L’attaccamento in età adulta e l’attaccamento di coppia

attaccamento

Nel primo articolo abbiamo visto come, secondo la teoria dell’attaccamento, nel corso dei primi anni di vita vengano costruiti dei primi modelli di relazione a partire da quella tra il bambino e chi se ne prende cura.

In questa seconda parte facciamo un salto all’età adulta, per vedere in che modo le basi poste durante l’infanzia si esprimono nel rapporto con l’altro, e in particolare nella coppia.

Dall’infanzia all’età adulta

Gli stili di attaccamento sviluppati nel corso dell’infanzia tendono a influenzare le modalità con le quali ciascuno di noi reagisce ai propri bisogni e cerca di soddisfarli all’interno della relazione con l’altro. Questo perché i primi modelli di relazione diventano una specie di “copione” che ci dice cosa fare quando abbiamo bisogno di supporto e di conforto, ma anche a chi rivolgerci.

In questo senso, gli stili di attaccamento possono avere una forte influenza sulle modalità di selezione del partner, su cosa ci aspettiamo da questi e su come ci comportiamo con l’altro quando sentiamo che i nostri bisogni (di sicurezza, di amore, di intimità, ecc.) vogliono essere soddisfatti.

Insomma: anche se ormai siamo grandicelli, quello che da piccoli abbiamo imparato su cosa aspettarci quando ci affidiamo (o meno) a qualcuno tende a lasciare una traccia, visibile anche in età adulta.

È anche vero però che non tutto resta uguale. Con il passare degli anni –per fortuna!– i comportamenti di attaccamento si evolvono con l’evolversi della persona. Difficilmente, infatti, vedremo un adulto attaccarsi alle gonne della mamma e piangere disperato.

La sostanza, comunque, resta: i modelli di relazione che abbiamo assimilato nei primi anni di vita non svaniscono nel nulla.

Le dimensioni dell’attaccamento

In particolare, nell’articolo precedente, si è parlato di come i nostri modelli relazionali prevedano due protagonisti principali: il sé e l’altro. Ovvero il nostro modo di intendere noi stessi (meritevoli o meno di supporto) e le persone a noi vicine (disponibili o meno a fornirci supporto).

Questi “ruoli interni” guidano il nostro modo di relazionarci con i nostri partner, e si manifestano secondo due dimensioni comportamentali che possono essere utilizzate per misurare l’attaccamento in età adulta: quella dell’ansia e quella dell’evitamento.

  • Ansia. Questa dimensione si correla a quanto una persona si preoccupa dell’essere abbandonata, respinta o non apprezzata dal partner. Si parla di individui sempre pronti a rimuginare sulle loro relazioni e sulle reali intenzioni della persona amata, specialmente quando non in prossimità del partner o di fronte a espressioni di indipendenza di quest’ultimo. Quando persone con alti livelli di ansia si sentono insicure dei sentimenti del loro partner o della relazione, tendono a diventare appiccicose e possessive, ma così facendo possono spingere il partner ad allontanarsi, rinforzando proprio le loro insicurezze.
  • Evitamento. Questa dimensione si correla invece a quanto una persona è a proprio agio con l’intimità emotiva in una relazione. Individui con alti livelli di evitamento tendono ad essere meno coinvolti nelle loro relazioni e cercano di rimanere psicologicamente ed emotivamente indipendenti dai loro partner. Questo perché temono di sentirsi vulnerabili e, allo stesso tempo, ritengono che il partner non potrà aiutarli quando ne avranno realmente bisogno: cercano così di sentirsi forti e sicuri facendo affidamento solo su loro stessi e sulla loro autonomia. Ed è così che solitamente rispondono di fronte a situazioni stressanti o conflittuali.

È importante sottolineare che non stiamo parlando di “categorie” (o ci sei o non ci sei), ma di “dimensioni”, il che sta a significare che può esserci una certa variabilità nel proprio essere “ansiosi” o “evitanti”. Potremmo considerarle più delle “tendenze” che delle reazioni rigide, e questo è molto importante perché significa che è qualcosa su cui ci si può lavorare.

L’attaccamento da adulti

In ogni caso, considerando le due dimensioni dell’ansia e dell’evitamento, possiamo notare una certa continuità con gli stili di attaccamento caratteristici dell’infanzia:

  • Stile sicuro. Coloro che hanno un’immagine sostanzialmente positiva di sé e dell’altro, ritenendo loro stessi amabili e gli altri come disponibili e degni di fiducia. Per tale motivo, manifestano bassi livelli di ansia e di evitamento nelle loro relazioni.
  • Stile distanziante. L’aspetto principale è un’immagine negativa dell’altro, considerato come generalmente non disponibile o supportante, il che porta l’individuo a puntare solo su sé stesso. I livelli di ansia nella relazione sono bassi, ma la dimensione dell’evitamento è molto consistente.
  • Stile preoccupato. In questo caso è l’immagine di sé che tende ad essere negativa, perennemente alla ricerca di conferme sulla propria amabilità. Qui i livelli di ansia relazionale sono decisamente alti, mentre la dimensione dell’evitamento è praticamente inesistente.
  • Stile timoroso. Caratteristico di chi presenta un’immagine negativa sia di sé stesso che dell’altro. Risultano particolarmente presenti sia la dimensione dell’ansia che quella dell’evitamento, oscillando perennemente tra la ricerca dell’altro e il timore nei confronti di quest’ultimo.

È importante sottolineare come questi “stili” non sono sempre attivi e non guidano ogni aspetto di una relazione. Rappresentano piuttosto delle tendenze a gestire in un certo modo lo stress nelle relazioni. Quando le cose vanno bene, specialmente nel periodo “luna di miele” all’inizio di un nuovo amore, questi stili non risultano così espliciti. È solo nei momenti di difficoltà che possono emergere in tutta la loro forza: allo stesso modo che nell’infanzia, infatti, questi schemi relazionali si attivano solo quando abbiamo un bisogno di sicurezza o di conforto da soddisfare.

Così, nel caso dello stile “preoccupato”, se il nostro partner si dimentica di chiamarci o non risponde subito a un nostro messaggio, potrebbero immediatamente attivarsi dei comportamenti di ricerca di rassicurazioni (ansia). Se l’altra persona presenta invece uno stile “distanziante”, di fronte a queste richieste potrebbe affiorare una tendenza a starsene alla larga (evitamento).

Questo esempio ci fa intravedere un altro aspetto fondamentale dell’attaccamento in età adulta: come si combinano tra di loro gli stili di attaccamento dei partner in una relazione. Fino ad ora abbiamo parlato di questi stili dal punto di vista dell’individuo, ma non dobbiamo dimenticare che i comportamenti di attaccamento in realtà si manifestano esclusivamente all’interno della relazione con l’altro.

Attaccamento di coppia

A differenza dell’attaccamento in età infantile, l’attaccamento in età adulta è caratterizzato dalla reciprocità: entrambi i partner possono trovarsi in una posizione di ricerca di rassicurazione e di sicurezza o nella posizione di dover supportare e sostenere l’altro.

In questo senso, diventa molto importante considerare l’attaccamento “di coppia”, ovvero le possibili combinazioni di stili di attaccamento tra i due partner:

  • Attaccamento di coppia sicuro/sicuro. Tutti e due i partner sono in grado di esprimere il bisogno di conforto e di accoglierlo in maniera adeguata. Si tratta della combinazione “migliore”, che idealmente dovrebbe coincidere con una buona qualità della relazione di coppia.
  • Attaccamento di coppia distanziante/distanziante. Entrambi i partner tendono a non mostrare le proprie vulnerabilità all’altro, che comunque tenderebbe a reagire mettendo un muro tra sé e il partner. La parola chiave, in questi rapporti, è “autonomia”.
  • Attaccamento di coppia preoccupato/preoccupato. La combinazione più “scoraggiante”, nel senso che entrambi i partner vivono nella costante sensazione di non poter essere soddisfatti nei propri bisogni di conforto, sentendosi continuamente deprivati della possibilità di essere supportati.
  • Attaccamento di coppia distanziante/preoccupato. Probabilmente l’accoppiamento più “drammatico” e conflittuale, con uno dei due che cerca costantemente rassicurazioni da parte dell’altro, che di suo reagisce allontanandosi ancora di più. È il tipico siparietto dove uno dei due insegue, mentre l’altro scappa.
  • Attaccamento di coppia sicuro/insicuro (preoccupato o distanziante). Questa combinazione può essere considerata in qualche modo “incerta”, ma è anche quella che forse più di tutte può portare in qualche modo a “correggere” le tendenze negative degli attaccamenti insicuri. Questo perché il partner sicuro potrebbe fornire un modello diverso e più bilanciato del come vivere una relazione, specialmente nei momenti di maggiore difficoltà.

Esaminando in particolare quest’ultima combinazione, emerge un altro aspetto importante: anche se il nostro stile di attaccamento ci accompagna fin da quando siamo piccoli, riecheggiando nelle relazioni che possiamo avere in età adulta, non è detto che questo non possa essere in qualche modo “corretto” da nuove e diverse relazioni.

attaccamento

La scelta del partner

Come abbiamo visto nel primo articolo, lo stile di attaccamento che “impariamo” da bambini diventa una sorta di modello che ci guida nel come gestire i nostri bisogni di conforto e di sicurezza. Sviluppiamo, in questo senso, anche delle aspettative rispetto a chi siamo noi e a chi è l’altro. E queste aspettative sono attive anche nella fase di scelta del partner.

Questo significa che quando siamo alla ricerca di una persona con la quale instaurare una relazione, è possibile che le nostre scelte possano dipendere dalla nostra idea di come deve essere l’altro. In altre parole, cerchiamo qualcuno che possa confermare le nostre aspettative su come l’altro possa rispondere ai nostri bisogni.

In questo caso, il detto “chi si somiglia si piglia” non sembra applicabile! Infatti “ci pigliamo” chi può confermare i nostri modelli interni, non chi può smentirli. È il tipico esempio della combinazione distanziante/preoccupante, dove si finisce incastrati in relazioni in cui tendono a ripetersi le stesse sequenze che abbiamo vissuto durante l’infanzia, in cui i nostri bisogni non venivano accolti o non era il caso di esprimerli, e dall’altra parte qualcuno che non rispondeva in maniera adeguata alle nostre richieste di conforto e rassicurazione.

Altre volte, però, se si è fortunati, è possibile trovarsi in relazioni diverse, che in qualche modo mettono in discussione la nostra idea di come devono andare le cose nei rapporti di coppia. È il caso, ad esempio, dell’incontro tra un individuo sicuro e uno insicuro, in cui quest’ultimo può –forse per la prima volta– sperimentare un modo diverso di fidarsi e di affidarsi all’altro.

Vecchi modelli, nuove opportunità

Insomma, anche se tendenzialmente stabile, il nostro stile di attaccamento può essere “modificato”. Ciò che cambia, in questo senso, è il nostro modo di intendere noi e l’altro, ovvero la possibilità che i nostri bisogni possano essere adeguatamente accolti in quanto meritevoli del supporto e dell’affetto dell’altro.

Se è questo ciò che deve cambiare, non è detto che per farlo bisogna per forza troncare la relazione attuale a andare alla ricerca di un individuo “sicuro” per poterci liberare dal giogo delle nostre insicurezze.  Se il nostro partner non lo è, allora non resta che diventarlo noi.

Significa cioè imparare a essere consapevoli dei nostri modi di reagire, ma anche dei modi di reagire dell’altro. E poi essere consapevoli nel rispondere in maniera diversa quando ci sentiamo sopraffatti da qualcosa, o quando è il nostro partner a sentirsi sopraffatto.

Imparare a conoscere le proprie modalità di relazionarsi all’altro è il primo passo, per mettere poi in discussione i nostri modi di reagire e i meccanismi che ci tengono ancorati alla continua riconferma delle nostre idee su di noi e sugli altri. Idee vecchie, che in passato possono anche essere risultate utili, ma che adesso, in un diverso campo di gioco, non possono più applicarsi.

In amore, però, le cose si fanno in due. È importante che entrambi i partner si impegnino a cercare un nuovo equilibrio e a rispondere in nuovi modi quando arrivano i momenti difficili. Non è un lavoro facile, per questo spesso la cosa migliore da fare è rivolgersi a un professionista che possa aiutarvi in questo percorso.

In ogni caso, comincia a portare attenzione ai tuoi modi di reagire nella tua relazione. Chissà che già questo possa portarti a vedere le cose in maniera diversa. E magari spingerti a trovare nuove strade quando pensi di aver imboccato l’ennesimo vicolo cieco.

Condividi, se ti va :)

La teoria dell’attaccamento e lo sviluppo dell’attaccamento nell’infanzia

attaccamento

Le modalità con le quali ci relazioniamo con i nostri partner o con le persone per noi significative non sono casuali. Si tratta in realtà di modelli di comportamento vecchi almeno quanto noi, imparati nei primi anni di vita a partire dalle relazioni con i nostri genitori. Per capire perché tendiamo a relazionarci in certi modi con le persone a noi più vicine, è quindi necessario comprendere come e perché abbiamo imparato a interagire così.

In questo primo articolo esploreremo come nel corso dell’infanzia si pongono le basi per le relazioni con gli altri significativi, a partire da un particolare tipo di legame che si sviluppa tra il bambino e il proprio genitore: il legame di attaccamento.

Cos’è l’attaccamento?

Secondo la teoria dell’attaccamento, elaborata originariamente da John Bowlby, gli esseri umani nascono con una particolare predisposizione innata a formare dei profondi legami con chi si prende cura di loro. Questo legame, definito per l’appunto attaccamento, ha principalmente una funzione protettiva: un bambino piccolo non è in grado di sopravvivere da solo né tantomeno ha la capacità di gestire la propria sofferenza nei momenti di difficoltà. Per questo motivo, è necessario che ci sia una figura di riferimento alla quale il bambino potrà rivolgersi quando ne sentirà il bisogno.

Il legame di attaccamento si forma nei primi anni di vita a partire dalle modalità con cui le figure di riferimento risponderanno ai bisogni di rassicurazione e conforto del bambino. Se tutto va bene, queste figure di riferimento – solitamente i genitori – rappresenteranno poi la “base sicura” dalla quale il bambino potrà partire per esplorare il mondo e alla quale ritornare in caso di bisogno, garantendo conforto fisico e supporto emotivo.

Ovviamente la cosa non finisce qui. Il sistema di attaccamento non è semplicemente una strategia per stabilire relazioni significative con chi deve proteggerci così da sentirci al sicuro nel nostro percorso verso l’indipendenza. Il rapporto privilegiato che si costruisce in questi primi anni farà sentire la sua influenza per tutta la vita, condizionando profondamente le modalità con le quali entriamo in relazione con l’altro in età adulta. L’attaccamento sarà il modello per i sentimenti, i pensieri e le aspettative che esporteremo nelle nostre relazioni.

Pattern di attaccamento

Di fronte al bisogno innato di protezione del proprio bambino, non tutti i genitori rispondono allo stesso modo. Alcuni possono rivelarsi adeguatamente presenti e supportivi nei confronti del piccolo, altri possono essere incoerenti oppure distaccati, altri ancora potrebbero persino rappresentare una fonte di pericolo per il bambino.

Diversi anni fa, Mary Ainsworth, un’importante ricercatrice dell’attaccamento, ha ideato una procedura sperimentale per identificare quali e quanti fossero gli stili di attaccamento possibili. L’esperimento era tanto semplice quanto geniale: dei bambini piccoli venivano osservati in diverse condizioni, come quando in presenza di un estraneo, in assenza della madre e al ricongiungimento con la stessa.

La Ainsworth è così riuscita a individuare quattro pattern di attaccamento:

  • Attaccamento sicuro: i bambini con questo tipo di attaccamento utilizzano il genitore come “base sicura” dalla quale esplorare il mondo e alla quale ritornare in caso di “pericolo”. Il bambino, cioè, si sente sicuro che la figura di riferimento potrà rispondere ai suoi bisogni di protezione e di conforto quando ne avrà bisogno; per questo motivo si sente anche libero di esplorare l’ambiente circostante e di avviarsi, quindi, sul lungo cammino verso l’indipendenza sapendo di potersi affidare a qualcuno in caso di necessità.
  • Attaccamento insicuro-evitante: caratterizza quei bambini che, nel corso delle interazioni con le figure di riferimento, hanno imparato che, in caso di difficoltà, non troveranno nessuno in grado di accogliere i propri bisogni di protezione. I genitori di questi bambini tendono a essere poco disponibili emotivamente e poco consapevoli dei bisogni dei loro figli; il bambino perciò dovrà, giocoforza, imparare a gestire i propri bisogni da solo e diventare quindi precocemente autonomo. Imparano dunque a inibire le proprie emozioni (“che senso ha mostrarle se poi nessuno mi aiuta?”), ma sviluppano anche l’idea di non essere degni di supporto e di amore da parte degli altri.
  • Attaccamento insicuro-ambivalente: lo stile che si associa a quei bambini che appaiono confusi e insicuri, perché non sanno quale trattamento potrebbero aspettarsi. La figura di riferimento risponde sì alle richieste del piccolo, ma non sempre allo stesso modo: si tratta quindi di genitori poco costanti e imprevedibili, mostrando a volte presenza e supporto, altre volte insensibilità e rifiuto. Come risultato, il bambino non sa se considerarsi amabile o no, e nel dubbio resta appiccicato al genitore in modo da poterlo monitare constantemente. Hanno quindi paura di una separazione, per questo motivo l’esplorazione dell’ambiente (e lo sviluppo della possibilità di agire in maniera indipendente) risulta inibita.
  • Attaccamento insicuro-disorganizzato: è il caso più estremo, quando la figura di riferimento diventa anche la figura che rappresenta il pericolo. Si tratta di una situazione molto grave, spesso determinata da abusi e crudeltà vissute in ambito famigliare, nella quale il bambino è incastrato in un dilemma terribile: da una parte vorrebbe raggiungere la sua fonte di sicurezza (il genitore), che però è la stessa figura dalla quale vorrebbero scappare. Si tratta di un conflitto praticamente irrisolvibile, manifestato anche da comportamenti particolarmente paradossali e incongrui del bambino in situazioni di allontanamento o di riavvicinamento alle figure di riferimento.

Modelli di relazioni

Ciascuno di noi, nel corso della propria vita e proprio a partire dalle prime esperienze relazionali, elabora una serie di schemi mentali che guideranno le nostre percezioni e le nostre interpretazioni, e quindi anche i nostri comportamenti, quando abbiamo a che fare con gli altri. Questi “modelli di relazione”, quasi dei copioni teatrali, prevedono essenzialmente due protagonisti:

  • L’altro: il modello di come sono le figure di riferimento, vale a dire se ci si può fidare della loro capacità di fornire supporto quando ne abbiamo bisogno;
  • Il sé: il modello di come siamo noi, ovvero se i nostri bisogni possono o meno essere soddisfatti dagli altri, ma anche se siamo meritevoli di ricevere il loro supporto.

Se siamo in presenza di una relazione di attaccamento di tipo “sicuro”, il nostro modello dell’altro sarà certamente positivo, poiché percepiremo che la nostra figura di riferimento sarà presente e capace quando ne avremo bisogno; quindi, in caso di necessità, sappiamo di poterci appoggiare agli altri, e che gli altri saranno lì a sostenerci.

Ma se si trattasse di un attaccamento di tipo “insicuro”, le percezioni di noi stessi e degli altri potrebbero non essere così rassicuranti. Potremmo arrivare a considerarci poco o per nulla degni di amore, persino odiati. Potremmo irrigidirci nell’idea che nessuno potrà mai aiutarci o di quanto possa essere sconveniente o inutile esprimere i propri bisogni, oppure di doverli esprimere necessariamente strepitando e disperandosi. Potremmo considerare gli altri, coloro che sulla carta dovrebbero volerci bene, come delle persone insensibili o dalle quali doversi guardare di continuo, da controllare o persino da temere.

Diventa più chiaro, a questo punto, capire come lo stile di attaccamento che caratterizza la prima infanzia possa riecheggiare in tutti le relazioni che vivremo da quel momento in avanti.

attaccamento

Conclusioni

Il sistema di attaccamento è il primo motore dello sviluppo sociale, emotivo e cognitivo di ciascuno di noi. E da lì che può nascere il nostro senso di sicurezza e di fiducia nei confronti degli altri o, al contrario, una percezione di insicurezza e di sfiducia nel rapporto con l’altro.

I modelli appressi nel corso dell’infanzia sono relativamente stabili per tutta la vita, anche perché le modalità con le quali ci mettiamo in relazione con l’altro tendono alla riconferma dei presupposti di base, rinforzando quindi i modelli originali. Ma non tutto è perduto.

Anche se particolarmente resistenti, stiamo sempre parlando di modelli, di copioni da seguire quando ci troviamo in una relazione. Come se fossero dei manuali di istruzione. Ma ciò non significa che saremo condannati per tutta la vita a seguire quello che abbiamo appreso nei nostri primi anni, ma che c’è una forte tendenza a mettere in atto quelle stesse scene.

Nuove relazioni possono portare a nuovi e diversi modi di vivere sé stessi e l’altro. È importante però comprendere da dove derivano i nostri comportamenti relazionali, e che forma assumono in età adulta, in modo da potersene sbarazzare. Sarà proprio questo il tema del prossimo articolo: gli stili di attaccamento nell’adulto.

Condividi, se ti va :)

Preoccuparsi è normale, a volte persino utile. Quando però la preoccupazione diviene un’attività fine a sé stessa, che non porta a nulla se non a disperarci, l’unica cosa che ci resta da fare è passare all’azione. O accettare l’incertezza.

preoccupazione

Preoccuparsi può sembrare una buona cosa. E, in effetti, in certi casi lo è. Ad esempio, quando le nostre preoccupazioni ci aiutano nel mantenere un buono stato di salute: sottoporsi a screening periodici, seguire una dieta salutare o rivolgersi ad uno psicologo(!) sono tutti esempi di comportamenti motivati da una qualche preoccupazione.

Insomma: potremmo dire che una preoccupazione è “buona” quando ci porta ad agire nel nostro interesse, ovvero a misurare i rischi potenziali di alcune situazioni e prendere provvedimenti per scongiurarli. Preoccuparsi può diventare un problema quando diventa un’attività fine a sé stessa, senza alcuna rilevanza pratica. Cioè un semplice esercizio di pensiero con contenuti ripetitivi, intrusivi, incontrollabili e, soprattutto, decisamente catastrofici.

Preoccuparsi in maniera eccessiva può essere fortemente debilitante. Le preoccupazioni attivano inevitabilmente una normale e funzionale reazione di stress nel nostro organismo, ma quando questa reazione viene sollecitata frequentemente può portare a conseguenze decisamente negative. Inoltre preoccupazioni eccessive possono facilmente portarci a sperimentare vissuti di impotenza e di mancanza di controllo, che, oltre ad essere di per sé spiacevoli, non hanno altro che generare ulteriori preoccupazioni o potenziare quelle che già abbiamo.

Viaggio nelle preoccupazioni

Anna lavora come segretaria in uno studio medico. È una ragazza precisa, puntuale e affidabile. In un giorno qualunque, però, si ritrova alla fermata dell’autobus insieme a molti altri pendolari che aspettano, ormai da molto tempo, un mezzo che non accenna ad arrivare. Già dopo i primi minuti di ritardo comincia ad affacciarsi una prima preoccupazione: “Farò sicuramente tardi… E se il dottore dovesse arrabbiarsi?”

I minuti passano, le persone in attesa aumentano, ma dell’autobus non c’è traccia. Anna cammina su e giù, persa nel filo dei suoi pensieri: “Ci saranno delle persone in attesa di entrare, sicuramente arrabbiate per averle fatte aspettare tutto questo tempo. E se se ne lamentassero con il dottore? Potrebbe arrabbiarsi ancora di più! E se decidesse di licenziarmi?”

Quando finalmente arriva il mezzo, Anna si prepara all’assalto dell’autobus. Sgomitando, riesce a salire a bordo, ma si ritrova stipata tra una moltitudine di persone arrabbiate e infreddolite, qualcuna pure maleodorante. Al suo fianco, un signore di una certa età starnutisce senza sosta. Costui purtroppo ha le mani occupate a reggerlo agli “appositi sostegni”, quindi non può disporle a conchetta per contenere i germi espulsi dal naso e dalla bocca.

Anna vede i germi atterrare dolcemente sui suoi vestiti, sui suoi capelli, sul suo viso. “Che schifo! Ci manca soltanto che mi ammali! Oddio, non voglio ammalarmi! Se dovessi prendermi dei giorni al lavoro… non voglio nemmeno pensarci! Il dottore andrà su tutte le furie! Dopo il ritardo e tutti i disagi che ho causato, sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso!”

Il tragitto verso il lavoro è, ovviamente, costellato da ulteriori ritardi: traffico, lavori in corso, resse e risse ad ogni successiva fermata. Anna ha avuto tutto il tempo di continuare a rimuginare su tutte le preoccupazioni che le sono passate per la testa, ed ormai è praticamente convinta che verrà disprezzata e umiliata dal datore di lavoro e dai pazienti, perderà quindi il lavoro e si troverà senza una lira. E per di più ammalata.

Il rimuginio

In psicologia, la preoccupazione “patologica” viene chiamata rimuginio. Il rimuginio consiste essenzialmente in una modalità di pensiero che presenta le seguenti caratteristiche:

  • Ripetitivo: il pensiero si ripresenta di continuo
  • Negativo: il contenuto del pensiero è incentrato su eventi negativi che potrebbero succedere o che sono già accaduti
  • Incontrollabile: il pensiero sembra non possa essere fermato
  • Astratto: il pensiero non è orientato all’azione, ma solo alla produzione di altri pensieri
  • Assorbente: il pensiero impedisce di concentrarsi su altri pensieri al di fuori di quelli legati alla preoccupazione

Ma a che serve un pensiero di questo tipo? Lo scopo del rimuginio, in ultima analisi, è quello di ridurre l’incertezza. Se ci sentiamo poco capaci di controllare eventi dall’esito incerto, ecco che il rimuginio ci aiuta, seppure in modo perverso, a darci un falso senso di prevedibilità e di controllo.

Questa modalità di pensiero si serve infatti della nostra immaginazione per presentarci diversi scenari possibili (di solito decisamente catastrofici) in modo da poter anticipare e indirettamente controllare un futuro evento temuto (o le conseguenze di un evento passato). E qui si scopre la trappola:

  • se l’evento temuto si verifica (può sempre capitare, ma di solito non in maniera così catastrofica come immaginato), rimuginare si rivela utile perché effettivamente ci ha fatto prevedere cosa sarebbe accaduto (“Te l’avevo detto io!”)
  • se l’evento temuto non si verifica, rimuginare può averci aiutato a prepararci al peggio o a risolvere un problema, o addirittura ha “magicamente” impedito che l’evento si verificasse

Perché è una trappola? Perché, di riffa o di raffa, il rimuginare ha funzionato. E puoi scommetterci che la prossima volta sarà più probabile adottare questa strategia. Che, come la prima volta, continuerà a funzionare. Fin quando non diventerà, inevitabilmente, una delle modalità di fronteggiamento dell’incertezza più efficaci (!?) del tuo repertorio.

Oltre al rafforzamento di questa risposta, però, c’è un altro aspetto che tenderà ad ingigantirsi: la tua percezione di essere insicuro, debole, spaventato e in balia degli eventi. Il che ti renderà ancora più preoccupato di fronte a eventi del cui esito sei incerto o che sono al di fuori del tuo totale controllo.

Insomma, il rimuginio ci illude di poterci fornire una qualche forma di controllo di fronte all’ignoto ma ci mantiene in una condizione di ansia che diventerà via via sempre più invalidante.

Tra palco e realtà

Possiamo quindi immaginare il rimuginio come una versione estremizzata della tipica preoccupazione. Un’importante differenza tra le due è che il rimuginio è una strategia che viene scelta dall’individuo come strategia per risolvere un problema, che però sfugge di mano fino ad essere percepita come incontrollabile.

Di base, però, sia il rimuginio che la “normale” preoccupazione si presentano come catene di pensieri di carattere negativo, ridondanti e orientati all’astratto. Queste catene di pensieri – composte da frasi, immagini, ricordi – finiscono per piazzarsi al centro del palco, mentre noi puntiamo un bel riflettore a illuminarli. A un certo punto, non vediamo che loro. Non sentiamo che loro, sia con la testa che con il cuore.

Noi, ignari spettatori, pendiamo dalle loro labbra e, in men che non si dica, il veleno è entrato in circolo. Ma se invece che semplici spettatori fossimo dei registi o degli sceneggiatori, cosa noteremmo in realtà? Che questi lunghi e tormentati monologhi interiori sono quasi sempre poco credibili. Insomma, suscitano un’emozione nello spettatore, ma di per sé non hanno molto senso.

I pensieri che accompagnano le preoccupazioni, insomma, risultano piuttosto artificiosi a ben guardare. Questo perché:

  • Non sono importanti: nella prospettiva generale della propria vita, quanto può essere importante il prendersi un raffreddore o fare tardi un giorno al lavoro? Quante cose ci sono successe in passato che lì per lì ci sembravano immense e che ora nemmeno ricordiamo? Si tratta davvero di eventi significativi?
  • Non sono probabili: l’immaginare scenari catastrofici – e le preoccupazioni vanno tutte in quella direzione – non li rende necessariamente probabili. Vabbè che la realta a volta supera la fantasia, ma quanto è probabile che Anna venga licenziata o trattata male perché ha fatto ritardo? Quanto è probabile che finisca a elemosinare a causa di circostanze totalmente al di fuori del suo controllo?

Occuparsi del preoccuparsi

Le argomentazioni che ci presentano le preoccupazioni sono, quindi, piuttosto deboli. Basta un po’ di attenzione ai contenuti e le immense costruzioni che abbiamo immaginato finiscono per dissolversi. Quando sei preoccupato per qualcosa, quindi, puoi provare a porti alcune domande per “tornare” alla realtà:

  • Ammesso che ciò che temo dovesse succedere davvero, qual è il peggior esito possibile? Qual è l’esito più realistico?
  • Ammesso che ciò che temo dovesse succedere davvero, quanto è probabile che fra una o due settimane lo ricordi ancora?
  • Quanto mi è utile, in questo momento, concentrarmi sull’immaginare possibili scenari negativi? Cosa posso fare in questo momento per scongiurare le conseguenze temute? E se non c’è niente che io possa fare, a cosa mi serve perdermi in questi pensieri?

Se hai difficoltà a rispondere a queste domande è possibile che tu sia più dalle parti del rimuginio che della “semplice” preoccupazione. Forse ritieni il preoccuparsi una strategia utile e funzionale, ovvero hai investito le tue preoccupazioni di una rilevanza e di un valore che semplicemente non meritano. In questo caso, il mio consiglio è di cercare una guida e un supporto professionale per uscire da questa trappola, che ha come ultimo effetto soltanto il prolungare la tua sofferenza.

Esistono però anche delle preoccupazioni “pratiche” e maggiormente orientate alla realtà. In questi casi lo scopo non sarà quello di sbugiardare i pensieri negati, ma di trovare delle soluzioni ai problemi per poi lasciar andare le preoccupazioni. Tutto quello che devi fare è agire:

  • Se puoi fare qualcosa, fallo. Considera le varie opzioni, prepara un piano di azione e mettilo in pratica.
  • Se puoi farlo adesso, fallo. Se non puoi farlo adesso aspetta il momento di poterlo fare, ma nel frattempo smetti di angustiarti rimuginando sulle tue preoccupazioni: sposta la tua attenzione verso qualcosa di piacevole o di utile.
  • Se devi necessariamente affrontare qualcosa, non evitarla. Se hai una scadenza da rispettare non ha alcun senso preoccuparsene per giorni: non ti fa bene né ti porta a risolvere il problema. La soluzione, anche qui, è solo una: agire.
  • Se non puoi far nulla, non ha senso preoccuparsi.

preoccupazione

Preoccup-azioni!

Preoccuparsi è normale, fa parte del gioco. Il problema è quando il preoccuparsi non porta a nulla di concreto, se non a una concreta sofferenza.

Spesso dimentichiamo che abbiamo più potere di quanto pensiamo. Ci facciamo schiacciare da prospettive immaginate di disastri incombenti e inevitabili, ma il più delle volte – per fortuna – si tratta sono di innocue allucinazioni.

Perdiamo di vista il fatto che ciò che immaginiamo, le fantasie catastrofiche che ci proiettiamo in testa, anche se incredibilmente coinvolgenti, non sono nulla di reale. Non esistono. Esiste solo la possibilità di prendere in mano la propria vita e affrontare, concretamente, ciò che ci fa stare male.

Invece che perderci in sceneggiati immaginari, agiamo. Perché c’è sempre qualcosa che possiamo fare. Fosse anche l’accettare di non poter fare nulla.

Che non sia questa la chiave per la liberazione?

Condividi, se ti va :)

Come mai alcune persone reagiscono sempre nello stesso modo in alcune situazioni? E come mai non riescono a smettere di farlo, anche quando le conseguenze sono sempre decisamente negative? Scopriamo insieme come cambiare le nostre reazioni emotive e come gestirle in maniera più consapevole.

reazioni emotive

Martina è una donna forte, con un lavoro importante e una vita piena e soddisfacente. È sposata da qualche anno con un uomo che la ama follemente. Eppure, negli ultimi tempi, sente che suo marito si sta allontanando sempre più da lei.

«Non ce la faccio più» le ha confessato, «non riesco più a sopportare le tue ripicche, le tue urla, le tue accuse». Martina sa di cosa sta parlando, comprende le sue motivazioni ed è molto dispiaciuta per il dolore che lui sta provando. Ma non sa come controllarsi.

Basta poco per innescare una reazione in Martina. Un’osservazione innocente come “forse la pasta manca un po’ di sale” è in grado di trasformare questa donna, solitamente ironica e gentile, in una furia assetata di sangue. Per farla breve: qualunque comunicazione che comprenda anche solo una piccola critica verso Martina finisce per innescare una sua violenta reazione, con urla, insulti, accuse, dispetti e piatti lanciati.

Di solito, dopo questo simpatico siparietto, finisce che suo marito, che da persona comprensiva qual è si è sorbito ogni cosa senza fiatare, alza i tacchi e si allontana, ferito ma anche risentito per il trattamento subito.

Scenari di guerra

A questo punto Martina, rimasta sola, inizia a sentirsi in colpa. E inizia a cercare del cibo. Biscotti, merendine, la pasta con poco sale rimasta nei piatti ormai freddi. Quando sente quel dolore, in automatico cerca conforto mangiando.

Non si tratta di un episodio isolato, ormai è una sequenza che entrambi conoscono a memoria. E che, purtroppo, li sta inevitabilmente allontanando. Nonostante l’amore che provano l’uno per l’altra.

Insomma, ogniqualvolta Martina riceve una critica è come se si accendesse un interruttore in lei. Allora comincia a urlare e a offendere, a volte alza pure le mani. Non solo, dopo l’arrabbiatura cerca conforto nel cibo.

Ma anche Maurizio, il marito, reagisce a modo suo a questa situazione: davanti all’aggressività della moglie tende a chiudersi, a farsi piccolo piccolo, e – appena può – se la dà a gambe. E questo fa arrabbiare ancora di più Martina.

Le conseguenze di queste loro reazioni sono ben chiare ad entrambi. Eppure, non riescono in alcun modo ad evitarle. È come se fosse più forte di loro: le loro sono reazioni automatiche che sembrano lontane da qualsiasi possibilità di controllo.

Meccanismi di innesco

Ma come mai alcune persone tendono a reagire sempre allo stesso modo in certe situazioni? Ma soprattutto, perché continuano a mettere in atto determinati comportamenti anche se alla fine portano sempre agli stessi risultati negativi?

Ciascuno di noi ha imparato, nel tempo, a rispondere ad alcuni stimoli con delle reazioni automatiche. Solitamente si tratta di stimoli che attivano in noi un qualche stato emotivo spiacevole: ansia, tristezza, rabbia. La reazione che ne consegue, quindi, è un tentativo di gestire le emozioni negative che si provano in determinate circostanze.

Non siamo quasi mai consapevoli del perché reagiamo proprio con quella modalità, eppure tendiamo a riproporla in maniera automatica ogniqualvolta ci troviamo di fronte a uno stimolo scatenante. Si tratta, per l’appunto, di automatismi appresi nel corso del tempo, soluzioni adottate in passato e che in qualche modo hanno “funzionato”. Si sono cioè rivelate efficaci nello smorzare o nell’eliminare la sofferenza di quella situazione.

Se poi la “soluzione” comporta altre conseguenze, a volte persino peggiori della sofferenza che mirano a estinguere, pazienza. Non è che i nostri meccanismi automatici di gestione vadano troppo per il sottile: stiamo parlando di reazioni che potremmo definire “istintive”, non di risposte ponderate dove si distinguono conseguenze a breve e a lungo termine.

Polveri da sparo

Ma al di là degli automatismi appresi, cioè delle reazioni che inconsapevolmente si scatenano di fronte ad alcune situazioni-stimolo, perché alcuni eventi hanno questo “potere” su di noi?

Ritorniamo a Martina: cosa significa per lei ricevere una critica? Perché se la prende così tanto? Nel suo caso, ogni volta che si trova di fronte a una comunicazione che sottintende un suo errore o un suo difetto, è come se si trovasse a rivivere alcune scene del suo passato. Ricorda molto bene suo padre, un uomo distante e severo, che non perdeva occasione per rimarcare ogni errore della figlia con aspre critiche.

Quando nell’aria c’è odore di critica, Martina rivive quel trauma. Sente di nuovo tutto quel dolore, quella sensazione di non essere all’altezza, di non essere abbastanza. Ovviamente di tutto questo lei non ne è consapevole. Riferisce soltanto di sentire un “fuoco dentro”, e ha imparato che l’unico modo per spegnerlo è difendersi. Ad ogni costo.

Per molto tempo l’è andata piuttosto bene. Reagire con decisione quando il suo valore veniva messo in discussione ha fatto sì che gli altri la vedessero come una donna molto forte e determinata, ma anche decisamente “permalosa”. Nessuno osava muovergli critiche, così Martina si sentiva al sicuro.

A un bivio

Eppure, adesso, questo suo modo di reagire di fronte al proprio dolore sta iniziando a costarle caro. Lei lo sa bene, ed è sinceramente dispiaciuta per la sofferenza che causa in Maurizio quando sbotta a quel modo.

Non vuole ferirlo, non vuole fargli del male. Eppure sente di non poter fare a meno di comportarsi così, di non essere in grado di reagire in maniera diversa. Altra ferita, altro dolore.

Capisce però che il suo matrimonio è ormai a un bivio: o fa qualcosa, o inevitabilmente la relazione imploderà. Non sa perché si comporta a quel modo, ma sa bene cos’è che la fa infuriare. Sa bene cos’è che innesca la miccia che la porterà poi ad esplodere.

Reagire o rispondere?

Il primo passo è comprendere quali sono le situazioni che ci fanno reagire in un certo modo. Che la reazione sia quella di raggomitolarsi in posizione fetale, di aggredire l’altro, di scolarsi una bottiglia o di svuotare il frigo non importa. Il fattore in comune di tutte queste reazioni è che, anche se apparentemente ci aiutano a gestire una qualche sofferenza, comportano conseguenze che, alla lunga, ci fanno pagare un prezzo altissimo.

Anche se automatiche, queste reazioni non sono inevitabili. Portando un po’ di attenzione a quel momento, possiamo decidere di rispondere in modi diversi, che siano più utili o salutari per noi e chi ci sta attorno. Insomma, dobbiamo riuscire a spezzare quei meccanismi automatici che ci fanno reagire con modalità disfunzionali.

Come? Creandone di nuovi! Stavolta, però, saremo noi a decidere come rispondere.

Riprogrammarsi

Iniziamo prendendo carta e penna. Sul foglio bianco creiamo tre colonne. Sulla prima scriviamo Stimolo, sulla seconda Reazione e sulla terza Nuova risposta.

Nella prima colonna scriveremo quali sono le situazioni (gli stimoli) che ci fanno reagire in un certo modo; questa reazione la scriveremo nella seconda colonna. Nella terza colonna, quella della Nuova risposta, scriviamo come vorremmo invece rispondere a quegli stimoli.

reazioni emotive

Martina ha compilato così la sua tabella (e già che c’era, ha aggiunto anche altre reazioni che vorrebbe modificare)

 

Ora viene la parte difficile: mettere in atto le nuove risposte quando si presentano gli stimoli. Nessuno può pretendere a sé stesso di non reagire più nel “vecchio modo” d’ora in avanti, ma ciò che puoi fare è, con pazienza e perseveranza, impegnarti a rispondere nel “nuovo modo”. C’è voluto molto tempo per imparare a reagire in un certo modo, molto tempo ci vorrà per “riprogrammarsi” a rispondere diversamente.

Non si cambia dall’oggi al domani, quindi non scoraggiarti se ogni tanto ricadi nelle vecchie abitudini. Piuttosto, sii felice quando riesci rispondere in maniera diversa. Premiati se vuoi, ma i benefici vedrai che non tarderanno ad arrivare.

Porta con te questo foglio, rileggilo, usalo come guida. Sperimenta, cambia risposta, aggiungine di nuove. Mettiti alla prova. E se hai bisogno, contattami.

Com’è andata a finire?

Martina può dire di esserci riuscita. Si è impegnata, ci ha messo tutta sé stessa. All’inizio ha avuto molte difficoltà, era difficile per lei ricordarsi di rispondere in maniera diversa. E quando le veniva in mente, non sempre è riuscita a mettere in atto i buoni propositi.

Ne ha parlato con Maurizio, che l’ha aiutata molto. Le ricordava del foglio, la incoraggiava e cercava di “prendersela di meno”. Martina si è sentita ancora più motivata. Poco alla volta, giorno dopo giorno, è riuscita a esprimere il proprio dolore e la propria rabbia in modi diversi in sempre più occasioni.

Ogni tanto si arrabbia ancora, ma non c’è paragone con prima. Gli episodi sono meno intensi e meno frequenti. Tra loro le cose vanno meglio, il pericolo di separarsi sembrerebbe scongiurato. Ora però tocca a lui, perché le cose si fanno in due.

reazioni emotive

Finalmente scegliere

Capire le cause dietro alcuni nostri comportamenti può aiutarci a fare luce sui motivi che sostengono alcune nostre reazioni. Può aiutarci anche a fare pace con noi stessi, a dare un senso a ciò che sembra non averne. Ma capire il perché non necessariamente si traduce in un cambiamento vero e proprio.

L’aspetto più importante, forse, è comprendere che non siamo destinati a reagire sempre allo stesso modo. Possiamo cambiare. Possiamo scegliere come rispondere. Una volta imparato questo, dopo aver tastato con mano le possibilità che un nuovo modo di rispondere può regalarci, diventa difficile tornare indietro.

Vivere è inevitabilmente essere costantemente sottoposti a stimoli, alcuni positivi e altri negativi. Ciò che non è inevitabile è come decidiamo di rispondere. È tutto nelle nostre mani.

Condividi, se ti va :)

Non c’è niente di male nel fare del proprio meglio o nell’avere obiettivi elevati, ma quando facciamo coincidere i risultati ottenuti con il nostro valore come persona ci esponiamo inevitabilmente al fallimento. Ma cosa c’è dietro il perfezionismo e quando questo diventa un problema?

perfezionismo

Claudia è una perfezionista. L’attenzione al dettaglio è sempre stato un suo grande vanto, e in ogni pagina che scrive cerca di descrivere al meglio ogni particolare, in modo da riuscire a trasmettere al lettore ogni emozione presente nelle sue storie.

Claudia è un’affermata scrittrice e una perfezionista, ma sono tre mesi che non riesce più a completare il capitolo finale del suo ultimo libro. Scrive una frase, a volte due, poi torna indietro e cancella. “Così non va bene”, si dice ogni volta, “non ci siamo”.

Claudia è una perfezionista ma ha delle scadenze. L’editore le ha chiesto più volte la bozza del suo ultimo romanzo, ma non riesce a completarlo. Sembra arrivata al limite: ci sono giorni che non ci prova nemmeno a scrivere, sente che non sarebbe in grado di farlo in maniera accettabile. Non solo in quei giorni, ma praticamente sempre, si sente tesa, stressata ed estremamente triste.

Claudia è una perfezionista, eppure in questo periodo si sente inutile, una nullità. Si vergogna di sé stessa, passa il tempo a ripetersi che non è in grado di fare niente, di essere una perdente, un fallimento completo.

Il problema della perfezione

Per molti, la ricerca della perfezione è un pregio. Specialmente per chi si ritiene un perfezionista. È chiaro che avere degli standard elevati e fare del proprio meglio è, generalmente, una buona cosa.

Il problema nasce quando quegli stessi standard elevati sono l’unica e sola meta da raggiungere. A volte può andare bene, se si lavora sodo e l’obiettivo è realistico. Ma cosa succede se l’asticella viene posta troppo in alto e non è possibile raggiungere quel livello?

E quali sono i costi da sostenere per arrivare fin lassù? E, una volta arrivati, il beneficio che se ne potrebbe trarre potrebbe giustificare tutti i sacrifici, le rinunce e le notti in bianco?

Perfezione a tutti i costi?

Non sempre le cose vanno nel verso giusto, o certi obiettivi si rivelano irraggiungibili. Chi ha tendenze perfezionistiche non sa quando è il momento di alzare bandiera bianca e di accettare che ciò che si poteva fare è già stato fatto. No, il vero perfezionista persevera. Semmai, è che non si è impegnato abbastanza.

Specialmente davanti a un obiettivo irrealistico, l’effetto di raddoppiare gli sforzi è di aumentare anche lo stress, la tensione e la fatica. E in queste condizioni di solito si commettono anche più errori. Diventa un circolo vizioso, dove a un maggiore sforzo corrisponde una performance peggiore, che viene compensata da uno sforzo ancora maggiore.

Ammesso e non concesso che si raggiungano gli standard desiderati, quale sarebbe il costo in termini di benessere personale? Tutti i sacrifici, la tensione, l’isolamento dagli altri o dai semplici piaceri della vita, visti come distrazioni che distolgono dall’obiettivo ultimo, hanno davvero senso? Il gioco vale davvero la candela?

O perfetti, o nulla

La domanda che viene spontanea, quando ci si trova davanti a persone che sacrificano tutto pur di tentare di raggiungere la “perfezione”, è piuttosto ovvia: perché?

La risposta, spesso, ha a che fare con l’idea che il proprio valore personale dipende dagli obiettivi raggiunti. Per un vero perfezionista, il valore di una persona coincide con ciò che si fa, non con ciò che si è. E quando è così, la prospettiva di “fallire” equivale al proprio fallimento come persona.

Così, ogni qualvolta ci si trova davanti a un obiettivo da raggiungere per confermare il proprio valore come essere umano, ci si espone inevitabilmente al fallimento. Se l’obiettivo è di prendere 30 e lode a ogni esame, cosa accadrà quando il professore-cerbero proporrà un 28? Cosa significherà per il perfezionista in erba quel “misero” voto?

Che non è stato abbastanza bravo? Che non si è impegnato abbastanza? Che non è in grado di andare avanti nel proprio percorso di studi? Che è un fallimento completo, una persona inutile, nemmeno in grado di superare degnamente uno stupido esame?

Vivere così è decisamente stressante. Ogni occasione può essere un pretesto per mettere in discussione il proprio valore, per considerarsi un fallimento, una persona indegna. Tutto questo perché si parte da una premessa tanto estrema quanto errata: io valgo per ciò che faccio.

Dietro la perfezione

Questa ricerca della perfezione come unico mezzo per confermare il proprio valore spesso ha radici antiche. Questa credenza potrebbe essersi sviluppata in un ambiente familiare in cui l’unico modo per ricevere affetto e attenzione era quello di eccellere. Ogni fallimento veniva decisamente criticato, ogni successo fortemente incoraggiato.

Non è l’unica spiegazione possibile, ovviamente. Ciò che è probabile, però, è che dietro il perfezionismo ci siano all’opera uno o più dei seguenti meccanismi:

  • L’illusione del controllo. La vita è innanzitutto incertezza, e l’incertezza spaventa. L’idea di avere controllo in determinate aree della propria vita è rassicurante, perché sappiamo che, almeno in certi contesti, siamo noi a poter controllare le cose. A patto però che vadano come diciamo noi. Cioè, che sia tutto perfettamente come lo vogliamo noi.
  • Il timore delle conseguenze. Riassumibile nell’assunzione: “se non sono perfetto potrebbero accadere brutte cose”. Se non si è perfetti, tutto potrebbe andare a rotoli. Se non si lavora al massimo, si potrebbe perdere il lavoro, la casa, finire sotto i ponti. Se l’arrosto non è perfettamente delizioso, i miei amici non verranno più a casa mia, nessuno vorrà avere a che fare con me, resterò sola e morirò sola.
  • Il bisogno di approvazione. Forse riflesso di un’infanzia dove l’affetto era condizionato al soddisfare l’altro, alcune persone tendenti al perfezionismo ripropongono la stessa dinamica nelle relazioni interpersonali. Coloro i quali ritengono di dover soddisfare perfettamente i bisogni degli altri per poter essere davvero amati e accettati si trovano davanti a un compito impossibile ed emotivamente assai impegnativo.

 

perfezionismo

Perfetto, così come sei

Che il tuo perfezionismo sia relativo al lavoro, alle relazioni interpersonali, allo status sociale o al vestiario, se sei un vero perfezionista conosci molto bene il prezzo che stai pagando per mantenere certi standard. Ansia, insicurezza, stanchezza, tensione, vergogna, timore di essere umiliati sono solo alcune delle condizioni che possono associarsi al perfezionismo.

Se associ il tuo valore esclusivamente agli standard che ti sei posto, o agli obiettivi che hai in mente di raggiungere, stai dimenticando un concetto tanto semplice quanto realistico: nessuno è perfetto. E la vita, quella vera, non è soltanto raggiungere un obiettivo o mantenere un determinato livello raggiunto. La vita è molto, molto di più. TU sei molto, molto di più.

Prenditi un momento: cosa c’è oltre l’oggetto del tuo perfezionismo? Cos’è che ti piace, che ti scalda il cuore, che ti fa sentire vivo? Cos’è che ti fa ridere?
Pensi di poter dedicare del tempo (per quanto poco pensi di averne) alle cose che ti fanno stare bene? Cosa potrebbe accadere se provassi a farlo davvero?

Pensaci: potrebbe essere un tuo nuovo obiettivo, di quelli però decisamente raggiungibili! Dedicare del tempo a ciò che ti piace e ti fa stare bene, ricercare un po’ di leggerezza in questo mondo sempre più frenetico e pesante.

E magari così scoprire che il tuo valore non si può misurare in base a ciò che fai, ma piuttosto dipende da quanto te ne dai.

Condividi, se ti va :)

Chiunque soffra di ansia prima o poi se ne chiederà il perché. Ma da dove nasce l’ansia? Perché c’è chi ne soffre e chi no? L’ansia è una parte di noi, una condanna inevitabile, o è qualcosa che è possibile lasciarsi alle spalle?

origine ansia

C’è una domanda che, prima o poi, chiunque soffri di una qualunque forma di ansia si pone: “Perché sono così ansioso?”. La domanda non è per niente banale, considerato anche che la sofferenza di chi presenta un disturbo d’ansia non deriva soltanto dalla problematica in sé, ma anche dalla netta e soverchiante sensazione che qualcosa di sé stessi non va. Cioè, di essere in qualche modo “sbagliati” o “fatti male”.

Spesso, questa e altre domande simili si originano quando inevitabilmente ci si confronta con gli altri (che non mostrano alcun timore di fronte alle situazioni che l’ansioso invece teme) oppure quando il confronto è tra un passato in cui l’ansia non c’era (o non era così invalidante) e un presente fatto di paure, limitazioni ed eventi inspiegabili.

Ma cos’è l’ansia? Perché alcuni ne soffrono e altri no? È qualcosa che fa parte di noi e che non possiamo eliminare o è possibile fare qualcosa per sconfiggerla?

Perché l’ansia?

L’ansia è un prezioso meccanismo di allarme, senza il quale il genere umano non avrebbe potuto sopravvivere così a lungo. In pratica, la reazione d’ansia ci si segnala che c’è un pericolo che, direttamente o indirettamente, in qualche modo ci minaccia.

Nel tempo, il significato di “sopravvivenza” sembra essersi dilatato: i segnali di pericolo non riguardano più soltanto le minacce concrete al nostro organismo (ad es., un serpente velenoso o un orso pronto ad agguantarci), ma anche qualunque evento o situazione che potrebbe comportare un isolamento dagli altri, la perdita del proprio status sociale o economico, una condizione di salute precaria, la sperimentazione di dolore e di perdita.

Insomma: se c’è qualcosa che temiamo, a torto o a ragione, sperimenteremo ansia quando ci troveremo davanti alla prospettiva che ciò che temiamo possa accadere. Da non sottovalutare, inoltre, è anche un altro aspetto: la fiducia o meno nelle nostre capacità di far fronte a queste minacce.

Da dove viene l’ansia?

Sintetizzando, possiamo dire che i fattori che possono determinare lo sviluppo dell’ansia sono essenzialmente tre:

  • Genetica e temperamento: ovvero la predisposizione di un individuo a reagire o meno con ansia di fronte a degli stimoli;
  • Ambiente familiare: cioè il modo in cui sei stato cresciuto, le paure che circolano in famiglia e le abilità di gestione delle emozioni e degli imprevisti che ti sono state indirettamente insegnate mentre crescevi;
  • Eventi e traumi: tutte le situazioni che hai vissuto che possono aver comportato una minaccia alla tua vita, al tuo status o al tuo benessere in generale.

Prima di addentrarci nel dettaglio di questi fattori, una precisazione: più che di una singola causa specifica sarebbe più corretto parlare di una combinazione di questi fattori.

È raro, infatti, che a seguito di un singolo evento traumatico si sviluppi un disturbo ansioso vero e proprio. Più spesso, invece, è proprio la combinazione tra predisposizione ed eventi significativi, o tra predisposizione e apprendimenti avvenuti in famiglia (o qualsiasi altra associazione tra questi tre fattori) ad essere, in ultima analisi, responsabile dello sviluppo dell’ansia.

Genetica e temperamento

Quando si parla di genetica, eccetto che per determinate condizioni, non bisogna immaginarsi una “condanna” ad avere o meno una certa malattia o a sviluppare o meno determinati comportamenti. Specialmente riguardo i disturbi d’ansia, è decisamente più corretto parlare di predisposizione.

In particolare, di predisposizione del proprio organismo a reagire con intense reazioni emotive di fronte a determinate situazioni. Quindi di avere un minore stabilità emotiva di fronte ad eventi o sollecitazioni ambientali. Ma, come dicevo, non si tratta necessariamente di una condanna: stiamo parlando della planimetria della casa, non di come questa verrà effettivamente costruita. Quello che accadrà dalla nascita in poi sarà altrettanto (se non più) importante di una possibile predisposizione.

Spesso, è facile riscontrare nella propria famiglia “genetica” (i parenti acquisiti non valgono!) uno zio perennemente preoccupato di questo o di quello o una nonna particolarmente incline all’agitazione di fronte agli imprevisti. Insomma, per farla breve: se noti una somiglianza tra alcuni tuoi comportamenti ansiosi con quelli dello zio Nino, potrebbe essere questione di genetica.

Ambiente familiare

Prima di correre ad accusare i propri genitori o parenti di essere responsabili della vostra ansia, tenete bene in mente che:

  • di solito è la combinazione di più fattori a risultare determinante (quindi non si può addossare la colpa a un singolo fattore, in questo caso l’ambiente familiare);
  • qualunque genitore fa del proprio meglio per crescere i propri figli (e non è per nulla un compito facile), il tutto senza manuale di istruzioni!

Alcune persone che soffrono d’ansia sono cresciute in un contesto familiare in cui si trasmette l’idea che il mondo sia, in qualche modo, un posto pericoloso e imprevedibile, ovviamente senza alcuna consapevole intenzione di “traumatizzare” i propri figli. Si tratta, in ogni caso, del riflesso dell’ansia dei genitori stessi, che, direttamente o indirettamente, possono “insegnare” ai propri bambini ad essere ansiosi di fronte ad alcune situazioni.

Stili genitoriali

A volte questo avviene in modo esplicito (“Stai attenta quando esci, il mondo è pieno di malintenzionati!”), altre volte questa trasmissione è più sottile, e dipende dalle modalità con le quali i genitori educano i propri figli. Alcuni stili educativi, infatti, sembrano correlarsi più di altri allo sviluppo di problematiche legate all’ansia. Tra questi troviamo:

  • i genitori iperprotettivi: ovvero coloro che si impegnano costantemente a proteggere o a schermare i propri figli da qualunque possibile minaccia, frustrazione o sofferenza. Sempre pronti a soccorrerli e a trovare soluzioni ai problemi dei propri bambini, non consentono loro di imparare a tollerare e a gestire le proprie ansie e le piccole grandi sfide che inevitabilmente incontreranno nel loro cammino verso l’età adulta;
  • i genitori ipercontrollanti: cioè coloro che (spesso per contenere le proprie, di ansie) tendono a dirigere a controllare qualsiasi aspetto della vita dei propri figli, come le attività e gli sport da fare, i vestiti da mettere, persino cosa bisogna dire e cosa bisogna fare in certe situazioni. È chiaro che i genitori devono essere una guida per i loro figli, ma se si eccede si corre il rischio di smorzare qualunque espressione di autonomia, rinforzando l’idea del bambino (che poi diventerà adulto) di essere dipendente dagli altri e, soprattutto, di non essere in grado di affrontare ciò che teme;
  • i genitori incoerenti: alcuni genitori hanno difficoltà nel definire regole e limiti chiari, ma soprattutto tendono a rispondere in maniera imprevedibile e incoerente in situazioni tra loro simili. Succede dunque che un bambino possa, ad esempio, incontrare difficoltà nel prevedere cosa possa accadere dopo aver confessato una marachella: a volte ne consegue un sorriso comprensivo, altre volte un aspro rimprovero. Ogni volta è un lancio di moneta, e se ogni cosa avviene all’interno di una cornice non ben delimitata, tutto può essere incerto. La sensazione è di non avere il controllo su niente, che il pericolo possa trovarsi dietro l’angolo all’apparenza più innocuo. Come chiamarla, se non ansia?

Eventi e traumi

La predisposizione genetica o un ambiente familiare “ansiogeno” possono sì giocare un ruolo fondamentale nella genesi dell’ansia, ma spesso è possibile individuare un determinato episodio (singolo o presentatosi più volte) che sembra direttamente responsabile dello scatenarsi di un disturbo d’ansia vero e proprio.

Ma vale anche il ragionamento contrario. Un evento decisamente minaccioso per la sopravvivenza di più individui (pensiamo, ad esempio, a un terremoto) non “genera” automaticamente un disturbo d’ansia in tutti coloro che l’hanno vissuto. Quindi, ancora una volta, non è possibile individuare una singola causa per l’origine dell’ansia (predisposizione, apprendimenti o accadimenti), benché sia evidente come alcuni eventi possano rivelarsi un fattore scatenante.

Quando si parla di “traumi” si è portati a immaginare eventi singolari e catastrofici che segnano inevitabilmente la vita di chi li subisce. A volte, però, non si tratta di eventi specifici o ben definiti, ma anche di esperienze che semplicemente possono minacciare il proprio senso di stabilità o cambiamenti significativi con i quali è difficile venire a patti.

Piccoli grandi traumi

In questo senso, anche situazioni apparentemente positive possono favorire lo sviluppo di un disturbo d’ansia. Prendiamo, ad esempio, un avanzamento di carriera: nuove responsabilità, nuovi impegni e nuove sfide possono esacerbare vecchie preoccupazioni, vecchie paure e vecchie convinzioni.

Insomma, qualunque cosa possa spingerci al di fuori della nostra zona di comfort o che in qualche modo minaccia un equilibrio consolidato, può potenzialmente esporci a sviluppare (o a esprimere pienamente) un disturbo d’ansia.

La lista, potenzialmente, è infinita: la fine di una relazione, una malattia temporanea, un trasferimento, la nascita di un figlio, il trovarsi intrappolati nel traffico durante un forte acquazzone. In pratica, qualsiasi evento possa metterci di fronte alle nostre paure e alle nostre fragilità. Qualsiasi situazione possa rappresentare per noi un pericolo: come l’essere abbandonati, il sentirsi deboli e fragili, il trovarsi in una situazione in cui ci sentiamo impotenti.

origine ansia

Ritorno alle origini

Per risolvere la propria ansia non è necessario scoprirne l’origine precisa. Anche perché non è così facile: anche solo pensando alle esperienze vissute durante l’infanzia, possiamo dire con certezza che i ricordi che ci appartengono sono reali? E se in qualche modo si fossero mischiati ad altre memorie, altre ricostruzioni, altre narrazioni, altre interpretazioni?

Anche se non sempre è fondamentale capire l’origine della propria ansia, mettersi sulle tracce di questa può essere utile per due importanti ragioni:

  • Riesaminando alcuni episodi del passato, così come quelli che si verificano nel presente, è possibile individuare alcuni elementi che possono contribuire a dare un senso alle emozioni che si provano, ai pensieri che ci sono dietro e ai comportamenti che ne conseguono. Non tanto per fare luce sul passato (ormai è andato via), piuttosto per capire cosa non va ora e come affrontare l’ansia di adesso.
  • L’ansia non è un qualcosa che ci infliggiamo volontariamente: l’ansia può svilupparsi per molte ragioni, ma certamente la colpa non è di chi ne soffre. Dare un senso alla propria ansia, capire perché è così presente nella nostra vita, aiuta a contrastare la tendenza ad incolparsi, a sentirsi “diversi”, “fatti male” o “inferiori” rispetto ai non-ansiosi.

La colpa e l’autocritica, compagne decisamente dannose e che spesso vanno a braccetto con l’ansia, in questo senso, non hanno motivo di esserci. Nessuno decide di voler “essere ansioso”, né tantomeno è contento di non riuscire ad affrontare determinate situazioni. L’ansia nasce per alcune ragioni, ma nessuna di queste dipende dalla volontà della persona che ne soffre.

Disimparare l’ansia

L’ansia che si prova in determinate situazioni, che così tante limitazioni comporta nella nostra vita, non è un qualcosa caduto dal cielo: l’ansia è qualcosa che si impara. Questo al di là di possibili predisposizioni, che non sono condanne, ma, per l’appunto, solo “predisposizioni”.

Se l’ansia è un qualcosa che abbiamo imparato, allora, perché concentrare le proprie energie sui sensi di colpa, sul sentirsi “diversi”, “stupidi”, “inferiori”? Perché considerare l’ansia come inevitabile, come qualcosa che fa parte di noi e dalla quale non potremmo liberarcene mai?

Al di là di come abbiamo imparato a vivere alcune esperienza con ansia, è sempre possibile imparare un nuovo modo di affrontare quelle stesse situazioni. Quindi perché investire le proprie energie concentrandosi su quanto si è sbagliati, diversi e impotenti? Non sarebbe meglio investirle nel capire come e perché proviamo ansia, per imparare un modo diverso di gestirla?

Smetti quindi di giudicarti perché soffri d’ansia: non ti porta altro che ulteriore sofferenza. Così come è stata appresa, l’ansia può essere disappresa. Se vuoi, possiamo riuscirci insieme.

Condividi, se ti va :)

Andare in vacanza significa prendersi una pausa dallo stress della vita quotidiana, ma se la vacanza stessa diventa fonte di stress rischiamo di tornare al punto di partenza. Forse occorre ripensare alla vacanza non come fuga dallo stress, ma come occasione per dedicarci a ciò che ci fa stare bene e a chi vogliamo bene.

stress vacanza

Hai già pianificato la tua vacanza perfetta? Non vedi l’ora di poter finalmente lasciarti alle spalle tutto lo stress, i problemi e le preoccupazioni di ogni giorno? Già ti vedi su una spiaggia bianchissima e le palme tutte intorno o a passeggiare per un fresco sentiero con imponenti montagne sullo sfondo?

Andare in vacanza significa mettere da parte le responsabilità, gli impegni e le scadenze che quotidianamente riempiono le nostre giornate. Significa partire con la voglia di divertirsi e rilassarsi, per ritrovare le energie perse da tempo e riuscire a prendersi una pausa da tutto lo stress che pervade le nostre esistenze.

A volte, però, alcuni nostri atteggiamenti possono portarci a vivere anche le vacanze in maniera stressante. E forse può essere utile rivedere il concetto di vacanza non come fuga dallo stress, ma semplicemente come occasione per dedicarci a ciò che più ci piace e per stare con chi vogliamo bene.

Stress da vacanza

Il senso ideale della vacanza è “staccare” dalla vita di tutti i giorni, una pausa dallo stress che ci accompagna per tutto l’anno. Paradossalmente, però, la stessa vacanza può diventare una fonte di stress, ancor prima che questa inizi: la pianificazione, il budget da destinare, le valigie, il viaggio sono tutti elementi che possono dare origine a preoccupazioni e tensioni.

Andare in vacanza, inoltre, rappresenta un cambiamento significativo rispetto all’ordinario. Ci troviamo cioè in una finestra temporale in cui tutto (o quasi) cambia: gli orari, le routine quotidiane, ma anche gli spazi e i momenti in cui troviamo conforto quando ne sentiamo il bisogno.

Eppure, nonostante molte cose possano apparire diverse, siamo sempre noi ad andare in vacanza. Noi, con le nostre aspettative, i nostri problemi, le nostre necessità. Con le nostre idee su come devono essere le cose, su come devono andare, su cosa fare e cosa non fare.

In un certo senso, quindi, possiamo ritrovarci a partire solo con il corpo, non con la mente. Tutto quello che è già nella nostra testa viene in valigia con noi. Il rischio è di aver aspettato un intero anno per poi ritrovarci, sebbene in vacanza, al punto di partenza. Staccare, ma senza staccare.

Aspettative di relax

Diciamoci la verità: il fatto che siamo in vacanza non vuol dire necessariamente che lo stress sparisca immediatamente dalle nostre vite una volta scesi dall’aereo. Si parte sempre con l’aspettativa di “rilassarsi”, di vivere finalmente un periodo senza pensieri né preoccupazioni, di solo divertimento e pace interiore.

Partiamo cioè orientati verso quello che immaginiamo sarà un periodo bellissimo della nostra vita, senza problemi né ansietà. Con questa idea fortemente radicata nella nostra testa, cosa accadrà al primo imprevisto? Può essere un ritardo all’aeroporto, una fila interminabile in autostrada o il proprietario dell’appartamento che abbiamo affittato che non si fa vedere e non risponde al telefono.

Il sogno è già parzialmente infranto. In un attimo sentiamo nuovamente montare lo stress, magari accompagnato da frasi quali: “Ecco, non me ne va mai bene una!”, “Sono venuto per rilassarmi e mi sento peggio di prima!”.

Intendiamoci, non sto dicendo di aspettarsi il peggio dalla nostra vacanza. Piuttosto, che è importante partire con la consapevolezza che “vacanza” non significa “sfuggire allo stress”. Se partiamo con questa aspettativa, al primo imprevisto torneremo inevitabilmente al punto di partenza.

Il dovere di divertirsi

Quando si parte, ma anche giorni prima di farlo effettivamente, la testa comincia a riempirsi di immagini e pensieri su come si deve stare in vacanza. “Devo divertirmi, devo rilassarmi, devo mettere da parte i pensieri, devo godere di ogni momento al massimo, non devo avere preoccupazioni, non devo stressarmi”.

Insomma: messi da parte i “doveri” della vita ordinaria, li sostituiamo subito con i “doveri” da vacanza. Niente di male in questo, per carità. Anche se, a ben guardare, sembra quasi di essere di nuovo in ufficio con le mille cose da dover fare o in casa con i mille problemi da dover risolvere.

A volte, le doverizzazioni prendono la forma di programmi di attività ben strutturati: la prima sera cenetta a base di pesce in riva al mare, la mattina seguente corsetta in spiaggia alle 6, il terzo giorno con tutta la famiglia al parco divertimenti, il giorno dopo sci d’acqua e quello dopo ancora parapendio.

Che siano programmi o atteggiamenti, il rischio è di strutturarsi mentalmente una serie di condizioni che, qualora non dovessero verificarsi, possono diventare esse stesse condizione di stress e di disagio. Accade così che la vacanza, fuga a lungo attesa dal carico di sofferenze quotidiane, diventi uno schema rigido nel quale ci sentiamo incastrati nel disperato tentativo di stare meglio.

Come non rovinarsi una vacanza

In definitiva, tra aspettative irrealistiche di assoluto relax e rigide idee su come devono andare le cose, la nostra vacanza rischia di diventare una situazione ancora più stressante di quelle che vorremmo, almeno temporaneamente, lasciarci alle spalle.

Occorre, forse, un cambio di prospettiva. Vedere cioè la vacanza che ci aspetta non come la soluzione di tutti i mali, ma come un’opportunità di vivere un’esperienza nuova che ci consenta, almeno temporaneamente, di mettere da parte ciò che ogni giorno sembra consumarci. Altrimenti, perché scomodarsi a prendersi un periodo di pausa se dobbiamo poi viverlo allo stesso modo di sempre?

Quindi, innanzitutto:

  • Non aspettarti “risultati”. Non partire con l’idea di rientrare più rilassato, più tonico o più pimpante. Il rischio è di non riuscirci, per una ragione o per un’altra. Vivere una vacanza come un’esperienza orientata verso degli obiettivi assomiglia più a un lavoro che a un periodo di riposo!
  • Non fermarti agli imprevisti. Capitano e capiteranno senz’altro: gli imprevisti sono all’ordine del giorno, che tu sia o meno in vacanza. Non farne un dramma, vivili per quelli che sono: dei semplici contrattempi. Davvero un piccolo intoppo ha il potere di condizionare l’intera vacanza?
  • Non programmare ogni cosa. Lo scopo non è “occupare il tempo”, semmai può esserlo di viverlo a pieno. Non è necessario essere sempre impegnati in qualcosa, anche nei momenti di relativa inattività, di ozio o di “noia” si può stare bene. Magari rappresentano proprio un’opportunità per rifiatare… che poi era l’idea iniziale, giusto?
  • Non portarti dietro il lavoro. Non parlo solo delle carte arretrate alle quali pensavi di dedicarti in alternativa alla siesta, ma soprattutto di tutto ciò che è per te fonte di preoccupazione o di disagio. In altre parole: di stress. Più facile a dirsi che a farsi, lo so. Per riuscirci, è necessario tenere “impegnata” la mente in altri modi, alcuni dei quali sono elencati di seguito.

Come godersi una vacanza

Come si può fare, quindi, per vivere la nostra vacanza in modo da renderla davvero un’esperienza significativa e rigenerante? Ecco alcuni consigli per una vacanza meno “impegnativa” ma, forse, più soddisfacente:

  • Rinnovare i propri interessi. Mettere da parte la solita routine non significa necessariamente rivoluzionare la nostra vita, lasciare in stand-by ogni aspetto del nostro essere o abbandonarsi all’ozio più assoluto. Anzi, la vacanza può essere un ottimo momento per riprendere in mano le cose che più ci piace fare e viverle con rinnovata passione: approfittiamo dunque delle ferie per dedicarci ai nostri interessi, siano essi la lettura o la fotografia, il visitare musei e luoghi d’arte o il gustare le prelibatezze locali.
  • Fare attività fisica. Non è necessario frequentare una palestra quando si è in villeggiatura, in realtà basta anche un po’ di ginnastica dolce o passeggiate più o meno lunghe. Quanto basta per restare attivi, insomma. L’obiettivo non è “mantenere la forma” o tornare in ufficio più tonici di prima, quanto piuttosto di dare modo anche al nostro corpo di rigenerarsi, di ritrovare le energie e la vitalità che spesso sembrano mancarci nei lunghi periodi in cui ci alterniamo tra la seduta della scrivania e il divano di fronte alla tv. Insomma, perché non approfittare per ridare vigore al nostro corpo, oltre che alla nostra mente?
  • Vivere nuovi stimoli. Le vacanze sono anche un’ottima occasione per sperimentare nuove esperienze, in un contesto in cui siamo meno vincolati dal tempo e dagli impegni quotidiani. È anche un modo per ritornare più “ricchi” di nuove avventure e prospettive. Non è necessario programmare chissà quali esperienze, a volte può bastare davvero poco: assaggiare un cibo esotico, esplorare un fondale marino, fare due chiacchiere con un pescatore locale. Insomma, sperimentare l’insolito e aprirsi a nuove esperienze: ecco come con la vacanza si può andare oltre l’ordinario.
  • Condividere i momenti. Sembra banale, ma uno degli aspetti più significativi di una vacanza è la possibilità di ritrovare il semplice piacere di stare con chi vogliamo bene. Che sia il proprio partner, i propri parenti, gli amici di una vita o nuove conoscenze non importa: ciò che davvero conta è l’opportunità di condividere questa esperienza tenendo da parte i soliti problemi e le solite preoccupazioni, che a volte ci sono d’ostacolo nel vivere quotidianamente l’altro. E magari riscoprire le piccole gioie dello stare insieme, del sentirsi parte di qualcosa di più grande di questo o quello. Sentirsi a casa, ovunque ci si trovi.

In definitiva, prenditi cura di te stesso a partire da ciò che ti piace, da ciò che ti fa stare bene, da ciò che ti stimola e da chi ti vuole bene.

stress vacanza

Il rientro

Capitolo a parte, il famigerato rientro. La bestia nera. Lo spettro che si aggira tra le stanze della nostra mente ancor prima di partire per le vacanze. Rientrare significa tornare alla “normalità”, quindi chiudere la finestra temporale delle ferie appena trascorse e prepararsi a tornare alla routine, cioè alle solite preoccupazioni e ai problemi di sempre.

Innanzitutto, un ultimo consiglio: fate in modo di lasciare almeno un paio di giorni dalla fine delle vacanze al momento del rientro effettivo alle attività di sempre, siano esse il lavoro, la gestione della casa o altro. Datevi il tempo di riabituarvi, con gentilezza, ai soliti ritmi. Lasciate che sia una transizione morbida e cominciate con gradualità, non gettatevi a capofitto sulle cose da riprendere.

E non indugiate troppo sul pensiero che le vacanze sono ormai finite. Le esperienze fatte e i momenti belli passati con chi volete bene non è detto che non possano ripresentarsi al di fuori di quel limitato periodo di riposo. Ogni giorno ne potete fare esperienza. Che sia durante una gita fuori porta la domenica o in un piovoso lunedì di Ottobre, c’è sempre la possibilità di mettere da parte la consueta routine e prendersi del tempo per sé stessi.

Allora, ancora una volta, buone vacanze! :)

Condividi, se ti va :)

Arriva, inevitabilmente, il momento in cui il nostro unico desiderio è mettere da parte tutto per poterci, finalmente, fermare. Ma non è necessario aspettare le tanto sognate vacanze, ogni giorno abbiamo la possibilità di dedicarci a ciò che ci fa stare bene e che può aiutarci a recuperare le energie per continuare ad andare avanti.

vacanza

Siamo in un periodo critico dell’anno: fa caldo – ogni anno sempre di più,  le energie vengono meno e le nostre fantasie sono tutte orientate al fatidico momento in cui potremo, finalmente, partire per delle meritate vacanze. Per chi se le può permettere, ovviamente.

Dopo un anno di lavoro, che sia dietro una scrivania o tra le mura domestiche, di corse qua e là, di impegni, di incombenze e di preoccupazioni, sentiamo il forte bisogno di una pausa dai soliti ritmi infernali. Poterci finalmente fermare, che sia in riva a una spiaggia assolata o sul cucuzzolo di una montagna non importa. L’importante, comunque, è staccare.

Ma dobbiamo davvero aspettare il momento delle tanto agognate ferie, per riuscire a mettere da parte le nostre vite frenetiche e godere di qualche momento di riposo e di benessere?

Se non ti fermi tu, mi fermo io

Il problema fondamentale è che la vita non si ferma. Se sentiamo il bisogno di rifiatare, restano comunque delle cose da fare: bisogna continuare a lavorare, a produrre, a rispettare gli impegni e le scadenze. Nonostante sentiamo che le forze non ci siano più.

Ma se la vita non si ferma, possiamo fermarci noi? In attesa delle ferie, è possibile ritagliarsi comunque dei momenti di vacanza dalla quotidianità? È possibile trovare degli spazi e dei momenti di riposo in cui immergerci per ricaricarci, quanto basta per poter tornare a prendere fiato?

Forse sì. Forse è possibile prendersi del tempo per sé stessi, per ritrovare quelle energie che possono sostenerci nei periodi – più o meno lunghi – in cui sentiamo di non avere più le forze. Ma cos’è che potremmo fare concretamente per ricaricarci?

Un tempo solo per noi

Ciascuno di noi ha delle cose che gli piacciono (e che teoricamente ci fanno stare bene) e altre che piacciono meno o per nulla, ma che purtroppo tocca fare. La situazione diventa molto più pesante da sopportare se, al di là della stanchezza e della mancanza di energie, la nostra vita è sbilanciata soprattutto verso le cose che si devono fare, con poco o nessuno spazio per le attività che possono produrre su di noi effetti benefici.

Poiché – fortunatamente – non siamo tutti uguali, non è possibile elencare una lista di attività da fare per farci stare bene. Ognuno di noi sa cosa gli piace e cosa non gli piace, cosa lo fa sentire vivo o produttivo, cosa gli restituisce energie o una maggiore serenità.

Quindi, il primo passo è piuttosto semplice: prendi carta e penna e scrivi almeno 5 attività che siano per te fonte di piacere e gioia o che ti restituiscano un senso di efficacia e di produttività. Meglio ancora sarebbe se queste attività incarnassero entrambe queste caratteristiche, ma non è facile trovarne di così “complete”.

Se hai difficoltà nel trovarle, di seguito troverai alcuni spunti che spero possano esserti utili.

Alcune idee

Ci sono alcune attività che hanno un solo scopo: quello di farci rilassare e stare bene. Spesso si tratta di attività che ci consentono di immergerci completamente in quel momento, mettendo da parte stanchezze, pensieri e incombenze. Sono piuttosto facili da trovare se le cerchiamo tra i nostri interessi, ovvero tra le cose che ci piacciono. Ad esempio:

  • Leggere un libro
  • Fare una passeggiata immersi nella natura
  • Fare una gita fuori porta
  • Scrivere una poesia, una lettera o un racconto
  • Mangiare un bel gelato
  • Giocare con i propri figli (o con un amico a quattro zampe)
  • Uscire con gli amici

Altre attività, invece, possono sembrare meno piacevoli a prima vista, ma hanno il pregio di restituirci qualcosa in termini di “efficacia”. Sono tutte quelle iniziative che mirano a tenerci attivi, ottenendo possibilmente anche dei risultati, piccoli o grandi che siano. Tra queste troviamo:

  • Sistemare il giardino
  • Riparare il lavandino che perde
  • Preparare una bella cena
  • Imparare a suonare uno strumento musicale
  • Fare le parole crociate
  • Creare con le proprie mani un pensierino per qualcuno a cui vogliamo bene
  • Fare delle attività di volontariato

Ci sono poi delle attività “bingo” con le quali prendere i proverbiali due piccioni con una fava, attività complete che ci fanno stare bene e che ci restituiscono anche un senso di efficacia, come il fare attività fisica e sportiva. Tra queste, comunque, la mia preferita è senza dubbio la meditazione, che rappresenta la perfetta sintesi del “prendersi del tempo per sé stessi”.

Perché staccare ci fa bene?

Innanzitutto “staccare” ci fa bene proprio perché ci consente di uscire, anche se solo per un attimo, dagli automatismi di una vita che sempre più spesso viene sentita come troppo piena ma contemporaneamente svuotata da piaceri e soddisfazioni.

Altri benefici del dedicare del tempo a sé stessi dipendono, ovviamente, anche dal tipo di attività che si decide di svolgere. Ad esempio, farsi fare un massaggio dal proprio partner (un altro spunto, per la gioia del partner!) può favorire non solo un rilassamento psicofisico, ma anche portare vitalità e risvegliare sentimenti positivi nei confronti dell’altro. In generale, comunque, svolgere delle attività che ci permettono di staccare dalla routine può portarci effetti benefici rispetto a diverse aree:

  • Umore. Impegnarsi in attività che ci fanno stare bene o che ci fanno sentire efficaci può migliorare nettamente il nostro umore. Può sembrare ovvio, ma quando stiamo un po’ giù non è facile pensare che a volte basta davvero poco per sentirci meglio.
  • Energia. Alcune attività, in particolare quelle che richiedono un certo grado di movimento, possono avere un importante effetto energizzante. Sembra quasi paradossale, ma spendere energie per poi ritrovarsene ancora di più è un piacevole effetto collaterale.
  • Efficacia. Riuscire a ottenere dei risultati, per quanto piccoli possano sembrare, ci restituisce un senso di efficienza e di adeguatezza che spesso ci motiva a fare di più, per noi stessi ma anche per gli altri.
  • Benessere e connessione. Dedicarsi ad attività che ci consentono di andare oltre la routine ci aiuta a mettere in prospettiva molte cose: l’ammirare un paesaggio o il prendersi cura di un fiore o di una pianta possono risvegliare in noi il senso del bello e la meraviglia per tutto ciò che ci circonda. Spesso, cambiare punto di osservazione può consentirci di aprirci gli occhi verso la realtà delle cose e farci sentire pienamente connessi con un mondo nel quale possiamo faticare a trovare il nostro posto.
  • Creatività. Non è insolito che le migliori idee vengano nel momento in cui ci dedichiamo ad attività che possono sembrare, di per sé, soltanto occasioni di svago. Ma è proprio nei momenti in cui riusciamo a distanziarci dai soliti pensieri e rimuginii dedicandoci pienamente ad altro, che possono emergere intuizioni, idee e persino soluzioni a problemi che sembravano irrisolvibili.
  • Rapporti con gli altri. Se dedichiamo del tempo per noi stessi, per stare bene con noi stessi, non possono che verificarsi degli effetti positivi anche nelle nostre relazioni. Che sia il partner, il vicino di casa, il capo o il postino non importa: una persona che sta bene con sé stessa è in grado di tollerare meglio le tante piccole cose che ci infastidiscono degli altri, è in grado di ascoltare con più attenzione, di essere più gentile e più comprensiva. E questo gli altri lo sentono, magari restituendo il favore e generando così un circolo virtuoso.

vacanza

Vorrei, ma non posso

A questo punto, se non hai ancora elaborato una lista di possibili attività da svolgere ora è il momento di farlo. Siamo arrivati, infatti, al secondo passo: scegliere quando e come svolgere queste attività.

È importante trovare ogni giorno il tempo necessario per svolgere almeno un’attività. È facile ricadere nuovamente nella routine e riabbandonarsi ai ritmi che in questo periodo è sempre più difficile sostenere. Per questo, è fondamentale riuscire a ritagliarsi uno spazio per sé stessi da dedicare alle attività che abbiamo scelto.

Sulla carta è facile, ma non appena proviamo a definire con maggiore precisione le attività che vogliamo svolgere, ecco che appaiono dubbi, incertezze e presunte difficoltà. In particolare, le obiezioni che più frequentemente possono venirci in mente per “sabotare” le nostre buone intenzioni sono:

  • Non ne ho il tempo. Sicuro? Davvero non hai cinque minuti per fare una passeggiata intorno al palazzo? Basta cominciare con poco, anche solo pochi minuti, e vedere cosa accade. Se noti qualche effetto positivo, anche solo se riesce a “staccare” per pochi minuti, magari poi riuscirai a trovare qualche altro minuto in più da dedicare a queste attività. Forse, togliendo un po’ di tempo ai social network o allo zapping compulsivo…
  • Sarebbe da egoisti. Prendersi del tempo per sé stessi, a volte, viene visto come un qualcosa di profondamente ingiusto nei confronti degli altri. “Non posso dedicare del tempo a me: già non ne ho di tempo, quello che mi avanza non posso sottrarlo agli altri” oppure “Ci sono sempre così tante da fare per mandare avanti la baracca, cosa penserebbero gli altri di me se io, invece di darmi da fare, mi mettessi a fare i fatti miei?”, sono alcuni possibili pensieri che possono passarci per la testa. La verità è che non c’è assolutamente alcun motivo per considerarsi egoisti solo perché si fa qualcosa per sé stessi. Anzi, se dedicarci a noi stessi ci fa stare bene e ci rende più sereni e meglio disposti nei confronti degli altri, non è che forse sarebbe “da egoisti” non cogliere queste opportunità?
  • Non serve a nulla fare cose così insignificanti, ho solo bisogno di una vacanza! Certo, quale migliore modo per “staccare” dalla quotidianità dello spaparanzarsi all’ombra di una palma, facendoci cullare dal ritmo dell’amaca e dalla musica delle onde che si infrangono sulla spiaggia? Ma se al mare non ci puoi andare? Se non puoi permetterti una vacanza? Se sei ancora a Febbraio e le ferie sono più che un miraggio? E poi, le vacanze finiscono. Imparare a prendersi del tempo per sé stessi resta, potenzialmente per tutta la vita. Può sembrare cosa da poco, ma avere la possibilità di fermarci a rifiatare prima di immergerci nuovamente nell’apnea del solito tran-tran, può fare la differenza. Non solo in estate, ma ogni qualvolta ne sentiremo il bisogno.

Ricapitolando

Che le vacanze siano prossime o lontane, impossibili o già finite, possiamo trovare il modo di staccare temporaneamente la spina e ricaricare le nostre batterie, semplicemente dedicando del tempo a noi stessi e a quello che più ci piace.

Prima occorre individuare almeno 5 attività che potrebbero fare al caso nostro (anche di più, se ci va), poi bisogna decidere quando, dove ed eventualmente con chi farle. Questa, forse, è la parte più difficile: trovare il tempo da dedicare a noi stessi quando pensiamo che di tempo non ce n’è più.

In realtà, si tratta di un vero e proprio investimento: come abbiamo visto, anche solo pochi minuti da destinare a ciò che ci fa stare bene possono fruttarci maggiori energie, un innalzamento dell’umore, migliori rapporti con gli altri. Non si tratta quindi della quantità di tempo “perso”, ma della qualità del tempo “guadagnato”.

E poi, diciamoci la verità, sicuri che quando andiamo in vacanza riusciamo davvero a “staccare”? ;)

Buone vacanze (lunghe o temporanee) a tutti!

Condividi, se ti va :)

Il sesso dovrebbe essere un’esperienza piacevole, ma è difficile che sia così quando si soffre della cosiddetta ‘ansia da prestazione’. Vediamo insieme come nasce l’ansia da prestazione e come fare per ritrovare l’intesa di coppia e il piacere del fare l’amore.

ansia da prestazione

Sulla carta, il sesso dovrebbe essere un’esperienza decisamente piacevole. A volte, però, finisce per diventare l’esatto opposto: un’attività che diviene fonte di stress più che di piacere. Questo è vero soprattutto nel caso siano presenti delle disfunzioni sessuali che impediscono di godere a pieno dell’esperienza, come difficoltà legate all’erezione o all’eiaculazione precoce negli uomini oppure assenza di desiderio o anorgasmia nelle donne.

Al di là delle specifiche problematiche, però, uno dei peggiori nemici del sesso resta sicuramente l’ansia da prestazione. In particolare, le preoccupazioni relative al proprio aspetto o alle proprie performance tra le lenzuola, che rendono il rapporto sessuale un’esperienza decisamente stressante e motivo di forte sofferenza. Anche per il partner.

In questo articolo portiamo l’attenzione sul rapporto tra sesso e ansia, in particolare sulle preoccupazioni relative alla prestazione e su cosa si può fare per vivere con maggiore serenità i momenti di intimità con la propria dolce metà.

Ansia e sessualità: una coppia incompatibile

Abbiamo parlato molte volte di come i nostri pensieri possano portarci a sperimentare ansia. Le tipiche preoccupazioni di chi si approccia all’attività sessuale come una “prestazione” non fanno eccezione.

Nel momento in cui si scatena la risposta di ansia, infatti, nel nostro corpo avvengono delle modificazioni che preparano il nostro corpo ad agire: andiamo cioè in modalità “attacco o fuga”. Quando si attivano i circuiti responsabili di questo processo (parliamo del sistema nervoso simpatico, che di simpatico, come stiamo per vedere, non ha proprio nulla), semplicemente non si può avere un’erezione. Nelle donne, invece, è impedita la risposta di lubrificazione.

Insomma, mancano proprio le basi. Non c’è molto altro da aggiungere: ansia e sesso sono decisamente incompatibili!

Pensieri e preoccupazioni

Ci sono diversi tipi di preoccupazioni che possono passare per la testa dello sfortunato amante. Semplificando, possiamo distinguerle in due tipologie: quelle relative alla prestazione e quelle legate alla propria immagine di sé.

Tra le ansie che hanno come oggetto la performance sessuale troviamo in particolare:

  • L’aspettativa di dover soddisfare sessualmente il partner;
  • La preoccupazione (nell’uomo) di raggiungere l’eiaculazione troppo presto o di non riuscire a raggiungerla affatto;
  • La preoccupazione (nella donna) di non essere in grado di raggiungere un orgasmo.

Per quanto riguarda aspetti legati alla propria immagine corporea, si riscontra soprattutto:

  • Il non essere a proprio agio con il proprio corpo, sia rispetto a inestetismi o a problemi di peso, sia relativamente alla conformazione e alle misure degli organi genitali.

Esistono diversi motivi che possono portare una persona a sperimentare ansia in ambito sessuale. Si va da precedenti esperienze traumatiche a cambiamenti fisici dovuti a malattie o gravidanze, passando per molti altri fattori. Tra questi, un ruolo sicuramente importante è occupato dalle credenze relative alla sessualità.

Credenze sul sesso e immagine di sé

Parliamo di idee decisamente inesatte ma purtroppo molto diffuse nella nostra società relative a cosa sia il sesso e come vada fatto, ma anche concezioni relative alla mascolinità o alla femminilità. Ad esempio:

  • l’uomo è davvero uomo solo se è in grado di soddisfare una donna, magari con un certo numero predefinito di orgasmi “da procurare”;
  • l’uomo deve essere sempre avere voglia ed essere pronto e disponibile a fare sesso, a prescindere dalla stanchezza, dalla saluta fisica e dall’ansia;
  • le dimensioni sono l’unica cosa che conta davvero;
  • in una coppia, se ci si ama davvero, si sa già cosa vuole o pensa il proprio partner;
  • il sesso deve essere un’attività naturale e spontanea, non se ne può parlare, altrimenti non sarebbe la stessa cosa;
  • il sesso è realmente soddisfacente solo se entrambi i partner hanno un orgasmo contemporaneamente.

Il problema di queste credenze, oltre al fatto che sono di per sé assolutamente sbagliate, è che inducono una certa idea di cosa è normale e di cosa non lo è, di ciò che va e di ciò che non va. Un uomo che, ad esempio, non è dell’umore giusto per un rapporto sessuale potrebbe ritenere che c’è qualcosa in lui che non va, che non è normale. Allo stesso modo, un uomo che non riesce a sviluppare o a mantenere l’erezione durante un rapporto sessuale, potrebbe pensare di non essere in grado di soddisfare sessualmente la propria partner, quindi di non essere un “vero” uomo.

Che effetto può avere sulla propria immagine di sé credere a queste concezioni sulla sessualità? Cosa succede se crediamo in maniera rigida a queste idee, confrontandoci continuamente con standard irrealistici e per di più inesatti?

Cosa succede in camera da letto?

Come spesso accade quando si ha a che fare con l’ansia, le conseguenze che più temiamo e che vogliamo evitare si presentano drammaticamente proprio a causa della stessa ansia.

Quando una persona vive la sessualità concentrandosi esclusivamente sulla prestazione o sui propri difetti fisici, perde di vista cosa succede tra le lenzuola in quel momento. Non solo, perde di vista il proprio partner.

Un amante distratto da pensieri quali “sto andando bene?”, “si vede la pancia che sobbalza?” o “non devo perdere il controllo!” è un amante disattento, quindi non in grado di prestare realmente attenzione ai bisogni del partner, quindi – paradossalmente – non in grado di soddisfarlo.

Il rischio è che si instauri un circolo vizioso dal quale diventa difficile uscirne: a partire dagli effetti dell’ansia sulla “prestazione”, che già rendono difficile iniziare o portare avanti un rapporto, se l’attenzione è portata esclusivamente alla performance non c’è possibilità di un incontro realmente soddisfacente, il che alimenta le proprie insicurezze e, quindi, la propria ansia.

ansia da prestazione

Come affrontare l’ansia da prestazione

Un consiglio generale e sempre valido quando si parla di difficoltà sessuali, è di rivolgersi al proprio medico di fiducia ed eventualmente a medici specializzati in disturbi della sessualità. È il caso soprattutto di problemi relativi all’erezione o in caso di dolori nel rapporto. Ad ogni modo, è necessario indagare su possibili condizioni mediche o sull’utilizzo di farmaci o altre sostanze che possono essere alla base di una disfunzione sessuale.

Esclusa la possibilità di una causa organica, il mio consiglio è di:

  • Parlarne con il tuo partner. È molto importante confrontarsi in maniera aperta sulle proprie difficoltà o insicurezze, anche perché spesso il partner è già ben consapevole che c’è “qualcosa che non va”. Provate a trovare una soluzione insieme: oltre che avvicinarvi ancora di più come coppia, la vostra vita sessuale potrebbe guadagnare moltissimo da un confronto aperto e sincero.
  • Non concentrarti solo sulla penetrazione. Il sesso è molto più del coito, e il piacere non dipende solo da questo. Ci sono molti modi per provare benessere e soddisfazione nell’intimità con l’altro, dai massaggi sensuali ai baci, dalle carezze al darsi piacere l’un l’altro senza penetrazione. Quello che conta, alla fine, è solo stare bene insieme e godersi il momento.
  • Chiedere aiuto a un terapeuta. Se hai difficoltà a confrontarti con il partner o non sai bene cosa fare, la cosa migliore da fare è consultare uno psicoterapeuta che possa aiutarti nel risolvere queste difficoltà. È comunque la strada migliore da percorrere se una coppia vive delle forti tensioni al di fuori della camera da letto: in questi casi è difficile anche che ci sia il desiderio di fare l’amore, che è sicuramente un prerequisito fondamentale, figuriamoci il resto.

Infine, è importante che tu smetta di darti addosso. Smetti di concentrarti sui tuoi difetti o sullo standard minimo da garantire: come abbiamo visto non è che aiuti molto. Smetti di giudicarti negativamente: non serve a nulla e ti fa stare solo male. Se pensi di avere dei problemi a letto, cerca aiuto: è la decisione più saggia per tornare nuovamente a vivere la sessualità in maniera positiva e soddisfacente.

Se hai bisogno, io ci sono.

Condividi, se ti va :)

L’ansia, come qualunque altra emozione negativa, è un’esperienza decisamente spiacevole, al punto che certe volte sembra impossibile da tollerare. E se invece non fosse così? Cosa potremmo scoprire se solo provassimo a stare semplicemente con questa emozione?

Tollerare

In breve, un’emozione rappresenta la risposta del nostro corpo a un dato evento. Accade qualcosa, il nostro cervello lo registra, lo interpreta e il nostro organismo risponde con delle modificazioni fisiologiche che ci preparano a una reazione congruente.

Il tutto avviene in pochi millisecondi, non è possibile interrompere il percorso già avviato e prevenire il “sentire” dell’emozione. Quindi mettiamoci l’anima in pace: le emozioni ci sono e si fanno sentire in tutta la loro prepotenza.

Questo però non significa che non sia possibile fare qualcosa al riguardo. Preso atto dell’inevitabilità delle emozioni, non resta che chiederci: è possibile vivere le emozioni senza farci sopraffare da queste?

Ma partiamo dall’inizio, da dove tutto in qualche modo si origina: il nostro cervello.

Emozioni e cervello

La sequenza descritta in precedenza è di una complessità e di una magnificenza uniche, come del resto lo sono tutte le espressioni del nostro organismo, che è una “macchina” meravigliosa e ineguagliabile nella sua efficienza e rapidità.

I meccanismi legati all’espressione delle emozioni hanno un’origine antica, tant’è che i circuiti cerebrali responsabili risiedono nelle parti del cervello più primitive. Sempre per semplificare: quelle che ci accomunano agli animali. Proprio per questo carattere “istintivo”, rapidissimo e automatico, non è per nulla facile riuscire a controllare questi processi. Anzi, a dirla tutta è praticamente impossibile.

Ma l’essere umano, nel corso di moltissimo tempo, ha sviluppato nuove e uniche aree cerebrali che vanno oltre i circuiti più antichi e che ci consentono di vivere le emozioni in maniera più complessa, potendo noi riconoscere, etichettare e, in qualche misura, persino inibire le reazioni emotive.

In ultima analisi, quindi, non siamo completamente schiavi delle nostre emozioni, anche se i meccanismi arcaici che ne sono alla base sfuggono da qualsiasi nostro tentativo di controllo. Ma se non possiamo controllare l’emergere delle emozioni, cosa possiamo fare per gestirle?

Attacco e fuga

Riepilogando, il primo meccanismo che si innesca è una sequenza automatica che è al di fuori del nostro raggio di azione: il cervello interpreta degli eventi e prepara l’organismo a reagire.

Prendiamo ad esempio una delle emozioni più basilari: la paura. Quando proviamo paura è perché c’è qualcosa che sta accadendo (o pensiamo stia per accadere) e che rappresenta una minaccia per la nostra persona. Le risposte possibili, a dar retta al nostro istinto, sono due: o attacchiamo o fuggiamo.

Se davanti a noi c’è un mastino sbavante, chiaramente arrabbiato e minaccioso, sicuramente proveremo paura, ma ancora prima di rendercene conto è probabile che siamo già scappati a gambe levate (di “attaccare” non se ne parla proprio). Qui si vede la potenza del nostro sistema automatico di interpretazione degli eventi e reazione emotiva: non abbiamo bisogno di pensare per sapere cosa fare. Un attimo in più a ragionare sulla situazione e il cagnaccio potrebbe facilmente farci a pezzettini.

In questi casi, gestire l’emozione non avrebbe molto senso. Ma se il cane non c’è? Cioè: se il pericolo non fosse reale, ma solo immaginato?

Pericolo in anteprima

Possiamo dire che, per eccesso di sicurezza, a volte il nostro cervello tende a sovrastimare il pericolo. È, ad esempio, quello che accade quando proviamo ansia. L’ansia, sempre semplificando, è frutto di un’esagerazione della probabilità che possa verificarsi un pericolo, o comunque un evento a noi avverso.

Paura è avere un cane minaccioso davanti, ansia è prefigurarsi la possibilità di trovarselo avanti. E qui le cose si complicano. Se pensiamo di trovarci davanti il temuto Cerbero nel tragitto da percorrere, chiaramente proveremo ansia nel fare quella strada. Come reagiamo allora? Molto semplicemente, evitiamo quel percorso.

Fin qui nulla di male. Impostiamo il navigatore mentale per percorre una strada alternativa e tutto andrà bene. Magari allunghiamo un po’, ma almeno saremo salvi. Non sempre però è possibile percorrere un’altra strada. E se quello che temiamo non fosse un animale (cioè, un qualcosa di tangibile, di concreto), ma qualcosa di più astratto, come ad esempio la paura di sentirsi male? Come si fa a scappare da ciò?

Effetti collaterali

Il nostro cervello, anche se vincolato ad alcuni meccanismi rigidi, è in realtà molto, molto creativo. Che sia un pericolo “fisico” o “mentale”, troverà sempre il modo di evitarlo. Può scoprire e imparare, ad esempio, che se si ha paura di sentirsi male, avere al fianco una persona che può aiutarci in caso di bisogno può farci sentire più sicuri.

Soluzioni come questa, però, anche se geniali e utili nell’immediato, possono avere degli importanti effetti collaterali. Spesso, persino peggiori del pericolo inizialmente temuto. Chi ricerca aiuto psicologico per problematiche legate all’ansia, spesso lo fa perché le soluzioni attuate fino a quel momento sono andate fuori controllo.

Certo, la persona è consapevole che la base di tutto è la paura che c’è dietro certi comportamenti, ma non chiederebbe aiuto se la soluzione individuata funzionasse davvero. Il problema, quindi, è che le strategie attuate non sono più funzionali.

Leggere, rileggere, verificare

Poiché i meccanismi cerebrali inducono una risposta emotiva in seguito a una determinata interpretazione degli eventi, il problema quindi potrebbe essere nella lettura delle situazioni e dei possibili pericoli associati.

Questa è una prima e importantissima chiave di lettura (perdonate il gioco di parole!). Se è l’interpretazione dell’evento a essere sbagliata, è chiaro che è fondamentale imparare a rileggere le situazioni in maniera più oggettiva ed equilibrata. Tenendo inoltre presente che non va valutato solo il presunto pericolo, ma anche le possibilità che abbiamo per poterlo affrontare, spesso fortemente sottostimate (al contrario della minaccia, che viene solitamente ingigantita).

Riuscire a valutare “le cose come stanno” in maniera più obiettiva e razionale è un punto molto importante, ma non è la soluzione definitiva né tantomeno l’unica strategia da perseguire. Un altro elemento fondamentale per riuscire a comprendere e affrontare l’ansia (ma il discorso, tenuto conto delle differenze, è valido per qualunque emozione vissuta come negativa) è affrontarla concretamente.

In sostanza, non è importante solo mettere in discussione il presupposto “ho bisogno di qualcuno che mi stia sempre vicino altrimenti se mi sento male sono spacciato”, è altrettanto importante verificarlo concretamente, in questo caso evitando di ricercare la presenza di una persona che (nella nostra testa) ci tiene al sicuro e vedere cosa succede.

Tra il dire e il fare

Ed è qui che il gioco si fa duro. Non è facile, soprattutto che chi combatte da molto tempo con presupposti e comportamenti disfunzionali, riuscire a mettersi in discussione e affrontare nel concreto l’ansia.

Pur arrivando a comprendere cosa c’è dietro quell’emozione, cioè perché leggiamo la situazione proprio in quel modo (un processo che sopra ho espresso in maniera molto sintetica ma che in realtà è decisamente più complesso), quando ci troviamo davanti all’emozione nuda e cruda ci tremano le gambe.

Del resto, è più che normale. L’ansia è un’emozione assai spiacevole, e siamo automaticamente portati a trovare modi per eliminarla, o comunque per non sentirla. Il pericolo di cadere nelle vecchie abitudini (cioè, le passate strategie disfunzionali per gestirla) è sempre dietro l’angolo.

Ma perché non sopportiamo di sentirla? Perché non tolleriamo assolutamente le possibilità di provare qualcosa di negativo? Perché le emozioni ci fanno così paura?

Tollerare la spiacevolezza

Perché, ancora una volta, entrano in gioco gli automatismi cerebrali. Quando ci troviamo faccia a faccia con l’ansia, ad esempio, noi leggiamo il nostro stato attuale come effettivamente spiacevole, se non pericoloso. Al nostro cervello non piace soffrire (e come biasimarlo?), così urla con forza che dobbiamo scappare da quella situazione, e più cerchiamo di resistere, più le sue grida d’aiuto si intensificano. A un certo punto, quasi inevitabilmente, cediamo. E torniamo al punto di partenza.

Ma se il cervello si sbagliasse? Se l’emozione che proviamo fosse sì spiacevole (inutile negarlo!), ma essenzialmente tollerabile? Cosa succederebbe se, in qualche modo, riuscissimo a stare con la nostra emozione negativa?

Semplicemente, accadrebbe qualcosa di impensabile: se riusciamo a stare abbastanza tempo con le nostre emozioni, ignorando i pianti disperati frutto di un sistema di allarme ricco di pregiudizi sugli effetti delle emozioni, ecco che, a un certo punto, il cervello capìtola.

In sostanza, lo prendiamo per sfinimento. Dopo che si sarà sfogato per bene, capirà che non non gli servirà più urlare, che non c’è niente che possa fare. Allora si zittisce. E l’emozione, pian piano, scemerà. Fino a scomparire.

Tollerare

Stare con l’emozione

Questi miei discorsi, ovviamente, possono solo solleticare la parte razionale del cervello. Per quanto ragionevoli, c’è un solo modo per scoprire se le emozioni sono davvero tollerabili: provare a stare con loro.

Quando ci sentiamo un po’ preoccupati, in ansia o agitati, proviamo semplicemente a stare con queste emozioni. Non c’è bisogno di fare molto altro. Prendiamoci un po’ di tempo, anche solo qualche minuto, e vediamo cosa succede.

Anche se sicuramente sentiremo l’impulso di fare qualcosa (di solito mettere in atto i soliti meccanismi che nel corso del tempo abbiamo escogitato pur di non sentire il dolore, oppure metterci a pensare intensamente alle nostre preoccupazioni), proviamo, solo per questi pochi minuti, a non fare nulla. Volendo, possiamo aiutarci portando la nostra attenzione al respiro, un modo per restare in contatto con noi stessi e non perderci nei bla bla della nostra mente, sempre pronta a farci qualche “sgambetto” per farci desistere.

L’idea di stare semplicemente con un’emozione negativa spaventa, me ne rendo conto. Di solito temiamo che possa accaderci qualcosa di spiacevole, anche se non sappiamo bene cosa. Ma provare a stare con l’emozione, senza cercare di sfuggirvi, è l’unico modo che abbiamo per scoprire cosa succede davvero.

Iniziamo a sperimentare quando le emozioni non sono troppo intense, così sarà più facile metterle alla prova. Dopo un po’ di pratica, nulla ci vieta di provare anche quando le emozioni sono più forti. Se poi hai bisogno di aiuto, io ci sono.

 

Condividi, se ti va :)