ahi, paura del giudizio negativo?), ho preferito mettere da parte altri aspetti, che eventualmente, potrei ripresentare in un secondo post. Spero comunque di essere riuscito a fornire una panoramica, seppur breve, di cosa significa l’ansia sociale.

Vorrei comunque concludere questo articolo introduttivo con un messaggio importante per chi pensa (o sospetta) di soffrire per questa forma di ansia: non pensiate di non poterne uscire. Come per ogni altro problema psicologico, anche questo può essere risolto. Se volete, quando volete, come volete, io ci sono. Se volete parlarne con qualcuno, non preoccupatevi: non vi giudicherò.

 

Ti chiederei di condividere le tue esperienze rispetto al timore del rifiuto o del giudizio, ma se effettivamente per te è un problema non so se lo faresti! Ma se vuoi lasciare un commento o richiedere delle informazioni sentiti libero di farlo!

Condividi, se ti va :)

Al giorno d’oggi si punta sempre più a diventare “qualcuno”, ma sempre più spesso invece ci si sente “nessuno”. Ma chi l’ha detto che per stare bene con sé stessi occorra essere per forza “eccezionali”?

soddisfatti

A chi non piacerebbe un bel lavoro, magari con uno stipendio considerevole? Chi non vorrebbe raggiungere degli importanti traguardi professionali o personali? Chi non vorrebbe stare meglio di come sta adesso? Beh, quasi nessuno. E non c’è niente di male nel desiderare queste e altre cose. Anzi, è assolutamente giusto cercare di migliorare il proprio tenore di vita e il proprio livello di soddisfazione.

Il problema, però, è quando tendiamo a dare un’eccessiva importanza a tutte queste cose, al punto da identificarle come “prove” del nostro essere degni, adeguati o realmente importanti. Qualcosa che possa farci emergere dalla massa, dalla noiosa normalità, per sentirci persone eccezionali, con uno scopo nella vita.

Succede, allora, che se per qualche motivo non riusciamo a raggiungere alcuni dei nostri obiettivi o a soddisfare alcuni dei nostri desideri, possiamo sentirci manchevoli, condannati a una vita a metà, dove non si è ottenuto nulla (o quasi) e non abbiamo potuto esprimere tutto il nostro potenziale.

Ma è davvero così che stanno le cose? Occorre necessariamente “arrivare da qualche parte” per potersi sentire bene e soddisfatti di sé stessi? E se dovessimo ottenere ciò che desideriamo, siamo sicuri che resteremmo felici a lungo?

Volere, fortissimamente volere

Tutti noi desideriamo qualcosa. O meglio, vogliamo qualcosa. Vorremmo essere più belli, più alti, più in forma, più intelligenti, più felici. Oppure, al contrario, ci sono cose che non vorremo mai: malattie, isolamento, perdite, fallimenti, morte. Desiderandone quindi il contrario: salute, rapporti, guadagni, successi, vita eterna.

Insomma, semplicemente vorremo che le cose per noi fossero diverse, che la nostra vita sia migliore, che noi fossimo migliori. Niente di male in questo, però è importante considerare che noi esseri umani tendiamo costantemente a inseguire una condizione che noi giudichiamo migliore, non riuscendo mai ad accontentarci per quello che abbiamo o per quello che siamo.

Facciamoci caso: ci poniamo un obiettivo in mente, lo raggiungiamo – a volte anche con grandi sforzi e sacrifici – e subito dopo ce ne poniamo un altro. Raggiunto anche questo, cosa accadrà?

Insoddisfazione esistenziale

Da quando gli esseri umani hanno acquisito la capacità di pensare in maniera critica, ci si è resi subito conto di come la condizione umana sia essenzialmente improntata all’insoddisfazione. Si tratta di una visione comune a molte filosofie, sia occidentali che orientali, e in sostanza non c’è molto da contestare: basta guardarsi dentro e capire che è proprio così che siamo fatti.

Di per sè non è un problema. Anzi, dovremmo essere grati per la nostra tendenza all’essere insoddisfatti. È proprio perché si è sempre cercato di andare oltre la passiva rassegnazione alle circostanze esterne che l’essere umano è riuscito a sopravvivere, migliorando le proprie condizioni di vita e raggiungendo livelli di benessere e di sicurezza sempre maggiori.

L’insoddisfazione, infatti, diventa un problema solo quando attribuiamo a quel “di più” che ci manca e desideriamo fortemente la funzione di farci sentire, finalmente, completi e soddisfatti.

Ciò che ci rende (in)soddisfatti

L’idea cioè è quella di potersi sentire davvero soddisfatti, funzionali e adeguati solo se riusciamo a raggiungere gli oggetti dei nostri desideri. Che siano materiali (soldi, auto di lusso, jet privato) o immateriali (potere, fama, successo) non importa: è tutto ciò che ci manca e che potrebbe dare un senso alla nostra vita. Siamo convinti che per stare bene con noi stessi, per sentirci degni di valore, abbiamo per forza bisogno di qualcosa di eccezionale.

E anche qualora riuscissimo a ottenere ciò che riteniamo indispensabile per sentirci pienamente soddisfatti, la tendenza è sempre quella di cercare qualcosa di più. A un desiderio se ne sostituisce sempre un altro: l’insoddisfazione quindi tornerà inevitabilmente, e presto o tardi troveremmo qualche altra cosa da bramare per sentirci nuovamente bene con noi stessi.

In poche parole: fin quando continueremo ad associare l’ottenimento di ciò che pensiamo possa renderci soddisfatti con l’esserlo realmente, corriamo il rischio di restare impantanati nella continua ricerca di una felicità che, in definitiva, non arriverà mai.

La ricetta per l’insoddisfazione

L’errore fondamentale quindi è il cercare una soddisfazione, per di più illusoria e temporanea, al di fuori di noi, misurando il proprio livello di felicità con le cose che si sono ottenute. E stare male se non ci si riesce.

Intendiamoci: il problema non è il desiderare di per sé, piuttosto quando ciò che si desidera diventa necessario per poter stare bene con sé stessi e sentirsi soddisfatti di quello che si è o si ha.  Condizionare la propria felicità alla presenza o meno di alcune cose è la ricetta perfetta per sentirsi infelici.

E se riteniamo di aver bisogno di questo o quello per poter finalmente stare bene, forse il problema è più a fondo, probabilmente nel nostro modo di vedere noi stessi. Perché troppo spesso, pensando a cosa ci manca, tendiamo a dimenticare cosa già abbiamo. E se non riusciamo a vederlo o se ci sentiamo manchevoli fin dentro le ossa, allora continuare a inseguire desideri e obiettivi è del tutto inutile.

Sarebbe un po’ come cercare di riempire una botte con un buco nel fondo. È inutile continuare a versare acqua: se non ripariamo la falla non basterà tutta l’acqua del mondo. E alla fine non resterà nemmeno una goccia di felicità.

soddisfatti

Il normale eccezionale

In un mondo dove ogni giorno ci viene ripetuto che bisogna essere “qualcuno”, il rischio concreto è di sentirsi “nessuno”. L’aspetto tragicomico di tutto questo è che davvero siamo convinti che basta rendersi in qualche modo “eccezionali” per poter stare davvero bene con se stessi e sentirsi di essere arrivato “da qualche parte”, di essere “qualcuno”.

Si tratta soltanto di una triste illusione. Ciascuno di noi, in fondo, è già di per sé eccezionale, anche nella propria normalità; ciascuno di noi, se ci pensiamo bene, è già unico e inimitabile, con i propri difetti ma anche, e soprattutto, con i propri pregi.

Giudicarsi per quello che si vorrebbe essere o si vorrebbe avere rischia dunque di essere un lavoro inutile e perdipiù controproducente, perché non ci porta che a concentrarci sulle nostre mancanze. Quello che possiamo fare, invece, è lavorare sulle cose che di noi non ci piacciono (i nostri difetti), e valorizzare quello che ci piace e ci rende unici (i nostri pregi).

Occorre partire da quello che siamo siamo già, così come siamo. Per evolversi e migliorarsi nella propria eccezionalità. Ed è solo così che potremmo arrivare a sentirci pienamente soddisfatti, non inseguendo qualcosa di esterno che ora c’è e domani potrebbe non esserci più.

Perciò fatti coraggio, e sii te stesso, normale come sei. Questo sì che sarebbe eccezionale!

 

Cos’è che pensi siano necessario affinché tu possa sentirti finalmente felice e soddisfatto? Di cosa hai bisogno per poterti sentire una persona unica e di valore? Ti è mai capitato di raggiungere qualcosa che pensavi avrebbe cambiato la tua vita, per poi ritrovarti al punto di partenza? Dì la tua, lascia un commento!

Condividi, se ti va :)