Ogni giorno la vita ci pone di fronte a eventi, grandi e piccoli, che in qualche modo ci fanno stare male o comunque ci creano un senso di disagio. Si tratta di esperienze che sono parte integrante della vita e che spesso non è possibile evitare. Ma è possibile imparare a comprenderle e a valutarle da un’altra prospettiva, così da evitare di soffrire più del dovuto?

sofferenza

Tanto tempo fa, quando la psicologia come la conosciamo non era ancora nata, un semplice uomo scoprì una verità tanto semplice quanto apparentemente difficile da comprendere e da applicare. E cioè che quando ci capita qualcosa di negativo, non soffriamo solo per l’esperienza dolorosa in sé, ma anche e soprattutto per il modo in cui reagiamo a questa esperienza.

Egli trasmise questo insegnamento tramite l’immagine di un uomo che, dolorante per essere stato colpito da una freccia, si lascia catturare da un vortice di valutazioni sull’esperienza stessa e finisce per soffrire molto più del necessario. Come se fosse stato colpito non da una, ma da due frecce.

Insomma, costui fu tra i primi a rendersi conto dell’effetto che i nostri pensieri possono avere sulle esperienze che viviamo. E certamente fu anche uno dei primi a cercare e a tracciare un sentiero che potesse condurre alla fine dell’universale condizione di sofferenza dell’essere umano. Questo semplice uomo altri non è che colui che viene comunemente riconosciuto come il Buddha.

Le parole che seguiranno non hanno né lo scopo né la pretesa di risolvere una volta per tutte ogni tua sofferenza, ma sono piuttosto una riflessione su alcuni meccanismi, comuni a tutti, che non fanno altro che ingigantire qualunque sofferenza a cui andiamo inevitabilmente incontro …e chissà, magari scoprire cosa si può fare per evitare di soffrire più del necessario.

Tiro al bersaglio

Ogni giorno, inevitabilmente, ci troviamo a vivere esperienze più o meno spiacevoli. Si va dai piccoli inconvenienti, come il pc che si “impalla” all’improvviso o il rosso del semaforo che scatta proprio quando toccava a noi passare (e siamo già in ritardo), a eventi più significativi e dolorosi, come la perdita del lavoro, la fine di una relazione o il ripresentarsi di un dolore cronico.

Queste esperienze, inutile girarci intorno, fanno parte della vita. Alcuni giorni va tutto relativamente bene, e nulla di negativo (o di significativo) sembra colpirci, mentre in altri siamo costantemente bombardati da eventi spiacevoli, piccoli o grandi che siano. Come se fossimo un bersaglio da arciere, impotenti in attesa della prossima freccia che ci verrà scoccata contro.

Insomma: normalmente veniamo sottoposti, contro la nostra volontà, a numerosi stimoli che possono causarci sofferenza. E già così la nostra vita appare già sufficientemente dura. Ma non finisce qua. Non facciamo neanche in tempo a renderci conto di essere stati colpiti da una freccia che, quasi istantaneamente, ne arriva subito una seconda.

La seconda freccia

In pratica, succede questo: quando ci capita qualcosa di spiacevole, piccola o grande che sia, invece che semplicemente riconoscerla e cercare, se possibile, di rimediare, ci lasciamo catturare da un flusso di pensieri ed emozioni negative su quanto orrenda sia la situazione nella quale ci siamo trovati.

Se attiviamo un interruttore e si brucia la lampadina, invece che riconoscere che è un qualcosa che può capitare (e che, a conti fatti, non è poi tutto questo dramma) e che basterebbe sostituirla con una nuova, automaticamente si attiva una reazione negativa sotto forma di pensieri tipo “Perché deve sempre capitare a me? Perché proprio adesso che ho tante cose più importanti da fare? Sono sicuro che anche se la cambio fra una settimana mi capiterà di nuovo!”. Praticamente non ci diciamo mai “Perdindirindina, è saltata la lampadina! Fa nulla, ora la cambio!”, ma piuttosto tendiamo a reagire in maniera spesso spropositatamente negativa.

Questa è la seconda freccia: una serie di reazioni che si attivano automaticamente quando ci capita qualcosa di spiacevole. Ed è proprio questa seconda freccia che può farci più male. Perché è proprio questo flusso di pensieri, emozioni e sensazioni negative a potenziare ulteriormente la sofferenza dell’esperienza originale e a provocare, in ultima analisi, livelli di ansia e di stress ancora più elevati del dovuto.

Quello della lampadina è un esempio di un evento relativamente insignificante, eppure potrebbe scatenare una reazione negativa e stressante che spesso è peggiore dell’esperienza originale in sé. E quanto possono essere dolorose le emozioni e i pensieri che possono scaturire da sofferenze ben più grandi? Cosa possiamo arrivare a dirci quando finisce una relazione (“Non me ne va mai bene una, resterò solo per tutta la vita) o quando perdiamo il lavoro (“Sono rovinato, resterò per sempre disoccupato e finirò sotto i ponti”)?

Tra l’arciere e il bersaglio

Ma se la prima freccia viene scagliata, diciamo così, “dalla vita” …chi è che scaglia la seconda? Esatto, siamo noi stessi a scagliarla. Noi, che in quei momenti siamo sia vittima che carnefice, sia arciere che bersaglio.

È chiaro che non è un qualcosa che facciamo volontariamente (chi mai lo farebbe, e soprattutto: perché farlo?!), eppure le cose stanno così. Non è colpa nostra, sia ben chiaro: sono abitudini che abbiamo appreso, sviluppato e rinforzato per tutta la nostra vita, supportati dalla naturale tendenza dell’essere umano a “usare troppo il cervello”.

Non è colpa nostra, sì, ma resta comunque una nostra responsabilità non permettere di farci ferire anche dalla seconda freccia. Se la prima è inevitabile, la seconda si può evitare. Anche se non è sempre facile.

L’esperienza in prospettiva

Non è facile proprio perché questa seconda freccia viene scagliata in maniera automatica, e non abbiamo quasi mai la prontezza di accorgerci di cosa ci sta accadendo in quel momento, osservarlo nella giusta prospettiva e rispondere nella maniera più adeguata. È tutta una vita che ci portiamo dietro queste abitudini a esagerare e ad aspettarci il peggio, a giudicare negativamente non soltanto quello che ci capita, ma spesso soprattutto noi stessi. Per questo non è facile.

Ma le abitudini si possono cambiare, per fortuna. E il primo passo è proprio quello di rendersi conto di come le nostre tendenze a ingigantire, amplificare e dilatare la negatività di ciò che ci succede nella vita fanno sì che la nostra vita appaia ancora più difficile di quanto normalmente lo sia già. E di come la sofferenza che proviamo sia maggiore di quella che potremmo realmente provare.

Occorre cioè mettere le cose in una nuova prospettiva. Come? Puoi provare con le “4 R”:

  1. Respira. Quando succede qualcosa, prenditi qualche istante di pausa. I problemi e gli inconvenienti non scappano, ma tu puoi concederti un piccolo momento per fermare tutto e portare l’attenzione a cosa sta succedendo.
  2. Ricorda che le esperienze spiacevoli, piccole o grandi che siano, o il fatto che le cose non sempre vadano come desideri, sono aspetti inevitabili e normali della vita.
  3. Riconosci i pensieri che sono emersi col sorgere dell’esperienza. Cosa hai pensato? Cosa ti è passato per la testa?
  4. Rivaluta questi pensieri sull’esperienza spiacevole secondo una diversa e più ragionevole prospettiva. È possibile che ciò che hai pensato sia esagerato se non addirittura falso? Come puoi pensarla diversamente?

Piccoli passi

Insomma, sii consapevole del flusso di pensieri che si è innescato in seguito all’esperienza e mettili in discussione adottando una prospettiva più ragionevole su ciò che in realtà è accaduto o sta accadendo in questo momento.

È chiaro che un conto è rivalutare la frustrazione per una lampadina che si è bruciata, un altro è considerare sotto una luce diversa un evento come la fine di una relazione. Ma il meccanismo è lo stesso. Comincia quindi dalle cose più facili, come quando ti si “impalla” il computer o versi una bevanda sul pavimento.

Più diventi bravo a mantenere la calma e a non lasciarti catturare dalla corrente dei pensieri e delle emozioni negative quando ti capita qualcosa di “piccolo”, più sarà facile affrontare anche le situazioni più “grandi”. Tornando alla metafora della seconda freccia: prima impari a evitare le freccette, prima riuscirai a evitare i giavellotti.

sofferenza

Dolore e sofferenza

Il messaggio di fondo, comunque, è una grande verità che purtroppo non è così facile comprendere, almeno all’inizio. Questo messaggio è molto semplice, e viene così riassunto in un bel libro di Henepola Gunaratana: “il dolore è inevitabile, la sofferenza no”.

In pratica: ci sono sì cose che ci fanno male, ma è il nostro modo di reagire a queste cose che può finire per farci ancora più male.

…e visto che siamo in vena di riflessioni, augurandovi (per quanto possibile) la cessazione di ogni sofferenza, vi lascio con una riflessione del saggio Thich Nhat Hanh:

Il dolore può anche essere inevitabile, ma il fatto di soffrire o meno dipende da te. Soffrire è una scelta, tu scegli se soffrire o meno.

Nascita, vecchiaia e malattia sono naturali. È possibile non soffrire a causa loro, quando hai scelto di accettarle come parte della vita. Puoi scegliere di non soffrire benché vi siano dolore o malattia.

Come vedi la vita e la tua particolare situazione dipende dal tuo modo di guardare.

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Ci sono giorni dove tutto è tenebra, mentre altri sembrano fatti di pura luce. Ciò che è diverso, in realtà, è la prospettiva dalla quale li osserviamo, il modo in cui guardiamo a noi stessi e alle cose. A volta basta una piccola deviazione dal percorso e il coraggio di voltare pagina per accorgersene. Per scoprire che in fondo non esistono due giorni uguali. Perché ogni cosa cambia, persino noi stessi.

rinascita

Ieri

Fuori è ancora buio. L’unica luce è lo schermo della sveglia, che segna le 4 e 29. Non ricordo di essermi addormentata, né ricordo quando può essere successo. Sicuramente era passata la mezzanotte, anche se ero a letto da molto prima.

È presto, troppo presto. Ma so già che non potrò più chiudere gli occhi, almeno per un po’. Sono settimane che va avanti così: una manciata di ore a notte prima di un’altra giornata a lavoro, desiderando nient’altro che un po’ di pace. Un po’ di silenzio, un meritato e lungo riposo.

Lui sta dormendo dall’altra parte del letto. Sembra avere un sorriso stampato in faccia anche quando dorme. Mi chiedo come faccia, cosa trovi di bello da sorridere. Per quel che mi riguarda, è molto che non rido.

L’altro giorno è venuta a trovarmi mia sorella assieme al mio nipotino. Quanto vorrei essere come lui: spensierato, entusiasta, leggero. Io di leggero ho solo il sonno. Mi viene spesso in mente cosa mi disse mia sorella quel giorno: «Vale, tesoro mio, non ce la faccio a vederti così. Cos’hai? Cosa ti è successo? Cosa c’è che non va?». Secondo lei ho tutto per essere felice, e nessun motivo per non esserlo.

Già, sulla carta sono d’accordo con lei. Ma quel senso di apatia, quella mancanza di energie anche solo per forzare un sorriso, non è un qualcosa che scelgo di avere. È così e basta. Quando poi mio nipote mi ha chiesto di giocare con lui sono riuscita appena ad annuire. Mi sono seduta sul pavimento assieme a lui, ma in realtà l’ho lasciato giocare da solo, mentre io guardavo quei pupazzetti che aveva in mano e mi sentivo esattamente come loro: fredda e inanimata.

Sono stanca, molto stanca. Non me la sento di andare a lavoro oggi. Ad essere onesti non mi va nemmeno di farmi una doccia, di mangiare, di vestirmi, di sistemare il letto. In realtà non ho voglia nemmeno di stare a letto, ma sempre meglio del pensiero di alzarmi.

Gli dirò che non mi sento bene, che resterò nel letto per riposare. Già lo vedo, con l’espressione di chi non ci crede neanche un po’. Ma che senso ha dirgli che ultimamente non riesco a fare altro che restare sotto le coperte, in posizione fetale, circondata da fazzoletti di carta per cercare di arginare le lacrime in piena? Un fiume che scende dai miei occhi gonfi ma senza provocare alcun lamento, quasi il riflesso di un corpo che soffre.

Non so nemmeno perché piango così tanto. Prima che si aprano i rubinetti sento solo un senso di oppressione al petto, che sembra così passare. Almeno per un po’.

Mi faccio schifo così. Sono sempre stata una donna attiva e solare, almeno così mi dicevano gli altri. Adesso sembro l’ombra di me stessa. L’inutile proiezione del mio corpo esposto alla luce. Basterebbe così poco per eliminare ogni dolore, ogni sensazione di inutilità. Basterebbe spegnere la luce.

Per il momento c’è solo quella della sveglia.

Oggi

Cerco dentro di me la forza per sollevarmi dal mio giaciglio, appoggiare i piedi a terra e sedermi sul bordo del letto. Non ho dormito molto, ma anche se l’avessi fatto per otto ore di fila comunque non mi sentirei riposata.

Mi sono svegliata qualche minuto prima della sveglia, ma non importa più di tanto. Ciò che conta è quel magone che anche oggi ho ritrovato poco dopo aver aperto gli occhi. E il silenzio di questa stanza, senza più il suo lieve russare. Senza più lui.

In queste ultime settimane ho capito una cosa importante. Sono io stessa a nutrire il mio dolore. Anzi, la mia depressione. Già, ho questa malattia. Me l’ha spiegato una persona importante, che mi ha aiutato a dare un nome a ciò che prima era innominabile.

È come se ogni mattina, mentre io restavo a digiuno, servivo una ricca colazione all’ombra di me stessa. Ogni volta che restavo nel letto, con gli occhi lividi a fissare il soffitto, era come servire cornetto e cappuccino alla parte di me che mi trascinava a fondo.

A proposito, mi sta venendo fame. Chi nutro oggi, me stessa o la mia ombra? È molto facile cedere alla tentazione di alzare bandiera bianca, ma ormai so bene quali sarebbero le conseguenze. Se non mi alzo dal letto, so che ci resterò tutto il giorno. E questo non posso permetterlo. So che posso alzarmi dal letto, anche se non mi sento di farlo. Basta appoggiare un piede a terra. Ecco, così.

Che fatica, però. Se penso alla giornata che mi attende quasi quasi mi rimetto giù. Ma non erano questi i patti con me stessa. Ok, prendo la mia agendina sul comodino. So bene cosa fare nei prossimi minuti, ma rileggerlo mi aiuta. Mi aiuta a ricordare che dopo “questo” c’è “quello”, ma soprattutto che a “quello” ci posso arrivare.

Sciaquarsi il viso. Bere un bicchiere d’acqua. Mettere su il caffè. Preparare la colazione (“anche se non ho fame”, ho aggiunto). Doccia. Vestirsi. Truccarsi. Uscire.

Mi è sempre piaciuto mangiare cucinare. Così abbiamo deciso che mi darò la “spinta” così. Nell’agendina c’è una piccola tabella in cui segno come è stato cucinare quel dato giorno. Cioè, quanta soddisfazione ho provato. Quando ho iniziato non pensavo nemmeno alla possibilità di poter provare un briciolo di piacere nel fare qualsiasi cosa, persino quelle che prima mi regalavano un’immensa gioia. Quei numerini che ogni giorno segno in agenda mi dimostrano il contrario. Poco alla volta, ho riscoperto quanto mi piace cucinare. Quanto bene mi fa sentire. Cucinare per me, non per l’ombra.

Dopo aver preparato la colazione di solito mi sento meglio. Giusto un po’, quel tanto che basta per avviare la giornata. Non è facile, non lo è per niente. Ma ho scoperto che alla fine basta poco, e quel poco so di poterlo fare.

Oggi pancakes. Con la Nutella. Alla faccia dell’ombra.

Domani

Uccellini. Strano, prima nemmeno li sentivo. Immagino siano sempre stati lì, ma forse non c’ho mai fatto caso. Anche se è inverno, anche se il sole sembra giocare a nascondino con le nuvole, loro cantano a prescindere.

«Buongiorno», mi dico. Un piccolo sorriso, solo per me. Mi alzo, senza fretta, sbadigliando pigramente. È abbastanza presto, ma c’è un po’ di luce. Vado in soggiorno, ma prima apro l’armadio per prendere il mio cuscino. Lo sistemo sul tappeto e mi ci siedo sopra, le gambe incrociate. Qualche momento per guardarmi attorno e sistemarmi comodamente. Un paio di bei respiri e lascio andare. Semplicemente, siedo con me stessa.

Fuori c’è silenzio, a parte lo sferragliare del camion per la raccolta dei rifiuti, mio fedele compagno di meditazione. Non mi disturba affatto. Anzi, mi aiuta a ricordare che lo scopo non è chiudersi in se stessi, ma aprirsi a ciò che c’è, così com’è.

Porto la mia attenzione al respiro. Sento l’aria che entra dalle narici, la immagino raggiungere ogni cellula del mio corpo, nutrendola di vita. L’aria esce, il corpo si rilassa. Il respiro è già finito, ma ecco che ne arriva un altro. È così che vanno le cose: tutto ha un inizio e una fine. Anche il dolore. Ho scoperto che anche quello, prima o poi, è destinato a sparire.

rinascita

Nei mesi scorsi ho passato molto tempo a osservarmi. E ho scoperto che quella tristezza, quella sofferenza che offuscava ogni momento della mia giornata non era altro che un artificio. Anche se il dolore era più che reale. Ma ero io a tenerlo in vita. Perché non ero abbastanza, perché non avevo ottenuto niente dalla vita, perché non era giusto che gli altri fossero felici e io no. Almeno così credevo.

Ho scoperto che la tristezza c’è, e che è giusto che ci sia. Perché nella vita ce ne sono molte di cose che possono rendere infelici. Ma l’indugiare nel dolore, il darsi addosso per partito preso, non fanno altro che alimentare quella tristezza. Mi sembrava che non ci fosse speranza per me, né oggi né domani, ma era l’ombra di me stessa a parlare, l’ombra lunga della mia depressione.

Poi un giorno ho deciso di fare un piccolo passo. E poi ne ho fatto un altro. E da allora ne ho fatta di strada. Ogni tanto mi sono fermata, esitando, ma anche quei momenti mi sono serviti per capire meglio la mia malattia.

Ogni tanto mi ritornano in mente alcune delle frasi che mi martellavano in testa, anche se all’epoca non riuscivo nemmeno a vederle. Anche oggi, nella pace e nel silenzio, mentre siedo assieme a me, ogni tanto riaffiorano. “Sei una stupida. Non vali niente. Nessuno può amarti. Che campi a fare?”.

Le noto, le osservo, le riconosco. Un altro respiro. Puff, non ci sono più. Anche loro, come il respiro, sono destinate a sparire.

Ancora qualche minuto, ho voglia di sentire ancora il mio corpo che respira. Oggi mi aspetta una dura giornata, ma non più del solito. E poi anche questa finirà. E poi stasera c’è Paolo.

Sento lo stomaco che borbotta. Cos’è questa sensazione? Fame?

Fortuna che ieri ho preparato in anticipo i muffin per la colazione.

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Con giornate sempre più piene di impegni e tante piccole cose da fare, abbiamo la sensazione di non avere tempo da dedicare a noi stessi. Ma siamo davvero sicuri di non averne? Possiamo ritagliarci un po’ di tempo per noi? E per farne cosa?

tempo

Sveglia, doccia, colazione al volo, scappa di casa, macchina, traffico, Salaria, Nomentana, GrandeRaccordoAnulare, traffico, semaforo (sempre) rosso, clacson, traffico, niente parcheggio, forsesièliberatounposto.

Ascensore, timbrailcartellino, carte, telefonate, pausapranzaconlavoro, arretrati, vogliadiMaldive, lavoro, lavoro, lavoro.

Esci, traffico, GrandeRaccordoAnulare, Nomentana, Salaria, prendiilfiglioascuola, niente parcheggio, portaloabasket, intantoallaposta (“perchèdiaminenonapronoglialtrisportelli?”), supermercato, fila (“perchédiaminenonapronolealtrecasse?”), riprendiloabasket.

Torna a casa, nonvuolefareicompiti, lavatrice, quandofacciolepulizie?, stiro?, checucino?, cena, sonnecchiasuldivano, preparalacartella+mettiloaletto, mettitialetto. Occhi sbarrati, (dopo un tempo indefinito) sonnocomatoso.

Ripeti.

Correre senza meta

Può variare nei dettagli, ma nella sostanza la sequenza giornaliera della maggior parte di noi è composta da ripetitive azioni come quelle elencate sopra. Le nostre vite, in pratica, tendono sempre più ad assomigliare ad una folle corsa in una ruota da criceti, e spesso abbiamo il sospetto che questi ritmi siano inevitabili.

Alcune cose sono sicuramente inevitabili. Se avete dei figli, è inevitabile che dobbiate prendervi cura di loro e adeguare i vostri tempi ai loro e a quelli della scuola o delle associazioni sportive. Se avete un lavoro, è inevitabile che dobbiate recarvi sul posto di lavoro e dedicare il vostro tempo a determinate attività (in cambio però ricevete un compenso, se siete fortunati). A meno che non viviate in albergo o in una grotta rapida da pulire, è inevitabile che dobbiate affrontare dei compiti domestici. E così via.

Non tutto ciò che fa parte del nostro vivere quotidiano però è inevitabile. Una cosa che sicuramente può essere diversa è il modo in cui ci approcciamo a tutto ciò che non possiamo evitare. Intendiamoci: non sono qui a dirvi che è il caso di mollare tutto e andare e vivere sul cucuzzulo di una montagna (che noia!), ma che è invece possibile mettere da parte tutto quello che è in più rispetto a quanto ci è dato fare.

E non sto parlando solo di delegare ad altri alcuni dei vostri impegni (che è comunque cosa buona e giusta, almeno per voi), ma piuttosto di cominciare a rivalutare il modo in cui solitamente facciamo ciò che facciamo: come se ne andasse della nostra vita e della nostra stessa felicità.

Chi si ferma è perduto

Viene da sé che se ciò che facciamo è questione di vita o di morte, anche il più piccolo degli impegni assume proporzioni gargantuesche. E se riteniamo di non poterci fermare o riposare o essere felici e soddisfatti se non prima di aver concluso tutto o di essere arrivati dove volevamo arrivare, è chiaro che potremmo raramente concederci il lusso di apprezzare noi stessi e il momento in cui dimoriamo.

Siamo sempre sotto pressione, travolti da un enorme mucchio di cose-da-fare e di aspettative sulle cose-da-fare. E, più spesso di quanto ce ne rendiamo conto e proprio a causa di questo pesante carico, finisce che non riusciamo nemmeno a svolgere “come si deve” le tante cose-da-fare. Se siamo sempre agitati, preoccupati, stravolti, stanchi, come possiamo essere davvero efficaci ed efficienti?

Fermarsi? E perché mai? No no, questa cosa è troppo importante! Ma se è troppo importante, non conviene forse fermarsi un attimo, rifiatare e pensare a come farla bene, invece che andare avanti come dei robot?

Se non ci fermiamo, inoltre, corriamo un rischio di cui raramente siamo consapevoli: quello di trascurare completamente i nostri bisogni e i nostri desideri (quelli veri, non “lavacanzaalleMaldive”, che tanto saremmo distratti anche lì), ma anche di non essere presenti agli altri, a chi amiamo e chi ci sta più a cuore. E intanto continuiamo a ripeterci che molto di quello che facciamo lo facciamo solo per noi stessi, o per loro.

Tempo libero(?)

A dirla tutta, abbiamo un gran paura di fermarci. La prova è la tendenza a riempire ogni singolo momento con qualcosa da fare. Apparentemente per la paura di annoiarsi, ma secondo me è la paura del silenzio e di quello che sentiamo nella quiete. Nel vuoto spaventoso dove echeggiano i nostri pensieri.

Perché appena abbassiamo la guardia, ecco che tornano a infestarci tutte le nostre preoccupazioni, le nostre ansie, le nostre paure, i nostri rimuginii su chi siamo, cosa facciamo, dove stiamo andando. No: meglio accendere la tv, giocare a Candy Crush, scorrere pigramente il feed di Facebook, aprire il frigo e ingozzarsi. Tutto, pur di riempire il tempo.

Così, passiamo dalle cose-da-fare alle cose-contro-la-noia, in un’incessante sequela di azioni per riempirci la vita. E poi diciamo di non avere tempo.

E in tutto questo, noi dove siamo? Cosa facciamo davvero per noi? E gli altri? Ci siamo per gli altri (al di fuori di Facebook, intendo)?

“Passiamo” il tempo, ma non lo viviamo.

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Prendersi tempo

Al di là delle cose-da-fare, quelle che consideriamo inevitabili, cosa ci porta a occupare il breve tempo a nostra disposizione di altro fare-fare-fare? Quali impulsi ci spingono a riempire così la nostra vita, che poi ogni tanto percepiamo come “troppo piena”, senza un attimo per rifiatare, e magari ne soffriamo pure? Cosa ci porta a colmare la nostra clessidra, per poi chiederci dov’è andata tutta la sabbia?

Quando siamo tra le cose-da-fare, perché non fermarsi un attimo e vedere cosa stiamo facendo, cosa stiamo provando, cosa stiamo pensando? Chissà, forse così potremmo riuscire ad assumere una prospettiva leggermente diversa, riuscire ad alleggerire il carico che aggiungiamo alle cose-da-fare. Vedere il traffico mentale mentre siamo nel traffico stradale, e scoprire l’effetto che fa. A lavoro dovrai andare lo stesso, il traffico non lo potrai evitare, ma chissà che non scopri qualcosa di diverso.

Quando siamo in procinto di fare le cose-contro-la-noia, perché non fermarsi un attimo e scoprire cosa ci spinge a fare qualcosa? Cosa senti, cosa provi? Dove sei in questo momento, tra i rimorsi e i rancori del passato o tra le ansie e le cose-da-fare del futuro? Quali emozioni si affacciano? Riesci a starci per un po’ a contatto? Cosa ti dicono? Riesci a starci qualche altro secondo in più? Che effetto fa? Cosa succede? Anche così, chissà di non scoprire qualcosa di diverso.

Un minuto

Ammazza quante domande! Te ne faccio un’altra (l’ultima, promesso!): perché non provi?

Ovunque tu sia, qualunque cosa tu stia facendo o senti il bisogno di fare, prova a fermarti, a chiudere gli occhi (non se stai guidando) e sentire cosa sta succendo in quel momento. Anche solo per un minuto, prova a metterti in contatto con quello che sta accadendo. Respira, non fare altro, ciò che devi sentire verrà da sé. E non aver paura di ciò che potrai trovare, al massimo dopo quel minuto non ci sarà più e potrai tornare a immergerti a pieno nel solito tran-tran, se lo vorrai.

Un minuto, e scopri cosa succede. Prendilo come un gioco. Magari, di minuto in minuto, potremmo capire come riuscire a gestire meglio il tempo nella nostra vita. Che in fondo, parafrasando i Litfiba, è solo un gioco di equilibrio. Bisogna solo farci un po’ la mano.

 

Hai provato? Ti sei preso un minuto per te? Troppo difficile o pensi di non sapere bene come fare? Se vuoi posso darti una mano. Tu intanto prova, e se vuoi fammi sapere com’è andata!

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